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John Cheever, il cantore dell’urbana normalità americana

John Cheever, I racconti, Feltrinelli, pp. 828, euro 40,00

«Quando la città di New York risplendeva ancora della luce del fiume, quando si sentiva il quartetto di Benny Goodman alla radio della cartoleria all’angolo, quando quasi tutti portavano il cappello». 
È il mondo di John Cheever che Feltrinelli ripropone in Italia pubblicando l’imponente I racconti: ottocento pagine che apparvero nel 1979 con il titolo The Stories of John Cheever e che gli valsero il Premio Pulitzer. Una raccolta di racconti selezionati dallo stesso autore che ebbe un successo enorme, quantificabile in ben 800.000 copie vendute, frutto di «una lunga lotta per farsi un’istruzione in economia e in amore». Così concepiva la letteratura Cheever: il risultato finale di un’attenta visione sull’umanità colta nel pieno di abitudini, conformismo, vite borghesi nel cuore della più rassicurante provincia americana, dagli anni quaranta ai settanta, scosse da un’inquietudine che riesce ad arrivare anche dove tutto dovrebbe trovare la quadratura, ovvero tra la giardinetta parcheggiata di fronte una delle tante case a schiera con piscina sul retro e la moglie che attende in cucina.
 
Dopo Hemingway e Fitzgerald, solo Cheever è riuscito a smentire l’intero panorama editoriale statunitense che non credeva che le raccolte di racconti potessero avere grosse vendite; e a bloccare l’intera umanità nello spazio di pochissime, serratissime pagine, dimostrando soprattutto che il racconto è un congegno da maneggiare con cura per ottenere risultati sorprendenti. Molto prima che la forma breve fosse magnificata da Raymond Carver, che ha appreso tanto, molto, da Cheever, suo maestro e padre letterario con cui condivise l’esperienza di Yaddo, la colonia di artisti a Saratoga Springs.
 
Dimmi solo chi era, uno dei 63 capolavori che il suo pubblico affezionato ha letto sul New Yorker, è uno dei tanti spaccati di urbana normalità che ha donato a Cheever l’epiteto di Checov d’America, il Checov di periferia, anche se i suoi punti di riferimento erano Updike, Malamud e Bellow. Cheveer è come se guidasse l’automobile lungo i sonnacchiosi viali di anonime province, fino a fermarsi dove una luce indica che in mezzo a tutto quel paradiso di giardini curati e scintillanti, e di elettrodomestici che governano il perfetto andamento delle faccende quotidiane, ci fosse una crepa, e lui decidesse di fermarsi lì, per guardare dentro le finestre e dimostrare al mondo intero che anche nella più ordinaria e noiosa delle vite scorre senza scampo una vita vera.
 
In Dimmi solo chi era, Will è un uomo regolato dalla normalità, che si abbandona sulla poltrona dopo un’estenuante, eppure gratificante giornata di lavoro, ed è improvvisamente trafitto da un’ombra di malinconia che cala su ciò che lo circonda: cala la luce del sole, si versa del gin, i bambini dei vicini rientrano dopo l’allenamento di football, e lui deve domare l’inquietudine per l’elettrizzata emozione di sua moglie che ha deciso di organizzare la più bella festa che il Country Club di Shandy Hill, sperduto sobborgo di provincia del Massachusetts, avesse mai visto. Tutto un mondo che si muove nelle abitazioni, per un cocktail, durante la cena, mentre si chiude la porta per andare al lavoro, dove si rientra la sera e i protagonisti portano con sé ogni cosa accaduta durante la giornata: è il vetrino su cui Cheever posiziona una delle tante vite di cui si è imbevuto, che seziona con «eleganza, calore, humor, occhio infallibile per le assurdità del mondo e i difetti e le debolezze del genere umano», come scriveva il New York Times.
 
Le case, e le piscine, che Neddy Merril, il protagonista de Il nuotatore, il più famoso racconto di Cheever, decide di attraversare per tornare a casa dopo una domenica luminosa, indolente, accerchiato dai vicini che ripetono quanto hanno bevuto la sera prima. La scelta bizzarra di non prendere come sempre il vialetto, ma di scavalcare le siepi, tuffarsi nella piscina della casa affianco, e così smuovere dalla consuetudine la propria vita, è l’occasione per guardare la normalità da un altro punto di vista, fino alla sconcertante scoperta del finale. «Cheever è un incantato realista», come lo ha definito Philip Roth, e alla linearità della quotidianità dei vari John e Mary, che solo perché si chiamano in questo modo saranno uniti per l’eternità, aggiunge la sterzata improvvisa, il tocco insolito che potenzia il quadro di realtà, fino a farlo esplodere. Così accade in Una radio straordinaria, storia in cui l’elettrodomestico più rassicurante diventa strumento che trasmette le discussioni delle case vicine. Da una casa si ascoltano le storie, le liti, le abiezioni, le stravaganze che accadono nelle altre case.

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