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Israele: ancora sangue per Gerusalemme la Santa

Si deve parlare ancora di Gerusalemme “la Santa”, anche se di santità in quel mucchio di pietre polverose di storia ce n’è ben poca.

Lo ha fatto, in queste giornate di nuovo cruente, un controverso articolo di Umberto De Giovannangeli, storica firma del giornalismo nazionale (Repubblica, Unità, Limes, Left, Huffington Post) da oltre 25 anni cronista di questioni mediorientali, sempre critico verso la destra nazionalista israeliana e in particolare del governo Netanyahu (sul quale ha scritto un libro insieme a Riccardo Cristiano, ex inviato RAI noto per una vecchia questione decisamente discutibile).

Per dire che non è giornalista che possa essere accusato di filosionismo ottuso.

Due giorni fa ha pubblicato sull’Huffington Post un pezzo, il cui lungo titolo già dice tutto: «Il timore (condiviso) di Israele e Palestina che a incendiare la “rivolta della Spianata” sia l'Isis».

L’articolo ipotizza che Hamas non sia stato alla guida della manifestazione di venerdì che è costata ore di scontri e la vita a tre giovani palestinesi, ma che i militanti del Califfato abbiano tirato le redini dell'esasperazione al fine di internazionalizzare lo storico conflitto israelo-palestinese su coordinate prettamente religiose.

La sequenza temporale degli ultimi avvenimenti aveva già sollevato più di un dubbio: prima l’attentato sulla Spianata in cui tre cittadini israeliani (arabi) hanno ucciso due guardie israeliane (druse) prima di essere uccisi a loro volta. Poi la decisione del governo di aprire un’inchiesta sulle palesi falle nella sicurezza e di montare nel frattempo i metal detector agli ingressi della Spianata stessa, come avviene ormai in tutti i luoghi di importanza strategica al mondo, Mecca compresa. Immediata la chiamata alla ribellione da parte dei politici e degli imam locali, preoccupati a loro dire (e immediatamente spalleggiati in questo dalla stampa filopalestinese) di una progressiva giudaizzazione del loro luogo sacro. Quindi la replica del governo, in previsione di subbugli, di impedire l’accesso alla Spianata ai minori di 50 anni, così come è sempre stato fatto nei momenti di maggior tensione, e, infine, la protesta nel “giorno della rabbia” che ha visto tre-quattromila manifestanti scontrarsi con la polizia in assetto di guerra. Nel frattempo la serie di accoltellamenti di civili ebrei è proseguita con altre tre vittime.

Senza negare che la politica israeliana poteva gestire ben diversamente la questione dei metal detector (imposta dalla polizia contro l’opinione di esercito e Shin Bet) magari cercando delle sponde palestinesi, la sequenza dei fatti sembra parlare in maniera abbastanza chiara di una pianificazione a tavolino atta a riportare il problema palestinese al centro dell’attenzione internazionale dopo che i grandi giochi attorno al Daesh e al “corridoio sciita”, oltre che l'enorme problema dei profughi siriani, l’avevano fatta finire nel dimenticatoio.

La questione territoriale su cui verte il contrasto si concentra sulle colonie che sono al primo posto nelle accuse di una presunta “pulizia etnica”, anche se, ancora nel 2011, il negoziatore palestinese Saeb Erekat giustificava la richiesta araba di far coincidere il futuro confine con la Linea Verde (i "confini" del '67) sull’esiguità di territorio realmente occupato dai coloni. Da rilievi aerei fotografici - dichiarava - risulta che gli insediamenti riguardano non più del 1,1% del territorio cisgiordano. Una sola nuova colonia, da 25 anni a questa parte, è stata progettata; le molte nuove edificazioni sono avvenute su quell’uno per cento di territorio già insediato.

Nulla quindi che impedisca realmente un accordo se non quel minimo scambio di territorio che peraltro è stato previsto da tutte le ultime proposte in sede di trattativa. Anche sulla “questione del ritorno” dei profughi c’è già da tempo un sostanziale accordo di soluzione simbolica.

Non c’è quindi altro vero punto di inconciliabilità se non la questione clou: Gerusalemme, la Santa. O la Diabolica, visto il mare di sangue che costa.

Nella città, ancora sotto dominio ottomano, viveva una maggioranza relativa ebraica già alla metà dell’Ottocento, come attesta una dettagliata guida per viaggiatori, A handbook for travellers in Syria and Palestine, pubblicata a Londra da John Murray nel 1868, che parlava di una popolazione per metà ebraica, per un quarto musulmana e per un ulteriore quarto cristiana; dati confermati poi da un censimento turco nel 1905 e da uno britannico nel 1922.

Alla fine dell’amministrazione mandataria inglese, e del conflitto del 1948, Gerusalemme Est con la parte vecchia (quella "santa") fu occupata dalle truppe giordane e tale rimase fino all’improvvido black out strategico che annebbiò le menti dei politici arabi nel 1967, provocato - secondo i sovietologi - dalle false informazioni giunte da Mosca, intenzionata ad aprire un fronte utile a distrarre gli americani dal Vietnam. La disastrosa sconfitta nella guerra dei Sei Giorni portò all’occupazione israeliana della città come di tutta la West Bank. La successiva proposta di restituzione dei territori in cambio di un trattato di pace complessivo fu rifiutata dalla Lega Araba con i “tre no” di Khartoum.

Un breve riepilogo storico per evidenziare come la strumentalizzazione internazionale del conflitto - in cui ognuno tirava acqua al suo mulino sulla pelle dei due popoli che lì vivevano - sia stata fondamentale per impedirne la soluzione.

Ed è qui che entra in gioco la paventata strategia dell’Isis che starebbe arruolando “centinaia” di ex militanti di Hamas o delle Brigate dei martiri di al-Aqsa e che sarebbe vista con simpatia nei Territori: «quattro sondaggi di opinione pubblicati di recente - scrive De Giovannangeli - hanno rivelato che il 24 per cento dei palestinesi ha una visione positiva dello Stato islamico».

Fare di Gerusalemme, specularmente alla deriva fideistica dell'estremismo nazionalista ebraico, il centro della propria retorica religiosa, dopo il fallimento del progetto statuale del Califfato, in un’ottica che contemporaneamente sarebbe antisraeliana, ma anche avversa all’attuale dirigenza palestinese - o perché compromessa con l’Occidente (l’ANP di Abu Mazen) o perché supportata dall’Iran sciita (Hamas) - avrebbe l’unica conseguenza di alzare il livello dello scontro. Così, per rimanere in gioco, Hamas si precipita a rivendicare un attentato che forse non ha commesso, pur di negare la precedente rivendicazione dell'Isis e Abu Mazen si affretta a congelare i rapporti con il governo israeliano con parole “di fuoco” contro i metal detector.

Ma Janiki Cingoli, direttore del CIPMO, aggiunge all’articolo un commento rilevante: «Questo dà più forza all'analisi che vede una triangolazione Hamas Egitto Israele per contenere i jihadisti a Gaza e nel Sinai».

L’infiltrazione dell’Isis starebbe provocando dunque un'inedita convergenza di interessi fra i due stati confinanti con la Striscia e il movimento radicale della Fratellanza Musulmana palestinese che, già in enormi difficoltà per l’isolamento in cui è finito, teme molto la concorrenza dei fondamentalisti seguaci di al Baghdadi.

Difficile dire che credito possa avere a oggi questa interpretazione, in mancanza di altre conferme, ma possiamo essere certi che con l’infiltrazione dell’Isis l’inasprirsi dei rapporti di forza sul terreno, oggi del tutto a favore dello stato ebraico il cui governo si balocca nell’idea che la forza coincida con la ragione, porterà a un scontro sempre più cruento quanto più asimmetrico, mentre Gerusalemme, la Santa, starà sempre lì, pietra su pietra, a strappare il cuore a tutti.

Intanto il governo israeliano ha fatto una prudente marcia indietro, rimuovendo i metal detector presentando la decisione come frutto di una mediazione giordana. Nelle prossime ore saranno valutabili le reazioni palestinesi (ma anche quella dei nazionalisti israeliani).

(Foto: Alberto Luccaroni/Pixabay)

 

 

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