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Karol Modzelewski (1937-2019): vita di un militante per la eguaglianza e la fratellanza

di Jan Malewski

«A favore del capitalismo io non avrei certo fatto otto mesi di prigione, neanche uno, nemmeno una settimana!» Così è sbottato Karol Modzelewski, in occasione di una cerimonia per l’anniversario della fondazione del sindacato Solidarność, sentendo dire da Lech Wałęsa, il presidente di quel sindacato divenuto presidente della Repubblica, che «noi abbiamo lottato per il capitalismo, e abbiamo vinto, ma non lo avevamo detto, perché la gente non lo avrebbe capito».

Già critico marxista rivoluzionario del regime burocratico, leader spirituale della rivolta dei giovani nel marzo 1968, storico medievalista, eletto senatore e immediatamente dopo divenuto un oppositore delle politiche neoliberali, docente universitario e vicepresidente dell’Accademia polacca delle scienze, Karol Modzelewski è morto il 28 aprile scorso, all’età di 81 anni. Oltre a ciò che è stato elencato sopra, aveva anche avuto modo di conoscere il carcere come prigioniero politico: dal marzo 1965 all’agosto 1967, dal marzo 1968 al settembre 1971 e dal dicembre 1981 all’agosto 1984. Dall’inizio della sua vita attiva sino all’ultimo giorno è stato un uomo che si è battuto per la libertà, per l’eguaglianza, per la solidarietà.

 

Un’infanzia russa

Era nato a Mosca il 23 novembre 1937, all’apogeo del terrore staliniano, come Kyril (Cyril) Budnevitch. Suo padre, Alexander, un sottufficiale, verrà arrestato diciannove giorni dopo, e condannato a otto anni di campo.

Nel 1939 sua madre, Natalia Wilter, accoglie in casa Zygmunt Modzelewski, un comunista polacco emigrato in Francia ed entrato a far parte del Comitato centrale del Partito comunista francese, come responsabile della sua sezione polacca. Convocato a Mosca nel 1937, vi è imprigionato e torturato, e deve la sua liberazione solo alla caduta di Nikolaj Ježov. Durante la “tregua di Berija”, che aveva sostituito Ježov alla testa del NKVD [Commissariato del popolo per gli affari interni, uno degli “antenati” del KGB] e che aveva inizialmente temperato il terrore staliniano, un certo numero di prigionieri, che non avevano ammesso le colpe di cui erano accusati, venne liberato.

Zygmunt, diventato il secondo marito di Natalia, fu nominato responsabile dell’Unione dei patrioti polacchi, fondata nel 1941 dopo l’invasione dell’URSS da parte dei nazisti. In quell’epoca adottò il piccolo Kyril, dandogli il proprio cognome. Kyril, tuttavia, visse gran parte della guerra in un istituto per i figli dei «compagni stranieri», in cui si inculcava nei piccoli il sentimento di appartenenza alla nazionalità russa.

Solo dopo il novembre 1945, quando si trasferì in Polonia, dove il padre era stato nominato ministro degli Esteri, il giovane Kyril apprese il polacco, mentre il suo nome veniva cambiato in quello di Karol (Carlo), per evitare che venisse trattato come uno straniero. Nel 1947, in occasione di un viaggio in Russia di sua madre, incontrò brevemente e per la prima volta il padre biologico, sopravvissuto ai campi. Lo rivedrà più a lungo nel gennaio 1956, e lo sentirà parlare dei campi di lavoro sovietici.

Karol Modzelewski è venuto a conoscenza della storia della sua famiglia solo nel 1954, dopo la morte di Stalin. Ha così saputo che suo nonno materno e il proprio padre biologico erano stati deportati. In risposta a una sua domanda, il padre adottivo gli aveva detto: «Sono stato incarcerato alla Lubianka dall’ottobre 1937 al luglio 1939. Hanno tentato di strapparmi un’autoaccusa e false ammissioni a danno di altre persone. È la Lubianka che m’ha rovinato il cuore. Prima avevo una salute eccellente». Morì poco tempo dopo.

Ministro, poi membro del Consiglio di Stato e del Comitato centrale del partito, il padre adottivo aveva trasmesso a Karol il suo spirito critico. Nella memoria di Karol è rimasto impresso un episodio: un amico dei suoi genitori era stato accusato falsamente di spionaggio e suo padre era esploso: «Arrestato non significa affatto colpevole!» In un’altra occasione, avendogli chiesto perché vi era stato un aumento del prezzo dei generi alimentari, gli aveva risposto: «Perché la gente mangi meno e lavori di più». Ancora: agli inizi degli anni Cinquanta, quando un ex collaboratore di suo padre, che era diventato primo segretario del partito in Slesia, si pavoneggiava per i successi ottenuti nell’imporre certe regole di sicurezza ai minatori, aveva gridato: «In che cosa dunque lei differisce dai proprietari d’anteguerra, che trattavano i minatori come bestiame? Quelli stessi che licenziavano la gente a causa di una scatola di fiammiferi [introdotta di nascosto in miniera]. E noi abbiamo scioperato contro di loro!»

Ma è solo molto più tardi che apprenderà anche che suo padre, che aveva aderito al SDKPiL[1] nel 1917 e che pertanto aveva poi partecipato alla fondazione del Partito comunista, si era arruolato come volontario nell’esercito polacco per contrastare la marcia dell’Armata rossa su Varsavia. Certi segreti non potevano essere svelati neppure dopo la morte di Stalin[2].

 

Dalla contestazione alla rivoluzione

Karol Modzelewski si iscrive, ancora liceale, all’organizzazione giovanile del Partito comunista, la ZMP [Unione della gioventù lavoratrice], una di quelle organizzazioni, scriverà poi nelle sue memorie, «che avevano come obiettivo l’indottrinamento dei cittadini in generale, e dei giovani in particolare […]. Per mantenere i ranghi serrati, dovevamo credere nel nostro ideale senza il minimo dubbio, e avere un nemico […]. Ricordo ancora, e ne provo vergogna, di aver partecipato a questa sorta di persecuzione […], ho sofferto di questa malattia ma ho sviluppato i necessari anticorpi: quando vedo un gruppo prendere di mira qualcuno, avverto immediatamente il lezzo della persecuzione e ne provo disgusto» [3].

Essendo già venuto a conoscenza della realtà del terrore staliniano da parte delle sue vittime e di testimoni oculari, quando inizia il «disgelo» sente il bisogno di «comprendere e chiarire queste nuove informazioni, per dar loro un senso e, a partire da questi sparsi frammenti, riapprodare a una nuova concezione del mondo».

Il rapporto segreto di Chruščëv sui crimini di Stalin, del febbraio 1956, viene tradotto e largamente diffuso in Polonia. Il Primo segretario del partito polacco muore a Mosca poco dopo averne appreso il contenuto.

Nel giugno 1956 a Poznan si scatena uno sciopero generale insurrezionale. Il regime lo soffoca nel sangue, ma il governo è poi costretto ad arretrare di fronte all’ampiezza del movimento di protesta contro la repressione e al rafforzarsi dell’opposizione all’interno del partito. Nelle strutture di base, ma anche nelle istanze a livello regionale del partito, vengono eletti nuovi organismi dirigenti. La nuova direzione del partito della FSO Zeran, la fabbrica di automobili di Varsavia, invita a creare ovunque i consigli operai. La branca dell’Unione della gioventù lavoratrice (ZMP) dell’Università di Varsavia decide di collaborare con gli operai della FSO. E così, nel settembre 1956, Karol Modzelewski è incaricato dai suoi compagni di organizzare delle riunioni con gli operai della FSO.

In ottobre, nonostante l’opposizione del Cremlino e addirittura un primo movimento di truppe in direzione di Varsavia, Władysław Gomułka, già dirigente del partito destituito e incarcerato per “deviazionismo nazionalista-destrorso”, viene eletto segretario generale. Nel suo primo affollato comizio, il 24 ottobre, rivolge un appello al popolo affinché «riprenda il lavoro e lasci la politica nelle mani del partito e del governo».

A questo primo tentativo di normalizzazione si oppongono quei giovani radicalizzati, studenti e operai, che agli inzi di dicembre 1956 avevano costituito una Unione rivoluzionaria della gioventù (ZMR). Ma il partito aveva provveduto a creare una propria organizzazione, e impone alla ZMR di fondersi con questa nel gennaio 1957. La normalizzazione prosegue con la repressione dello sciopero dei tranvieri di Varsavia (settembre 1957), la chiusura del settimanale della “sinistra di ottobre”, «Po Prostu» [“Semplicemente”] e la brutale dispersione delle dimostrazioni contro la censura (ottobre 1957). Viene poi, nel 1958, la nuova legge sull’autogestione, che subordina i consigli operai al partito.

«L’unica significativa eccezione che spicca su questo sfondo», scrive Modzelewski mezzo secolo più tardi, «è la dichiarazione ideologica dei contestatori dell’università, scritta con l’intenzione di avviare una discussione che avrebbe dovuto sfociare nel programma di una nuova organizzazione rivoluzionaria […]. Rileggendo oggi quei quattro fogli ritrovati […] quel che mi sembra essenziale [è che] la nostra riflessione d’allora conteneva – nonostante una sua incoerenza e assenza di chiarezza – un genotipo ideologico che, qualche anno dopo, avrebbe prodotto la Lettera aperta al partito» [5].

Con il progredire della normalizzazione della società, lo studente di storia medievale Karol Modzelewski comincia ad avere il tempo di partecipare ai seminari del suo professore, cosa che aveva difficilmente potuto fare quando contemporaneamente ad essi si svolgevano riunioni con gli operai della FSO. Non faceva più parte della direzione dell’organizzazione giovanile di Varsavia, dalla quale si era dimesso quando il partito l’aveva “normalizzata”. Studente brillante, ottiene una borsa di studio e, nel 1961, trascorre un anno in Italia. Dove dice di aver scoperto «la libertà».

«Ciò che mi fece prendere posizione contro la Repubblica popolare polacca», scrive, «non furono tanto i colloqui con un trotskista [Livio Maitan], con diversi eurocomunisti, con numerosi socialisti o democristiani». Fu il «contrasto fra la quotidianità di un Paese libero e quella della Repubblica popolare al tempo della “piccola stabilizzazione”. All’epoca ne provai una profonda umiliazione […]. L’esperienza della rivolta del 1956 era alle mie spalle. Sapevo che si doveva ritornare su quella esperienza e farne una critica serrata […] per elaborare un programma d’azione contro quel sistema. Occorreva cominciare a mettersi assieme, formulare un appello rivolto a tutti coloro che la pensavano nello stesso modo, anche se all’inizio non fossimo stati che un gruppetto» [6].

Di ritorno in Polonia nella primavera del 1962, assieme a Jacek Kuron, suo mentore politico e amico dal 1956, si dedica pazientemente a questo compito. I due organizzano dei gruppi aperti di discussione all’università, stabiliscono rapporti con i «revisionisti» [7] e con i militanti trotskisti polacchi Kazimierz Badowski e Ludwik Hass. Riescono a prendere la direzione dell’Unione della gioventù socialista (ZMS) dell’Università di Varsavia. Ma non ritenevano che questo isolotto di libertà potesse essere conservato a lungo. «Era evidente che, in questo sistema, un’attività indipendente non era possibile che contro le regole vigenti nel partito e nelle organizzazioni sociali ad esso subordinate. E cioè al di fuori della legalità» [8].

Risolvettero pertanto di formare un gruppo deciso a elaborare un programma sulla cui base costituire «una organizzazione rivoluzionaria clandestina». Questo gruppo risultò composto da sette studenti universitari, tre scout e un operaio della FSO. E solo quest’ultimo «diede prova di avere un istinto degno di un cospiratore»: infatti i sei altri operai che aveva raccolto attorno a sé non furono mai conosciuti dagli altri membri del gruppo…

Precauzione non inutile, perché fin dall’inizio uno dei membri del gruppo era in realtà un agente della polizia politica, così come lo erano un contatto a Cracovia e uno degli amici di Hass, al quale quest’ultimo non nascondeva niente… Come se non bastasse, all’interno del gruppo clandestino v’erano numerose divergenze sul programma: uno dei suoi componenti propendeva per un orientamento in senso più nazionalistico, un altro tendeva a fare un’analisi dell’economia di tipo accademico.

Finì che il progetto di manifesto venne redatto dai soli Kuron e Modzelewski. L’unica copia di questo testo venne confiscata nel corso delle perquisizioni nelle case dei due autori, il 14 novembre 1964. Poco dopo le matrici per il ciclostile su cui era riprodotto, e che Kazimierz Badowski aveva passato a Karol, vennero distrutte, «per non servire come prove a carico». Quanto al ciclostile, procurato dai militanti della IV Internazionale, venne confiscato.

Dapprima minacciati di essere incriminati per delitti contro lo Stato (artt. 155-1 e 2 del Codice penale del 1932, che il regime stalinista aveva mantenuto e che Kuron e Modzelewski definivano uno «strumento della dittatura semi-fascista»), i membri del gruppo vengono però liberati dopo 48 ore: «Ai più alti livelli politici si preferì evitare un processo, espellendo i colpevoli dal partito e dall’università». A fine novembre, dunque, le organizzazioni universitarie e giovanili del partito li espellono, senza prendere conoscenza del loro manifesto confiscato. È questa circostanza che induce Karol Modzelewski a riscrivere, assieme a Jacek Kuron, e basandosi solo sulla memoria, il testo noto come Lettera aperta al partito, un riassunto del manifesto scomparso. Non c’era più modo di stamparlo, e così se ne fecero solo 17 copie: due inviate ai comitati universitari del partito e della gioventù il 18 marzo 1965, gli altri diffusi fra gli amici. Alle sei del mattino del 19 marzo i due vengono arrestati e, nel luglio successivo, condannati al carcere: tre anni e mezzo per Modzelewski e tre anni per Kuron. Al loro processo fa seguito quello dei militanti che si rifacevano al trotskismo: Badowski, Hass e Romuald Śmiech.

Rievocando la loro iniziativa nel 1966, un intellettuale d’opposizione, animatore del “Club del Cerchio storto”, che emigrò poco dopo che questo era stato posto fuorilegge nel 1962, scriveva: «Gli operai hanno dato prova di una grande determinazione. Ma quel che mancava loro era un programma e non sapevano sempre esattamente per cosa lottassero. “Po Prostunonostante i suoi meriti, non era capace di essere coerente sino in fondo. Il “Cerchio storto” e gli altri embrioni d’opposizione “intellettuale” erano impegnati più nei dibattiti che nel picchiare i pugni sul tavolo. A paragone di tutto ciò, il gruppo di Modzelewski appare come l’unico gruppo rivoluzionario nel senso classico» [9].

Se questo gruppo rivoluzionario è stato smantellato fin dal 1965, la cerchia dei giovani che aveva cominciato a influenzare aveva però assimilato le sue analisi. Gli autori della Lettera, liberati alla fine del 1967, del tutto naturalmente sono diventati i leader degli studenti polacchi che si mobilitavano contro l’abolizione dell’autonomia universitaria e l’inasprimento della censura. Le manifestazioni a Varsavia del 30 gennaio 1968 contro la proibizione della rappresentazione de Gli antenati, un’opera teatrale antizarista del grande poeta polacco Adam Mickiewiz, e, in seguito, in marzo, gli scioperi degli studenti in tutto il Paese contro l’espulsione di alcuni insegnanti e studenti, portano a un nuovo arresto di Kuron e Modzelewski. La loro incarcerazione suscita un movimento internazionale di solidarietà e fa sì che la Lettera, tradotta in numerose lingue e pubblicata dalla IV Internazionale, divenga un documento di riferimento per la nuova sinistra internazionale. È pertanto utile soffermarcisi sopra.

 

Un programma rivoluzionario antiburocratico

Criticando la caratterizzazione di «socialisti» autoattribuitasi dai regimi burocratici, i suoi autori scrivono nella Lettera aperta che «la burocrazia detiene la totalità del potere politico ed economico, privando la classe operaia non solo di ogni potere e di ogni possibilità di controllo, ma anche degli strumenti di autodifesa». Inoltre, in quanto «detentrice dei mezzi di produzione», è definibile come «classe dominante» [10].

«Nel sistema attuale», scrivono, «l’operaio, sotto forma di salario e di servizi, non ottiene che il minimo vitale. Il sovraprodotto gli viene preso con la forza […] e viene usato a fini che gli sono estranei e addirittura ostili. Ciò vuol dire che è sfruttato» [11]. Sottolineando la contraddizione fra il potenziale economico sviluppato e il basso livello del consumo sociale, essi prevedono la crisi economica del sistema, concludendo: «Tale sviluppo passa necessariamente attraverso la rivoluzione» [12].

Essi proponevano una società nuova: “la democrazia operaia”, «Un sistema in cui la classe operaia organizzata sarà padrona del suo lavoro e del suo prodotto; in cui determinerà il fine della produzione sociale e l’indirizzo degli investimenti; in cui sarà essa a decidere della ripartizione del prodotto nazionale. […] Per questo è necessario che la classe operaia, oltre ai consigli operai nelle aziende organizzi rappresentanze di queste aziende nel paese […]»; essa «deve fare del direttore un funzionario subordinato al Consiglio, controllato assunto e licenziato dal consiglio per l’economia nazionale: in altri termini stabilirà gli obiettivi della produzione sociale […]» [13].

Ritenevano inoltre che «la classe operaia deve organizzarsi sulla base di una pluralità di partiti», che fossero necessari «la soppressione della censura preventiva [..]», «sindacati del tutto indipendenti dallo Stato che abbiano il diritto di indire scioperi economici e politici.», che «alcune ore della settimana , pagate e comprese nell’orario legale, siano dedicate all’istruzione operaia generale […]», che andassero aboliti la polizia e l’esercito regolare permanente e che anche l’autonomia politica dei contadini fosse un’esigenza della democrazia operaia» [14].

Scrivendo queste cose, Kuron e Modzelewski «suggerivano chiaramente», commenta Michał Siermiński, «che il programma rivoluzionario dovesse nascere essenzialmente “dal basso”, negli ambienti operai, con un eventuale ruolo secondario dell’intellighenzia» [15]. Durante il suo processo nel 1965, Modzelewski precisava: «La rivoluzione non può risultare da appelli, perché è l’effetto di tensioni oggettive in seno alla formazione socioeconomica» [16]. «Fin dall’opuscolo redatto in precedenza – la traccia (confiscata nel novembre 1967) per scrivere la Lettera aperta - gli autori affermavano con chiarezza», aggiunge Siermiński, «che il programma rivoluzionario deve nascere “con la più ampia partecipazione della classe operaia”, ed è per questo motivo che essi si ripromettevano “la formazione di circoli operai, che avrebbero discusso […] e rappresentato il nucleo del partito”» [17]. «Gli autori valutavano in modo molto modesto la loro funzione sociale: Modzelewski sottolineava come essi fossero degli scienziati e il loro ruolo fosse quello “di analizzare la realtà, di porre in discussione questa analisi e di comunicarne i risultati alla società”» [18]. Una concezione del partito e del ruolo della classe operaia molto lontana dalla concezione staliniana del «partito dirigente». Ma anche una concezione del ruolo degli intellettuali intesi come al servizio della classe operaia. Questa concezione, osserva Michał Siermiński [19], s’ispirava alle critiche che all’inizio del XX secolo Rosa Luxembourg e Jan Waclaw Machajski formulavano alla concezione elitaria e paternalistica dominante nell’intellighenzia indipendentista e social-patriottica polacca: quella di una élite nazionale “illuminata” che elargiva, dall’alto e dall’esterno, l’emancipazione al popolo. È contro l’interpretazione dell’intellighenzia con un «ruolo di leader di tutta la nazione, di forza dirigente che servirà - ma anche eserciterà - il potere, che susciterà l’entusiasmo e concilierà i conflitti, lavorando costantemente per il bene della patria recuperata» [20], che Kuron e Modzelewski si battevano allora.

Karol Modzelewski mi ha detto un giorno di non aver mai aderito alla IV Internazionale, contrariamente a quanto ricordava Livio Maitan, dopo gli incontri che avevano avuto in Italia nel 1961. [In realtà Maitan già in quegli anni usava la formula: “è molto vicino alla Quarta” e nelle sue memorie scrisse: «Modzelevski [sic] avrebbe trascorso un periodo di studi in Italia, in particolare a Venezia, stabilendo ottimi rapporti, anche se non formali, con la nostra organizzazione». Livio Maitan, Per una storia della IV Internazionale, Edizioni Alegre, Roma 2006, nota a pag 93 NdR]

Aveva però letto i libri di Trotskij, e dal 1957 riceveva la rivista Quatrième Internationale, che faceva circolare fra i suoi compagni che comprendevano il francese. È pertanto normale che nei suoi scritti degli anni Sessanta certe sue idee appaiano come una riappropriazione delle riflessioni del marxismo critico e che in occasione dei processi cui fu sottoposto la burocrazia si sia interrogata sul fatto se avesse o meno interesse a trasformarli in “processi al trotskismo”.

 

Una sconfitta e una svolta politica

Il nuovo imprigionamento di Kuron e Modzelewski e in seguito la repressione del movimento del marzo 1968 segnano una svolta politica nella storia dell’opposizione polacca, almeno per tre aspetti. Il movimento del marzo 1968 è passato alla storia come un movimento di studenti e di intellettuali, ma è stato ben più di questo: «Fra gli arrestati si trovavano ben più operai che studenti, e la loro caratteristica comune era l’età, erano tutti nati dopo la fine della guerra» [21].

1. Per Karol Modzelewski si trattava di una svolta strategica. Nella Lettera aperta…, gli autori spiegavano che «il movimento rivoluzionario non potrà non estendersi a tutto il blocco [Cecoslovacchia, Rdt, Ungheria e Unione Sovietica, NdR.], e la possibilità di intervento armato da parte della burocrazia sovietica dipenderà dalla gravità dei conflitti di classe in URSS» [22]. E nel 2013 Modzelewski precisava: «Si può dire che è nel 1968 che io mi sono disilluso: non in seguito ai fatti di marzo, ma all’intervento in Cecoslovacchia dell’agosto. […] Sin dalla mia liberazione nel 1971, non ero più un rivoluzionario. Non credevo più nella mia utopia, nella mia visione di una Polonia ideale. Mi restava solo la mia scala di valori» [23]. Coerente con sé stesso, non ritenendo più possibile una vittoria della rivoluzione, quando nel settembre 1971 Karol Modzelewski uscirà di prigione si dedicherà alla ricerca storica. Per un decennio non militerà più quotidianamente nell’opposizione. Così non si troverà fra i firmatari della Lettera dei 59 contro le modifiche alla Costituzione, che nel 1975 permise all’opposizione intellettuale di riemergere, né ha aderito al Comitato di difesa degli operai (KOR) dopo gli scioperi del 1976, limitandosi a scrivere una lettera all’allora primo segretario del partito, Edward Gierek, in cui lo esortava a un «ritorno ai principi del dialogo con la società, proclamati e parzialmente praticati nel periodo che ha fatto seguito immediatamente al dicembre [1970: ondata di scioperi operai,NdR.], e il cui coraggioso proseguimento con conseguente messa in pratica aprirebbe la strada a una uscita efficace dalla crisi» [24].

2. La corrente di pensiero politico che sino al marzo 1968 si era ispirata alle idee della Lettera aperta sperava che il regime, per quanto degenerato fosse, si collocasse in qualche modo fra il capitalismo e il «vero comunismo». Rappresentasse dunque un anello della catena storica del progresso, e che potesse quindi essere ricondotto sulla buona strada, sia pure con metodi rivoluzionari. Ma scatenando una campagna antisemita e le proprie bande contro i dimostranti, le autorità apparvero allora agli occhi degli oppositori di sinistra non più come un blocco reazionario d’apostati della fede comune, che usurpavano il potere politico e impedivano ogni trasformazione progressista, ma come una dittatura di forze oscure, fasciste. «Era la fine, definitiva, dei sogni sul progresso e sul “vero comunismo”», scrive Michał Siermiński [25]. Se lo storico Karol Modzelewski non condivideva le illusioni positivistiche sul senso di marcia della storia, queste però erano state coltivate negli ambienti che a lui si rifacevano.

3. Nella Lettera aperta si trova un’affermazione sorprendente. «Si può quindi dire che sono state le esigenze della industrializzazione di un paese sottosviluppato», sta infatti scritto, «a dare origine alla burocrazia come classe dominante: essa era la sola che potesse rispondere a queste esigenze in quanto, nelle condizioni di sottosviluppo del paese, era la sola per cui l’industrializzazione, cioè la produzione per la produzione, si identificasse con l’interesse di classe» (Lettera,cit., p. 66). Commentando, nel 1966, la Lettera aperta, Ernest Mandel aveva sottolineato come l’unica divergenza seria fra i suoi autori e la IV Internazionale non risiedeva tanto nel fatto che essi considerassero la burocrazia come una classe, quanto in quello che «la loro posizione li conduce ad attribuire alla “classe burocratica” un ruolo progressista, che noi le rifiutiamo» [26]. Non si trattava di una divergenza terminologica, ma di fondo. «Facendo della burocrazia una nuova classe dirigente», spiega infatti Zbigniew Kowalewski, «Kuron e Modzelewski erano coerenti: l’hanno trasformata in una classe storicamente autonoma e necessaria, e pertanto – non fosse che solo per un periodo molto breve – in ascesa» [27]. «Forse», prosegue, «è proprio questa teoria sulla burocrazia politica come nuova classe dominante, storicamente necessaria nel primo decennio del dopoguerra, che ha completamente eclissato ai loro occhi un aspetto del regime burocratico fondamentale sin dai suoi inizi: il suo carattere nazionalista, e pertanto inevitabilmente contraddistinto da una dinamica antisemita. Questo aspetto è piombato su di loro e sull’opposizione come un fulmine a ciel sereno nel marzo 1968, con un impatto enorme sulla loro evoluzione ideologica e politica [28]. «Perché», spiega, «la nuova ondata antisemita non è caduta dal cielo nel marzo 1968, ma è stata il punto culminante della costruzione di uno Stato con una sola nazione, sulla base di una pulizia etnica permanente. Era anche il prodotto dell’alleanza del potere burocratico con le forze nazionaliste e dell’influenza acquisita in seno all’apparato del POUP [Partito operaio unificato polacco] e all’amministrazione statale dalla lumpen-borghesia costituitasi sulla base dell’Olocausto e della pulizia etnica» [29].

Le conseguenze delle sconfitte del 1968 in Polonia e in Cecoslovacchia sono state durature per l’opposizione polacca. Quando nel mondo capitalista la nuova sinistra diffondeva la Lettera aperta, in Polonia, commenta Friszke: «mentre negli anni Sessanta era stato il documento più importante – la conclusione di una critica del sistema […] ­, in quelli successivi non risvegliava più alcuna curiosità. Faceva parte di una fase chiusa. Gli stessi suoi autori ne avevano preso le distanze per via del linguaggio impiegato e del giudizio sugli avvenimenti» [30].

A questo proposito è significativo che, mentre gli scioperi operai del dicembre 1970 e del gennaio e febbraio 1971 hanno costretto la burocrazia ad arretrare, imponendole addirittura una discussione con il comitato di sciopero, a Stettino, alla presenza degli scioperanti riuniti in assemblea generale (confermando così l’analisi secondo la quale lo sfruttamento era l’asse centrale del conflitto sociale), l’opposizione intellettuale continuasse a prendere le distanze dal programma della Lettera aperta. Karol Modzelewski ricorda che, usciti di prigione, avevano ascoltato la registrazione della discussione fra gli operai in sciopero e il nuovo segretario del partito, Edward Gierek, nei cantieri navali di Stettino. «Abbiamo avuto l’impressione», scrive, «che il verbo si fosse fatto carne. La classe operaia si è materializzata in quanto soggetto politico in grado di costringere al dialogo le più alte autorità di un Paese comunista, e aveva saputo esprimersi in questo dialogo con la propria voce [31]. «Questo verbo fatto carne», commenta Z. Kowalewski, «era evidentemente la Lettera aperta. Ironia della sorte, l’opposizione, sconfitta nel marzo 1968, vi aveva già rinunciato, e una volta per tutte».

 

«Volevo diventare uno storico»

Uscendo dal carcere, nel 1971, Karol Modzelewski era «un rivoluzionario provato dalla vita», che riteneva che «la dottrina Brezhnev ostacolava le nostre aspirazioni» e non credeva più alla possibilità di «una fiammata rivoluzionaria che, da dovunque partisse, potesse incendiare tutto l’impero, investendo Mosca». Inoltre, raccontava nel 2013, «non è affatto vero che io volessi fare il rivoluzionario per tutta la vita. […]. Volevo diventare uno storico. Ma, sfortunatamente, capitava sempre qualcosa che faceva sì che ci si dovesse impegnare. Jacek Kuron diceva che io sono un politico della domenica» [32].

Volendo proseguire le sue ricerche storiche, pensava di non poter continuare a impegnarsi in una militanza attiva per scopi in definitiva limitati, perché era dell’opinione che si dovesse «accettare la liberalizzazione proposta dall’équipe di Gierek, e cioè sforzarsi realisticamente di consolidarla e svilupparla» [33]. Tra le due tradizioni polacche, quella romantica (delle insurrezioni) e quella positivistica (della difesa del fatto nazionale), aveva optato per la seconda.

«Mi capitava di provare imbarazzo, persino vergogna, ma devo confessare che non me ne sono pentito: la maggior parte delle mie realizzazioni sul sistema politico e sulla società della Polonia dei Piasti [la dinastia polacca medievale] risalgono agli anni 1971-1980» [34]. Le sue opere l’Organizzazione economica dello Stato dei Piasti. X-XIII secolo e I contadini nella monarchia dei primi Piasti [35] hanno rappresentato una rivoluzione negli studi storici, rimettendo in discussione il dogma (non solo staliniano) di un feudalesimo polacco, oltre a quello sul «senso della storia». Ha inoltre pubblicato, dapprima in italiano, nel 1978, uno studio innovatore sulla società italiana sotto i Longobardi e i Carolingi, che più tardi amplierà nell’Europa dei barbari [36].

 

1980: una rivoluzione operaia… senza strategia

Quando, nell’agosto 1980, gli scioperi cominciano a generalizzarsi, Modzelewski non ha esitazioni. «Non si poteva resistere», scrive. «Fu necessario aderire. La libertà aveva spinto il popolo sulle barricate. Dovevo seguire il popolo. E inserirmi nel movimento popolare in modo tale da introdurvi la necessaria dose di ragionevolezza» [37]. Perché «la Polonia si trovava alle soglie della rivoluzione» e «la rivoluzione non rientra nelle formule razionali dei politologi, perché è un eccezionale stato d’animo collettivo di grandi masse umane. […] All’improvviso, lo stato d’animo conformista si trasforma nel suo contrario, diventa un atto di auto-liberazione mentale» [38]. I suoi amici del comitato di sciopero interaziendale di Danzica gli chiedono però di lasciare i cantieri navali, temendo che la sua presenza offrisse al regime il pretesto di rifiutarsi a qualsiasi trattativa.

Assieme alla maggioranza dei suoi colleghi dell’Accademia delle scienze di Wroclaw fonda il sindacato libero e indipendente non appena vengono sottoscritti gli accordi di Danzica. E del tutto naturalmente viene inserito nel comitato costitutivo regionale. Delegato da questo, nel primo incontro nazionale del nuovo sindacato (18 settembre 1980), ne propone il nome - Solidarność (Solidarietà) -, riuscendo anche a convincere gli assistenti che era necessario avere un unico sindacato nazionale per creare il rapporto di forza, ma con il parere contrario dei consiglieri e di Lech Wałęsa.

Entrato a far parte della direzione sindacale della regione della Bassa Slesia (Wroclaw), eletto primo portavoce nazionale del sindacato, ne sarà uno degli animatori. Pienamente consapevole che era in ballo una rivoluzione, e che quindi lo scontro con il potere sarebbe stato inevitabile e che un sindacato indipendente non avrebbe potuto coesistere a lungo con la burocrazia, era peraltro convinto che i rapporti di forza geopolitici avrebbero finito col provocare un intervento sovietico. E, questo, nonostante che il Cremlino non riuscisse a vincere la guerra in Afghanistan. Ed anche malgrado il fatto che – quali che fossero le minacce permanenti di un intervento da parte dei dirigenti del partito sovietico e le manovre militari a ripetizione - nel dicembre 1980, quando la CIA aveva annunciato che 14 divisioni sovietiche, 2 tedesco-occidentali e 2 cecoslovacche erano state poste in stato d’allerta alla frontiera polacca, Modzelewski racconta quale fu la reazione a questa notizia di Jacek Kuron, svegliato con una telefonata dal suo amico E. Smolar, redattore della BBC: «Kuron, appena sveglio, aveva fatto subito il conto: “14+2+2 fa 18. In Cecoslovacchia ne hanno mandate 24. Quindi non ci prendono sul serio. Non svegliarmi più senza motivo!”» [39].

Come la maggior parte degli oppositori degli anni precedenti e dei dirigenti del nuovo sindacato. Modzelewski non prendeva nemmeno in considerazione l’idea di una strategia che consentisse di modificare i rapporti di forza. Come anche il suo amico Jan Strzelecki, che all’epoca mi aveva aspramente criticato per aver scritto in questo senso un articolo (apparso in francese, e non in polacco!), l’idea stessa di avanzare la parola d’ordine della sindacalizzazione dei soldati (di estendere ai reggimenti militari le conquiste operaie di autorganizzazione e di democrazia) gli appariva provocatoria e inutile. Esattamente come l’appello rivolto ai lavoratori dell’Europa dell’Est affinché imitassero l’esempio della Polonia, adottato nel primo congresso di Solidarność con il parere contrario dei dirigenti e dei consiglieri del sindacato. Nel corso dei sedici mesi della sua esistenza legale, la direzione di quello che è stato un movimento rivoluzionario con oltre nove milioni di aderenti si sforzerà di impedire l’intervento sovietico, che pure riteneva inevitabile, “autolimitando” la rivoluzione.

Pertanto, coloro che organizzavano attivamente lo sciopero e il sindacato, spiega Modzelewski nelle sue memorie, «lo facevano varcando coscientemente il Rubicone, rinnegando la loro precedente sottomissione e facendo oggetto delle loro azioni indipendenti la vita sociale della comunità di fabbrica, del sindacato e del paese. È appunto ciò che noi chiamiamo rivoluzione. Ed è anche un meccanismo che è impossibile imbrigliare» [40].

È nel marzo 1981, in seguito a un brutale intervento della polizia contro i militanti operai e contadini che erano penetrati nella sala riservata al consiglio regionale di Bydgoszcz per esigere la legalizzazione del sindacato contadino, che la tensione arriva al culmine. Solidarność decide di indire lo sciopero generale per il 31 marzo, facendolo precedere da uno sciopero d’avvertimento di quattro ore, per dare una dimostrazione della propria forza e ottenere negoziati… Tre decenni dopo Modzelewski racconta: «C’era una grande determinazione a lottare, anche se ciò avesse comportato lo scontro. Più importante ancora: durante questo sciopero di quattro ore il 27 marzo, per quanto ricordo, nelle fabbriche che ho visitato c’erano servizi d’ordine con bracciali rossi e bianchi sui quali era scritto “Solidarność”, ma anche “Sindacato dei metallurgici” – un sindacato di categoria [in continuità con gli pseudo-sindacati ufficiali] o “Comitato di fabbrica del POUP”, il che significava che le sezioni [del partito] nelle grandi fabbriche cominciavano a unirsi a questo movimento sindacale, operaio, che lottava contro il governo. In questo senso si può dire che c’erano tutte le caratteristiche di una crisi del potere, del punto culminante raggiunto dal processo rivoluzionario. Se lo scopo fosse stato quello di rovesciare il potere, era il momento buono».

Nonostante la decisione che solo la commissione nazionale di coordinamento di Solidarność avesse il diritto di revocare lo sciopero generale, e nonostante che gli accordi raggiunti con il potere in seguito allo sciopero d’avvertimento (cui aveva aderito la quasi totalità dei salariati) non fossero ritenuti soddisfacenti, i consiglieri del sindacato e Lech Wałęsa “sospesero” lo sciopero. «Il comunicato sul raggiungimento di un accordo e la “sospensione” dello sciopero generale hanno fatto cadere la fortissima tensione e quella mobilitazione sociale senza paragoni», racconta Modzelewski. «Respingere l’accordo raggiunto e tornare allo scenario dello sciopero generale non poteva più restituirci la forza d’urto perduta. Al contrario, sarebbe diventata la strada più diretta verso la sconfitta. […] Ho visto la frustrazione e l’amarezza nei militanti sindacali, ma nello stesso tempo mi è sembrato di avvertire un collettivo sospiro di sollievo. “Grazie a Dio, questa guerra non sarà la nostra”. […] A partire da questo momento Solidarność ha cominciato a indebolirsi» [41].

Modzelewski si dimette allora dal suo incarico di portavoce nazionale del sindacato. «Ero furibondo per il modo manipolatorio con cui si era arrivati ad accettare – come definirla? – una ragionevole ragion di Stato. Potevo anche essere d’accordo, ma ritenevo che lo si fosse fatto in un modo inaccettabile», spiega in un’intervista del 2017 [42]. Nelle sue memorie, così riferisce il suo intervento nel dibattito della Commissione nazionale di coordinamento all’indomani della crisi: «Non ho cavillato sui vari punti [dell’accordo] né mi sono rammaricato che non si sia scatenato l’attacco decisivo contro il potere, il dominio sovietico e il regime. Tutte pericolose chimere, secondo me. Ritenevo tuttavia che avessimo perso un’occasione, forse concreta, di imporre una modifica nei rapporti di forza interni al gruppo dirigente comunista. Speravo che questo mutamento avrebbe permesso, a noi e al Partito, di pervenire a una coesistenza duratura, all’interno d’un sistema modificato in modo intelligente» [43]. E a proposito degli intellettuali consulenti del sindacato, scriverà: «La linea direttrice della loro azione […] è stata quella di far comprendere alle folle la ragione e i principi del realismo geopolitico per evitare che la rivoluzione in corso non si concludesse in una catastrofe nazionale. Non li rimprovero: io facevo lo stesso» [44]. Lo stato di guerra decretato il 13 dicembre 1981 ha però dimostrato come questo orientamento conducesse alla sconfitta. Si era ben lontani da quanto Karol Modzelewski e Jacek Kuron avevano proclamato nella Lettera aperta, ben lontani dall’idea che il programma dovesse nascere «con la più ampia partecipazione della classe operaia» [45].

 

Sconfitta e fine di un’epoca

I dirigenti di Solidarność avevano previsto di proclamare uno sciopero generale se il sindacato fosse stato interdetto. Riuscito in modo parziale, lo sciopero è stato comunque seguito in numerose fabbriche quando, nel dicembre 1981, venne decretato lo stato di guerra. Le forze armate e la polizia hanno “pacificato” le fabbriche una dopo l’altra, minacciando di giustiziare gli scioperanti che non volessero arrendersi, e a volte sparando contro di loro, come avvenne nella miniera di carbone Wujek, dove il 16 dicembre nove minatori vennero assassinati e altri 23 feriti. «Tutti costoro», dirà più tardi Modzelewski, «che avevano dato prova di un coraggio inaudito, hanno di colpo modificato l’immagine che avevano di sé stessi. Avevano dovuto cedere davanti alla forza armata. E questo ti spezza la colonna vertebrale. Si può dire che come movimento operaio di massa, Solidarność, che arrivava ai 9,2 milioni di aderenti, è stata distrutta in quel momento. Quel che ne restava era solo una resistenza clandestina, che annoverava più intellettuali che operai. Si sono manifestati allora un altro aspetto e un altro linguaggio: un linguaggio anticomunista oltranzista, prima del tutto assente» [46]. E ancora nel 2016, parlando della classe operaia rivoluzionaria degli anni 1980-1981: «Quell’ambiente non c’è più. Non c’è più classe operaia. Né Solidarność. Già nel 1989 non c’era più quella Solidarność. Essa è stata distrutta nel corso dei primi giorni dello stato di guerra. Nel corso degli anni Ottanta abbiamo fatto finta che vi fosse ancora, ripetevamo che Solidarność viveva […]. Era una nostra mistificazione nei confronti del potere e del mondo. La verità è che lo stato di guerra ha ucciso Solidarność. Solo il suo mito è sopravvissuto. Il ricordo di essere stati veramente liberi per alcuni mesi. Che ci eravamo liberati con le nostre mani. […] [La gente] è rimasta con la consapevolezza d’aver capitolato di fronte alla violenza delle armi. È una consapevolezza traumatica. Sono persone lacerate, perché hanno ancora il ricordo dell’incredibile sensazione di libertà che hanno assaporato per mesi e che è stata loro strappata. È una sensazione che riempie i sogni di una vita intera. Ma che non può essere rivissuta. [Nell’agosto 1980] l’avevano vissuta. Un conformista può rialzarsi. Ma poi non può più piegarsi di nuovo: può solo spezzarsi. E questa frattura di solito è irrimediabile. Il mito però continua. Soprattutto perché, tornati di nuovo schiavi, non si riesce a dimenticare di aver vissuto per 16 mesi in mezzo a una massa di persone libere» [47].

Arrestato nella notte fra il 12 e il 13 dicembre al termine dell’ultima riunione della direzione nazionale del sindacato, Karol Modzelewski sarà liberato solo il 4 agosto 1984. Stabilitosi nella cittadina di Sobótka, a una quarantina di chilometri da Wroclaw, e perennemente sottoposto a sorveglianza, è riuscito comunque a stabilire dei contatti con i militanti clandestini. «Poco alla volta, facendo fatica a credervi», scrive, «prendevo consapevolezza del fatto che la condizione della resistenza clandestina era decisamente mediocre. […] In realtà, non si trattava più di un movimento sindacale e non aveva la forza di organizzare scioperi. Esistevano ancora, qua e là, delle commissioni di fabbrica clandestine, ma anche dove sussistevano, sforzandosi di raccogliere sottoscrizioni e di diffondere opuscoli, non erano più la guida spirituale dei lavoratori. […] Erano gli intellettuali a dirigere le danze, ma ora leggevano, stampavano e diffondevano i lavori dei pensatori liberali più in vista. Friedrich Hayek e Karl Popper accompagnavano i lettori polacchi lungo i sentieri del libero pensiero, ma non certo sulla via della rivoluzione» [48].

Dopo essere rimasto due anni e mezzo senza un impiego ufficiale, ma potendo proseguire le sue ricerche storiche grazie a una sovvenzione del Comitato sociale delle scienze, una sorta di trait-d’union fra il mondo della clandestinità e la società alternativa, alla fine del 1987 Modezelewski è assunto dall’Accademia polacca delle scienze. Non ha preso parte alle trattative della Tavola rotonda, anche se riteneva che fosse necessario accettarne le condizioni, perché «la legge marziale ha salvato il sistema dal crollo per un certo periodo, ma non l’ha guarito. Dietro la facciata del comunismo a partito unico funzionava ormai la dittatura militare […], [che] non può funzionare a lungo senza il consenso sociale» [49]. Finalmente, viene “convocato” dall’équipe di Wałęsa, per partecipare alla redazione dei testi degli accordi, poi per essere candidato al Senato, ciò che dapprima rifiuta, potendo così riprendere ufficialmente il suo lavoro di storico. Ma, invitato nell’aprile 1989 dal Collège de France e dall’École des hautes études en sciences sociales, per tenervi dei corsi, non ottiene il passaporto, perché per la polizia politica «la procedura penale nella quale è accusato di tentativo di rovesciamento del regime [era] ancora in corso»!

Fu dunque candidato ed eletto senatore nel giugno 1989. Nonostante tutte le precauzioni prese negli accordi della Tavola rotonda sulle modalità delle elezioni, il regime le perde ed è il mito di Solidarność a uscirne vincitore, con il 35 % dei seggi della Dieta [la Camera dei deputati] dove era stata autorizzata a presentarsi, e con 99 dei 100 seggi del Senato. Nonostante che il POUP del generale Jaruzelski detenesse ancora la maggioranza, non aveva più la legittimità necessaria per imporre l’austerità e le privatizzazioni. Lo stesso Jaruzelski non poté essere eletto alla presidenza se non grazie all’astensione di alcuni rappresentanti dell’opposizione. Venne inoltre formato un governo, diretto da T. Mazowiecki, nel quale il POUP non deteneva che i ministeri “presidenziali” (esercito, polizia, esteri). Nasceva così una nuova Polonia, con «una libertà senza fratellanza», come dirà più tardi Modzelewski [50].

Modzelewski è uno dei pochi senatori che si sono opposti al “piano Balcerowic” (dal nome del ministro dell’Economia) che, con misure fiscali diversificate, avevo lo scopo di far fallire le grandi imprese pubbliche, privilegiando il settore privato e imponendo una riduzione del salario reale di oltre il 25 % e dei licenziamenti. Era in atto la «trasformazione sistemica». Modzelewski partecipa a un tentativo, fallito, di strutturare una sinistra socialdemocratica d’orientamento keynesiano. Non si candiderà alle elezioni anticipate del 1991, le prime elezioni libere.

«La trasformazione [sistemica] ha distrutto coloro che erano stati la linfa di Solidarność, ma non vi sono state ribellioni contro i depositari del suo mito artefici del mutamento […]. Lo stato di guerra ha ucciso Solidarność e la trasformazione ha ucciso il suo mito. Durante gli ultimi anni del comunismo il tasso d’occupazione in Polonia era dell’80 %, ora è del 53 %. […] I figli e i nipoti degli eroi d’agosto [1980] e di dicembre [1981] hanno in comune coi loro padri e nonni la sensazione di una ferita, non il ricordo di grandi esperienze comuni», ricordava Modzelewski nel 2016 [51].

E ancora: «Ai tempi della grande Solidarność […] non c’è stata alcuna parola d’ordine per riprivatizzare i beni confiscati fra il 1945 e il 1956. Nessuna richiesta di privatizzare l’economia. […] E non perché il realismo lo sconsigliasse. […] Semplicemente, per questo non c’era posto nell’orizzonte assiologico del movimento. Era un movimento ugualitario. […] Uno dei primi scioperi dopo agosto s’è verificato nei trasporti pubblici a Wroclaw. E sapete perché? […] Gli autisti avevano avuto il maggior aumento di salario. […] A Wroclaw hanno scioperato contro l’ineguaglianza degli aumenti salariali. Contro sé stessi. Affinché i loro aumenti venissero ridotti per poter aumentare quelli delle addette alle pulizie e dei meccanici. […] Nella Polonia libera, invece, sin dagli inizi si è glorificata l’ineguaglianza. Si è ripetuto che la stratificazione è un aspetto importante dello sviluppo economico, e che lo favorisce, il che è falso. Nella nascente classe media si è inculcata l’idea che i poveri e gli scioperanti sono responsabili della loro sorte. Perché basta dar prova d’iniziativa, avviare uno small business. […] La triade libertà, eguaglianza, fraternità ha subito un grave scacco nei suoi due ultimi aspetti. Solo la libertà è rimasta. Ma senza l’eguaglianza e la fraternità anch’essa è in pericolo, potrebbe ridursi alla libertà di circolazione del capitale finanziario» [52].

 

«Ora è il vostro turno: riaggiustate il mondo»

Nel 2002 Modzelewski, assieme a Jacek Kuron (che dopo essere stato ministro della trasformazione aveva fatto la sua autocritica), ha pubblicato un articolo in cui si auspicava una «sinistra per domani», contro la dominante ideologia neoliberale. Si trattava di una sinistra «riflessiva», che si limitava all’opzione di uno “Stato provvidenza”, anche se va notato che quando Jacek propone un accordo fra tutti, viene trattato da «pericoloso estremista di sinistra». «Essere di sinistra significa ascoltare il proprio cuore: stare dalla parte dei perseguitati, degli sconfitti, degli affamati, costruire un mondo in cui poter vivere in modo più umano», scrivevano. «Anche i governi di sinistra indietreggiano sotto la pressione dell’Unione europea o degli imprenditori nazionali. Tutto ciò ci avvicina al momento in cui in Polonia la sinistra lascerà uno spazio vuoto. È il populismo che riempirà questo spazio, lo sta già riempendo. […] Al seguito di questi avventurieri della politica si trova gente che è veramente in difficoltà. Senza questi uomini umiliati e feriti nessuna democrazia può essere costruita, ma però, sì, è possibile edificare uno stato poliziesco. […] Soffriamo di un deficit di obiettivi che non può essere compensato che da una nuova forma di pensiero della sinistra. […] Qualcuno dirà che qualunque utopia, non appena si tenta di realizzarla, degenererà, diventerà orribile. Nelle utopie sono stati inseriti i sogni di benessere dell’umanità, senza i quali gli umani non sarebbero mai discesi dagli alberi. […] La sinistra ha cercato nella storia la giustificazione delle proprie utopie. Noi sappiamo oggi che non vi si trova, ma sappiamo anche che la fede nell’utopia ha avuto un ruolo nella storia e che rappresenta una grande forza di mobilitazione» [53].

Quando le sue memorie, scritte nel 2013, sono state pubblicate in francese l’anno scorso, Karol Modzelewski vi ha aggiunto una postfazione. «Alla fine di questo libro», scrive, «avevo formulato la speranza che la nuova sinistra in formazione avrebbe rimesso in discussione l’ordine neoliberale instaurato dopo il 1989. È stata una speranza vana. […] E la destra populista attualmente al potere s’è rivelata una efficace demolitrice della democrazia liberale, prendendo le distanze nello stesso tempo da certi aspetti del canone liberale nella politica economica. […] Sembrerebbe che la costruzione di uno Stato poliziesco goda in Polonia di un consenso sociale importante e relativamente duraturo. La resistenza civica – egualmente consistente, ma sino a ora poco efficace – è rappresentata soprattutto dall’intellighenzia. Della sua alleanza con gli ambienti operai, così caratteristica della prima Solidarność, non è rimasta traccia. Ma probabilmente si tratta di un fatto non troppo sorprendente: la distruzione della fraternità nel corso delle trasformazioni del sistema può esserne la spiegazione» [54].

Nel 2013 un giornalista gli ha chiesto cosa risponderebbe a una liceale che volesse sapere a cosa è servita la sua lotta. «Non bisogna avere in testa la proprietà privata», ha risposto, «bisogna pensare alla fraternità. Ora è il vostro turno: riaggiustate il mondo» [55].

 

Jan Malewski, redattore di «Inprecor», fa parte dell’Ufficio esecutivo della IV Internazionale ed è un militante del Nouveau parti anticapitaliste francese. Fra il 1981 e il 1991 ha fatto parte della redazione di «Inprekor», la rivista polacca della IV Internazionale, diffusa clandestinamente in quel Paese. La traduzione è di Cristiano Dan

Note

[1] La Socialdemocrazia del Regno di Polonia e di Lituania (SDKPiL) era il partito di Rosa Luxemburg, che si opponeva alla lotta per l’indipendenza. Confluisce nel 1918 con l’ala sinistra del Partito socialista polacco (PPS-Lewica), per fondare il Partito comunista operaio polacco.

[2] Si leggono con grande interesse le memorie di Karol Modzelewski, Nous avons fait galoper l’histoire. Confessions d’un cavalier usé, Éditions de la Maison des sciences de l’homme, Paris 2018 (29 euro). Non posso che consigliare la lettura di questo libro, perché anche se lo scrittore Karol Modzelewski non si considerava ormai più un rivoluzionario, aiuta a comprendere la rivoluzione. Ed è scritto in modo meraviglioso.

[3] K. Modzelewski, Nous avons…, cit., pagg. 83 e 99.

[4] Ivi., pagg. 114 e 117.

[5] Karol Modzelewski – Jacek Kuron, Lettre ouverte au parti ouvrier polonais, «Quatrième Internationale», supplément au nn. 32, 1966; seconda edizione nel marzo 1968; riedita nel 1969 da F. Maspero nei Cahiers Rouge, documents de formation communiste n. 4. [Tradotto in italiano da Livio Maitan nel 1967 e pubblicato da Samonà e Savelli, col titolo Il marxismo polacco all’opposizione.]

[6] K. Modzelewski, Nous avons…, cit., pag. 129.

[7] Questo termine spregiativo, impiegato dall’apparato per indicare i marxisti critici, finì con l’essere fatto proprio da questi ultimi.

[8] K. Modzelewski, Nous avons…, cit., pag. 133.

[9] Witold Jedlicki, Kajdany Ludwika Hassa [Le manette di Ludwik Hass], in «Kultura», Paris, aprile 1966, pag. 19.

[10] Essi riprendono qui le analisi (del 1957) del sociologo polacco Stanisław Ossowski, Structure de classes dans la conscience sociale, Anthropos, 1971. [Trad. italiana: Struttura di classe e coscienza sociale, Einaudi, Torino 1966.]. K. Modzelewski – J. Kuron, Lettre ouverte…, cit., pag. 15 [trad. italiana cit., pag. 30. D’ora in poi i rimandi a questo testo vengono fatti direttamente alla trad. italiana.]

[11] K. Modzelewski – J. Kuron, Lettera…, cit., pag. 43.

[12] Ivi., pag. 114

[13] Ivi, pagg. 126 e128

[14] Ivi., pagg. 129-133.

[15] Michał Siermiński, Dekada przełomu. Polska lewica opozycyjna 1968–1980. Od demokracji robotniczej do narodowego paternalizmu [Il decennio della rottura. L’opposizione di sinistra polacca. 1968-1980. Dalla democrazia operaia al paternalismo nazionale]. Instytut Wydawniczy Książka i Prasa, Warszawa 2016, pag. 47.

[16] Andrzej Friszke, Anatonomia buntu. Kuroń, Modzelewski i komandosi [Anatomia della ribellione]. Znak, Kraków 2010, pag. 277 (citato da Michał Siermiński, op. cit., pag. 48).

[17] M. Siermiński, op. cit., pag. 47 (che cita l’opera di Andrzej Friszke).

[18] Ivi., nota 16.

[19] M. Siermiński, op. cit., pagg. 32-59.

[20] Appello rivolto all’intellighenzia polacca nel 1928 da Wacław Sieroszewski, scrittore e patriota polacco vicino al patrioti-socialisti di Piłsudski, citato da Michał Siermiński, op. cit., pag. 43.

[21] Irena Grudzińska-Gross, «1968 in Poland. Spoiled Children, Marxists, and Jews», in V. Tismaneanu (a cura di), Promises of 1968: Crisis, Illusion, and Utopia. Central Europa University Press, Budapest-New York 2011 (citato da Zbigniew Kowalewski nella Postfazione allo studio di Michał Siermiński, cit.)

[22] K. Modzelewski – J. Kuron, Lettera ..., pag. 119.

[23] Intervista con Gregorz Sroczyński, in «Gazeta Wyborcza-Magazyn Świąteczny», 13 settembre 2013.

[24] K. Modzelewski, List otwarty do Edwarda Gierka [Lettera aperta a Edward Gierek], in «Aneks», nn. 13-14, London 1977, pag. 50. (Una traduzione francese è stata pubblicata da «Politique Hebdo», e alcuni suoi estratti lo sono stati in A. Dupain [Jan Malewski], Pologne, situation et courants de l’opposition, in «Inprecor», n° 8, nuova serie, 8 giugno 1977.)

[25] M. Siermiński, op. cit., pagg. 29-30.

[26] E. G. [Ernest Mandel], Les livres: La lettre ouverte de Karol Modzelewski et Jacek Kuron au Parti ouvrier polonais, in «Quatrième Internationale», n. 29, novembre 1966, pag. 79.

[27] Zbigniew Kowalewski, «Polska pomiędzy rewolucjami a czystkami etnicznymi» [La Polonia fra rivoluzione e pulizia etnica], Postfazione allo studio di Michał Siermiński già citato, pag. 325.

[28] Ivi., pagg. 334-335. E Kowalewski richiama l’analisi di T. D. Curp: «Gli sforzi dello Stato-partito miranti a stabilire e ribadire alleanze con forze nazionaliste integrali, e in particolare i nazional-democratici, si inquadravano nella dipendenza del comunismo polacco, nel dopoguerra, dal nazionalismo radicale, il cui scopo era quello di regolare la questione chiave della legittimità d’un regime sotto dominazione sovietica» (T. D. Curp, Roman Dmowski Understood. Ethnic Cleansing as Permanent Revolution, in «European History Quarterly», vol. 35, n. 3, 2005, pag. 406).

[29] Ivi, pagg. 348-349.

[30] A. Friszke, op. cit., pag. 886 (citato da Michał Siermiński nella sua opera già ricordata, a pag. 52).

[31] K. Modzelewski, Nous avons…, cit., pagg. 263-264.

[32] Intervista con Gregorz Sroczyński, cit.

[33] K. Modzelewski, Nous avons…, cit., pag. 265.

[34] Ibid.

[35] Entrambe non tradotte in francese: Organizacja gospodarcza państwa piastowskiego X-XIII wiek, Wrocław 1975, e Chłopi w monarchii wczesnopiastowskiej, Wrocław 1987.

[36] K. Modzelewski, «La transizione dall’antichità al feudalesimo», in Storia d’Italia. Annali, 1. Dal Feudalesimo al capitalismo. Einaudi, Torino 1978, e K. Modzelewski, L’Europe des barbares: Germains et Slaves face aux héritiers de Rome, Aubier-Flammarion, Paris 2006 (era stato pubblicato in polacco nel 2004). [Trad. italiana: L’Europa dei barbari: le culture tribali di fronte alla cultura romano-cristiana. Bollati Boringhieri, Torino 2008.]

[37] Intervista a «Le Monde» del 4 gennaio 2019.

[38] K. Modzelewski, Nous avons…, cit., pag. 295.

[39] Modzelewski e Werblan [dirigente del POUP], Polska Ludowa, rozmawia Robert Walenciak [Polonia popolare, interviste a cura di Robert Walenciak], Iskry, Warszawa 2017, pag. 419.

[40] K. Modzelewski, Nous avons…, cit., pag. 329.

[41] Ivi, pagg. 359 e 361.

[42] Modzelewski e Werblan, op. cit., pag. 445.

[43] K. Modzelewski, Nous avons…, cit., pag. 362.

[44] Ivi, pag. 365.

[45] Come avevano scritto nel manifesto confiscato dalla polizia politica il 14 novembre 1964. Cfr. nota 17.

[46] Intervista a «Le Monde», cit.

[47] Intervista con Jacek Żakowski, in «Polityka», 23 febbraio 2016.

[48] K. Modzelewski, Nous avons…, cit., pagg. 429-430.

[49] Ivi, pag 432.

[50] È il titolo del nono capitolo delle sue memorie, Nous avons…, cit.

[51] Intervista con Jacek Żakowski, cit.

[52] Intervista con Gregorz Sroczyńskicit.

[53] K. Modzelewski – J. Kuron, Lewica jutra: rozważna i romantyczna [La sinistra domani: riflessiva e romantica], in «Krytyka Polityczna», n. 2, autunno 2002.

[54] K. Modzelewski, Nous avons…, cit., pagg. 511-513.

[55] Intervista con Gregorz Sroczyńskicit.

 

[Titolo originale: Karol Modzelewski (1937-2019. Une vie de militant pour la fraternité, in «Inprecor», nn. 664-665, giugno-luglio 2019, pagg. 45-53]. Il testo originale può essere consultato, assieme a un ricordo di Modzelewski di Georges Dobbeleer e a un’intervista a Modzelewski a cura di Jan Malewski, sul sito di «Inprecor»: http://inprecor.fr/home

Per ricostruire il contesto polacco rinvio al mio libro Chiesa esercito e masse nella crisi polacca, Lacaita, Manduria, 1988, di cui sono scaricabili dal mio sito alcuni capitoli (sull’antisemitismo di regime, sui rapporti tra partito comunista e chiesa cattolica, le radici della forza della chiesa, ecc.) http://antoniomoscato.altervista.org/index.php?option=com_docman&task=cat_view&gid=39&Itemid=47

Foto: Lukasz2/Wikimedia

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