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Israele-Palestina: Yehoshua prospetta lo stato unico binazionale

Una bella intervista di Wlodek Goldkorn a Abraham Yehoshua è stata pubblicata sull’ultimo numero dell’Espresso.

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Intervista notevole perché mette in discussione schemi politici (e mentali) sui quali spesso si sorvola dandoli per scontati e che qui invece sono in piena luce. E, contemporaneamente, accenna a una conseguenza affatto trascurabile per un'interpretazione più equilibrata, rispetto al manicheismo imperante da ambo i lati, del conflitto israelo-palestinese.

Il primo degli schemi infranti riguarda la convinzione che un israeliano da sempre favorevole alla soluzione a due stati (implicitamente al riconoscimento delle legittime aspirazioni di entrambi i popoli ad un proprio Stato indipendente) lo sia ancora, mentre Yehoshua qui afferma che quella proposta è ormai da dimenticare, per palese impossibilità di realizzazione. E che, conseguentemente, l’unica chance reale è quella di proporre un unico stato binazionale, in cui i due gruppi etnici vivano in piena parità di diritti civili e politici.

L’antico sogno dei comunisti internazionalisti - rifiutata dai nazionalisti di entrambi gli schieramenti, ma surclassata dalla stessa storia del conflitto - diventerebbe realtà in un’epoca decisamente, mai-come-oggi, post-marxista.

E, contemporaneamente, metterebbe seriamente a rischio, anche se non nell'immediato, l'iniziale progetto sionista di costruzione di uno stato per gli ebrei, aprendo la strada ad un futuro stato a possibile maggioranza araba con una presenza ebraica ridotta, esattamente come nei venti secoli passati, a essere minoranza.

Si obietterà che uno stato democratico moderno è costituito da tutti i suoi cittadini - indipendentemente dall’appartenenza etnico-linguistica - e che quindi la definizione etnica dello stato non solo è antistorica e antidemocratica, ma anche sostanzialmente razzista. Accusa da sempre rivolta allo stato “ebraico”, ma - curiosamente - mai ai numerosi stati “arabi” o alle “repubbliche islamiche”. Come se la definizione etnica avesse un valore censurabile solo in un caso, ma non in altri (e se qualcuno volesse leggere un non tanto sottile pregiudizio antisemita in questa visione strabica non avrebbe poi tutti i torti).

Sarebbe comunque un’obiezione che non tiene conto, molto discutibilmente, delle tragiche vicissitudini ebraiche dell’ultimo secolo che sono all'origine (reale) della formazione dello stato.

L’altro schema mentale (di sinistra) che salta - proveniendo da un uomo da sempre disposto all'ascolto delle ragioni altrui - è che le élite palestinesi vengono rimproverate, senza tanti giri di parole, di mancanza di coraggio e di avere avuto responsabilità pesanti nel fallimento delle trattative per aver rifiutato le “offerte dei vari premier israeliani; da Rabin a Barak a Olmert”.

Vale a dire dai primi anni ’90 al 2000 e poi fino al 2008. Non è cosa da poco. E costituisce l’opposto assoluto alla narrativa a senso unico del conflitto di certe letture di estrema sinistra (anche israeliana, alla Gideon Levy per dire).

La domanda accennata, ma che non emerge in tutta la sua portata nelle risposte dello scrittore, è: quanto è costata realmente la responsabilità dei politici palestinesi?

Non tanto ai palestinesi stessi (cui è stata negata, per ottusità o incapacità o ritrosìa politica, l’indipendenza nazionale, forse per sempre), ma agli stessi israeliani spinti nelle braccia di una destra sempre più aggressiva e determinata, dal loro rifiuto alle offerte di pacificazione? Quanto è costato quel rifiuto alle speranze politiche di una sinistra israeliana ridotta senza più argomenti se non quelli di una proposta trattativista resa afona per mancanza di controparte e per ciò finita nell’angolo?

Detta in altri termini: in che misura il gran rifiuto palestinese ha eterodiretto la democrazia israeliana (che, come ogni democrazia, non è un sistema politico necessariamente “più buono” di altri - abbiamo anzi molti segnali che “buono” non è - ma sicuramente il più fragile dei sistemi politici) determinando dall’esterno - insieme ad altri comprimari - quella deriva securitaria di cui si alimentano le destre radicali?

Questo aspetto, ampiamente sottovalutato a sinistra, potrebbe aprire prospettive interpretative che cozzano manifestamente contro il manicheismo imperante - di qua i buoni, di là i cattivi - tanto quanto i “nuovi storici” hanno aperto speculari spaccature nei miti fondativi ed edulcorati della storiografia ufficiale del sionismo.

Il rifiuto alle proposte israeliane - da leggere in sequenza con il rifiuto della proposta britannica di spartizione del ’37, con il rifiuto della spartizione proposta dall'ONU nel ’47 e con i “tre no” di Khartoum del ’67 - parlerebbe piuttosto di una storia complessivamente suicidale delle legittime aspirazioni palestinesi, quanto meno connivente con quella prevaricatrice dell’ultradestra nazionalista e religiosa dei coloni.

In questa logica si capisce meglio la convergenza - nel fallimento di ogni prospettiva di soluzione del conflitto - fra i radicali delle due parti, che hanno preso il potere politico in ambito palestinese fin dai primi anni ’30 e che l’hanno conquistato progressivamente in quello israeliano.

Quello che emerge da questa intervista è che se gli israeliani un De Klerk lo hanno avuto, a più riprese e in diverse vesti (più o meno credibili), un Mandela palestinese in realtà non c’è mai stato. Non c’è mai stato un politico dalla necessaria visione globale e dalla coraggiosa forza di imporre scelte anche parziali, anche insoddisfacenti, ma capaci di far progredire il suo stesso paese sul cammino difficile della autorealizzazione. Quello che, ci ricorda Goldkorn, un Ben Gurion seppe fare accettando la spartizione del ’47, poi diventata indipendenza nel maggio del ’48, nonostante l’opposizione di chi pretendeva subito di più.

Forse perché in Medio Oriente perdere “la faccia” è davvero tutto. E qualsiasi cosa meno di una vittoria totale sarebbe stato “perdere la faccia” ad occhi arabi. Quantomeno agli occhi dei duri e puri dell'islamismo radicale.

La grandiosità politica di un Mandela - che raggiunge l’obiettivo passando attraverso le pericolosissime strettoie di un possibile bagno di sangue di proporzioni epocali e facendo digerire alla gente di colore il riscatto della "conciliazione" invece di quello della vendetta - non è paragonabile al piccolo cabotaggio dei leader palestinesi incapaci di rischiare la faccia per un bene superiore quale la pacificazione tra due popoli destinati a vivere accanto: aspetto speculare all'arroganza del tronfio suprematismo di Netanyahu & Co.

Potrà il "gesto pacifico e quotidiano" della nuova borghesia palestinese nascente, occupata a lavorare e studiare, diventare davvero "vincente" - come ipotizza Goldkorn - al punto da metabolizzare il tramonto dell'ipotesi indipendentista? E questo basso profilo sarà in grado di riaprire spazi politici a un sionismo di sinistra, fedele al progetto iniziale, ma capace di conciliare l'ebraicità con la democrazia e la legittimità delle aspirazioni palestinesi?

Non so se il pessimismo di Yehoshua sui “due stati” sia credibile. Personalmente voglio sperare di no; forse per una mia miopia o forse perché solo sei anni fa il negoziatore palestinese Saeb Erekat ricordava che gli insediamenti erano stati costruiti solo sull'1,1% del territorio della West Bank; aspetto che, nonostante le cose si siano aggravate nel frattempo, non evidenzia una reale impossibilità di soluzione a due stati.

Spero nella divisione perché dopo quasi un secolo di sangue l’idea che i due popoli possano convidere in pace, come se niente fosse successo, in piena parità di diritti, in un unico stato sembra più una battuta di spirito infarcita di amaro sarcasmo che un credibile progetto politico.

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