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Israele: la guerra dei Sei giorni e la questione dei due stati

In questi giorni, 53 anni fa, si combatteva la Guerra dei Sei giorni

Ossia il conflitto che ha dato inizio a quello che oggi è al centro dell’attenzione internazionale per le intemperanze del governo di Benjamin Netanyahu.

La guerra, che nell’opinione comune iniziò per un improvviso, devastante attacco aereo israeliano, aveva avuto in realtà una genesi ben diversa. E l’attacco fu solo la resa dei conti finale di un braccio di ferro iniziato ben prima.

Due conflitti precedenti, nel 1948 e nel 1956, avevano già delineato lo scontro mortale fra il neonato stato ebraico e i suoi vicini. L’idea diffusa – sia nel nazionalismo palestinese che aveva contrastato l’immigrazione ebraica negli anni della persecuzione antisemita e dello sterminio nazista, sia nelle élite degli stati arabi nati alla fine del primo conflitto mondiale con la dissoluzione dell’impero Ottomano – era che uno stato ebraico non dovesse esistere.

E che la questione della divisione del territorio fra il Giordano e il Mediterraneo, proposta già negli anni ’30 dalla potenza mandataria britannica e poi, nel novembre 1947, dall’assemblea generale dell’ONU, poteva essere risolta solo eliminando l’idea stessa di uno stato ebraico in Palestina.

Gli ebrei come minoranza etnico-religiosa avevano abitato quel territorio ininterrottamente da oltre due millenni, ma costituivano la popolazione maggioritaria a Gerusalemme e in altri centri minori già alla metà dell'Ottocento, come attestato da una guida turistica inglese, lo Handbook for Travellers in Syria and Palestine di John Murray, pubblicata a Londra nel 1868. Gli antichi insediamenti ebraici potevano rimanere, ma solo se sotto il dominio della maggioranza islamica, così come accadeva negli stati arabi, in Iran o in Turchia da secoli.

La logica quindi non era quella dei “due stati” come suggeriva la risoluzione ONU, ma quella dello stato unico arabo e musulmano. E la questione di un inaccettabile "secondo stato" ebraico, preteso dal nazionalismo sionista e dal continuo afflusso di profughi ebrei in fuga dall'Europa, poteva essere risolta solo ricorrendo all’uso della forza.

Nel maggio del 1967 il leader egiziano Nasser impose in rapida successione lo sgombero degli osservatori ONU nel Sinai, il dislocamento di proprie forze della stessa penisola, che doveva rimanere smilitarizzata secondo gli accordi post '56 e, infine, il 22 maggio, attuando il blocco degli Stretti di Tiran, un passaggio di mare che consentiva l’accesso al porto israeliano di Eilat, nel golfo di Aqaba.

Ad incendiare la situazione fu, secondo lo storico Michael Oren (La guerra dei Sei giorni. Giugno 1967: alle origini del conflitto arabo-israeliano. Mondadori 2003) una serie di false informazioni circa le intenzioni offensive di Israele, fatte filtrare fra le elité egiziane e siriane dall’Unione Sovietica.

Gli storici tuttora dibattono su questa vicenda, sostenuta da Oren dopo l’apertura degli archivi russi; e c'è chi ipotizza che i sovietici avessero cercato di aprire in Medio Oriente un secondo fronte alternativo per distrarre l’attenzione, ed eventualmente l'impegno bellico americano, dal Vietnam, al fine di controbilanciare l'offensiva USA nel Sud-est asiatico.

Sta di fatto che con la violazione degli accordi armistiziali e con il blocco navale – che è considerato un “atto di guerra” dal diritto internazionale – la situazione si deteriorò irreversibilmente. Nonostante alcuni giorni di frenetica attività diplomatica per cercare di risolvere una questione esplosiva, il governo israeliano acconsentì alla fine a dare luce verde al piano studiato dai militari delle IDF (Israeli Defense Forces). Come è noto l’eliminazione improvvisa a terra, all’alba del 5 giugno 1967, dell’intera forza aerea egiziana costituì l’elemento fondamentale per la rapida vittoria israeliana nel conflitto.

Le conseguenze sono altrettanto note: Gerusalemme Est e la West Bank, occupate dalla Giordania alla fine della guerra del 1948, furono conquistate da Israele, così come la striscia di Gaza, sotto controllo egiziano dal '48, e le alture del Golan, parte della Repubblica Araba di Siria dalla fine del mandato francese sull'area nel 1944.

Meno conosciuto è il fatto che solo dopo la guerra dei Sei giorni le forze politiche della sinistra europea, fino a quel momento in larga misura ancora favorevoli alle ragioni ebraiche, si schierarono a fianco degli stati arabi, seguendo le indicazioni di Mosca e attribuendo a Israele ogni responsabilità del conflitto. Con qualche eccezione riguardo alla sinistra italiana che, quantomeno nella sua componente comunista, era già in buona misura filoaraba, come sottolinea una storica (di sinistra) come Alessandra Tarquini, in un suo recente, interessante e documentatissimo libro (La sinistra italiana e gli ebrei, Il Mulino, 2019).

Subito dopo la breve guerra, Israele propose una restituzione di parte dei territori conquistati, aderendo al contenuto della risoluzione 242 dell’ONU (sono note le incongruenze della risoluzione, con due versioni – in francese e in inglese – diversamente interpretabili) chiedendo in cambio un trattato di pace complessivo con gli stati arabi. Ma il loro rifiuto fu sancito dai “tre no” della Lega Araba conclusa a Khartoum l'1settembre: “no alla pace con Israele, no al riconoscimento di Israele, no ai negoziati con Israele”.  

La questione rimase irrisolta fino a che gli stati arabi tentarono, pochi anni dopo, di riscattare la sconfitta umiliante precedente, prendendo di sorpresa Israele nel giorno dello Yom Kippur del 1973. In quell’occasione lo stato ebraico, trovato impreparato, fu effettivamente sul punto di soccombere.

Le conseguenze politiche dei "tre no" di Khartoum e del drammatico conflitto del ‘73 furono importanti: la sinistra laburista che aveva governato fino a quel momento lo stato ebraico, pagò lo scotto della sua impreparazione del '73 e fu sconfitta alle elezioni di qualche anno dopo; per la prima volta nella storia del paese la destra andò al governo e iniziò a dettare la sua agenda politica in merito alla questione palestinese.

Quello che fu, per venticinque anni, il tentativo arabo di impedire la formazione di "due stati per due popoli", pretendendo un unico stato arabo e musulmano tra il Giordano e il Mediterraneo, si rovesciò nella volontà speculare della destra israeliana di pretendere un unico stato, ma ebraico, sullo stesso territorio.

Mentre la sinistra laburista – schiacciata fra l'incudine dell'intransigente chiusura araba a ogni trattativa e il martello della proposta politica della destra nazionalista interna fondata su un'idea assolutamente muscolare nel confronto con gli arabi – perdeva progressivamente ogni appeal agli occhi di un elettorato sempre più incattivito e impaurito da guerre e terrorismo, fino alla sostanziale irrilevanza odierna. 

Un percorso complesso, in cui la parte araba – come abbiamo visto – non è esente da responsabilità, che ha portato fino alla odierna politica arrogante e prevaricatrice di un Netanyahu che pretende di annettere parti della Cisgiordania, ma senza riconoscere ai suoi abitanti arabi i diritti costituzionali di cui godono i cittadini israeliani. Una prospettiva che alla fine darebbe ragione a chi ha accusato Israele di praticare l'apartheid anche quando questa era solo una sterile polemica di parte.

Una prospettiva contro cui è stato lanciato un appello di J-LINK (The International Progressive Jewish Network), sottoscritto da molte organizzazini ebraiche. La circolare di JCall Italia che lo presenta, inizia così:

"Cari amici, i propositi di annessione di parti della Cisgiordania mettono in pericolo la sicurezza di Israele e il suo futuro di paese democratico. In quanto ebrei del mondo per i quali i valori sanciti dalla Dichiarazione di indipendenza dello stato sono essenziali, facciamo appello a voi per un'azione comune di protesta contro il piano del governo di un'annessione unilaterale..."

 

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