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Israele-Hamas: alla fine del round

E' l'ora delle valutazioni, con maggiore o minore chiarezza d’intenti, su chi ha vinto e chi ha perso nell’ultimo, pesante round israelo-palestinese che sembra essersi finalmente chiuso oggi.

Partendo dal presupposto che, come sempre, hanno vinto tutti, le considerazioni che bisogna tenere presenti nella valutazione del “come è andata a finire” sono solo quattro o cinque; tante quanti sono i protagonisti della vicenda. Cioè Israele e Hamas, ovviamente; ma anche l’ANP di Abu Mazen e l’Egitto di al Sisi. E un po' più defilato, il presidente americano Barack Obama.

Appare abbastanza chiaro che i due autoproclamati vincitori maggiori, Netanyahu e l’attuale dirigenza politico-militare di Hamas, sono essenzialmente i due veri perdenti (ne parla, in questi termini, anche lo storico israeliano Benny Morris, intervistato dal Corriere).

Il primo perché non ha dato soddisfazione agli abitanti del sud di Israele che da quasi quindici anni sono sotto il costante, quotidiano lancio di quei rottami di ferraglia pomposamente chiamati razzi; i quali, peraltro, se ti prendono in pieno ti ammazzano, ovviamente. Il che significa che un paio di volte al giorno, tutti i giorni, da decenni, quella gente deve mollare tutto quello che sta facendo e correre a rifugiarsi dove può. Con il cuore in gola e magari sperando che i bambini a scuola siano veloci e nelle mani di maestre capaci o che i ragazzini non si comportino da sventati supereroi.

Il preavviso che le sirene possono dare è troppo breve per lasciare il tempo al sistema antimissilistico di calcolare dove sono diretti gli ordigni sparati (e se si tratta di colpi di mortaio non c’è alcun sistema che possa prevederlo); quindi, ovunque i razzi vadano poi a schiantarsi, nelle cittadine prossime alla Striscia gli abitanti devono correre a ripararsi. Stato di guerra permanente con poche vittime, ma stress alle stelle. A cui ultimamente si è aggiunto l’incubo dei tunnel da cui potrebbero spuntare aggressivi nemici. Roba da film dell’orrore.

Per Netanyahu le prossime elezioni quindi potrebbero essere difficili perché non ha “risolto” defintivamente il problema Hamas, come la gente del sud reclamava dal "suo" premier. E il governo del paese potrebbe, dio non voglia, essere spinto ancora più a destra da una popolazione che continua a recepire l’ostilità palestinese (e non solo) come un pericolo reale che nessuno riesce a risolvere. Qualcuno, più che altro quelli che vivono al sicuro all’estero (ma alcuni, molto pochi, anche in Israele), pensa che sia una forma di isteria collettiva e che il pericolo sia millantato per speculazione politica, non reale; ma tant’è, quello che conta è ciò che la popolazione di Israele sente, perché poi è la popolazione di israele che va a votare; e la quasi scomparsa dal panoramico politico di una sinistra che pure ha avuto una storia gloriosa nel paese, alle sue origini, è un segnale inequivocabile.

A Gaza, d’altra parte, pare evidente che una popolazione già pesantemente gravata dalla cronica penuria di beni, acqua ed elettricità conseguente alle singhiozzanti aperture israeliane e alla decisione egiziana di mettere alle corde la Fratellanza della Striscia (tanto quanto quella di casa propria), non è in grado di sostenere più a lungo un conflitto duro come quest'ultimo. Sono migliaia le case distrutte, più di duemila le vittime, migliaia i feriti e i traumatizzati, decine di migliaia i senza casa. E Hamas decide, dopo settimane di combattimenti anche casa per casa, di giustiziare in pubblico un paio di decine di gazawi rei di essere “spie” di Israele. Che fossero collaborazionisti o no, il segnale dato alla popolazione è sembrato forte e chiaro: nessuno si opponga, protesti o contesti. Segno evidente di estrema debolezza del regime.

Comprensibilmente la gente non ne può più e, a parte le storie che la stampa internazionale racconta in modo spregiudicato (diversamente da quello che ha fatto a proposito di Siria dove le vittime e la distruzione sono dieci volte più che a Gaza), è immaginabile che il malumore popolare e lo stress possano investire anche la stessa Hamas.

Né Netanyahu, quindi, né Hamas porteranno a casa, al di là dei proclami, un risultato politico positivo. Cosa ovvia; solo chi può marciare sotto l’arco di trionfo (o la piazza principale) della capitale nemica può davvero essere considerato da tutti il Vincitore. Gli altri saranno solo, agli occhi delle rispettive opinioni pubbliche, più o meno, dei pugili suonati alla fine dell’undicesimo round.

E Israele non ha la forza politica di dare il colpo di grazia finale al nemico (per il quale sarebbe stata necessaria un’occupazione militare della Striscia, non semplici incursioni, e la caccia, casa per casa, ad ogni singolo militante islamico con spargimenti di sangue inenarrabili).

E Hamas non ha la forza politica di imporre davvero la fine definitiva dell’embargo e il riconoscimento della Palestina (e nemmeno della sola Striscia) come stato sovrano, libero, indipendente e senza limitazioni allo spazio aereo o in mare. Dovrebbe, prima, deporre definitivamente le armi perché Israele si decida a prendere in considerazione la cosa, e non sembra intenzionata a farlo. Almeno per ora.

Quindi avanti così (e sono solo al terzo round).

La brava Francesca Borri su Il Fatto Quotidiano, forse calca un po' la mano parlando di 60mila bombardamenti israeliani; ma, contemporaneamente, ci dà una descrizione della West Bank lontana mille miglia dall'immaginario dell'occidente pacifista.

Una Cisgiordania in cui la ricchezza, piovuta sui palestinesi dalla solidarietà internazionale, per una volta sembra non essere finita solo nelle tasche dei soliti noti, ma alla gente. Che compra, investe, costruisce e non intende sentir parlare di nuove intifada. "Perché è così Ramallah: l’occupazione non si sente più. Tutta aperitivi e ristoranti e vita notturna, 200 mila abitanti e musica fino alle due, auto nuove, pavimenti in basalto, case eleganti tutte pietra e vetro, fiori, giardini. La divisione tra Gaza e la West Bank non è solo geografica: riflette due diverse strategie. Quella di Hamas, basata sui razzi e i tunnel e gli attacchi ai coloni, sull’idea che Israele negozierà solo se non sarà al sicuro, e quella invece di Mahmoud Abbas e dell’Autorità Palestinese, secondo cui il solo modo per ottenere una Palestina indipendente è iniziare a costruirla".

Per questo, scrive, "I cortei del venerdì contro il Muro, icona della resistenza dopo l’esaurimento della seconda Intifada, ormai non contano che una manciata di adolescenti in kefiah e fionda e a volte, gli attivisti stranieri sono più dei palestinesi". Segnale molto più significativo delle innumerevoli narrazioni resistenziali che si sentono di solito in occidente. 

A Ramallah si è deciso che la pace si costruisce creando benessere, non tunnel e mortai. "Perché la ricchezza sia incentivo alla pace, non all’indipendenza".

Né più né meno di un Sudtirolo qualsiasi (senza offesa).

E tutto ciò ci porta al primo dei due vincitori di oggi - perché, scrive la Borri, "La guerra di Gaza è stata vinta a Ramallah" - Abu Mazen: che può andare in televisione ad annunciare la firma della tregua indeterminata, uscendo così dall’angolo dove era finito, stretto tra l’incudine israeliana e il martello islamista, dopo il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani, casus belli del nuovo scontro. Il suo ruolo pubblico, riacquistato o, per meglio dire, regalatogli dai mediatori egiziani, gli permette ora di tornare ad essere interlocutore credibile (o almeno necessario) di statura internazionale; l'unico che può parlare con Israele a nome della sua stessa popolazione. Forse la sua strategia, con Hamas decisamente alle strette, porterà a una nuova stagione per i palestinesi, oppure non durerà molto, ma tutto quello che adesso viene per lui è manna dal cielo. Hamas con la sua scellerata politica di scontro suicidale ha portato all'ANP un risultato insperato: riemergere dal buio dell'inesistenza.

Ma la palma di Grande Vincitore deve senz'altro essere attribuita al generale golpista del Cairo, ʿAbd al-Fattāḥ Saʿīd Ḥusayn Khalīl al-Sīsī (più noto come al-Sisi e basta). A lui è riuscita la manovra più spregiudicata: farsi prendere sul serio come mediatore pur essendo notoriamente, apertamente, un nemico dichiarato di Hamas. Il che sembra essere un altro segno manifesto della debolezza del movimento islamico di Gaza.

Non più tardi di un anno fa, il generale decise di far fare ad Hamas la stessa fine della Fratellanza Musulmana egiziana: tutti in galera. Chiuso il valico di Rafah, unica porta non israeliana della Striscia (anche se chi parla sempre di "assedio" israeliano se ne "scorda" l'esistenza), decise di sigillare tutti i tunnel tra il Sinai e Gaza, chiudendone duemila e facendo collassare l’economia dell’amministrazione Hamas. Questa decisione drammatica (costata ai gazawi due miliardi e mezzo di dollari su un PIL di sei e mezzo) è la vera causa del conflitto appena terminato che, per ovvie ragioni, ha poi investito Israele non l’Egitto. Lo strangolamento di Gaza è stato deciso al Cairo molto più che a Gerusalemme.

Hamas, ormai alla frutta economicamente e politicamente parlando, non ha visto altra via d’uscita che attirare su di sé l’ira funesta dell’armata israeliana pur di tornare al centro dell’attenzione internazionale, distratta da altre questioni (Ucraina, Siria, Iraq, Califfato eccetera), ben più cruciali del destino di un milione e mezzo di persone che si sono scelti come governanti degli attaccabrighe come quelli.

Ed è stata costretta, alla fine, ad accettare la mediazione di al Sisi essendo tramontata da tempo, insieme ai Fratelli, la narcisista egemonia turca sul vicino oriente, durata l'attimo di una stella, però cadente. Hamas non è mai stato così solo sul palcoscenico mondiale. Nessun altro poteva fare niente per mediare una tregua "lunga" di cui i due contendenti, per motivi diversi, avevano assoluta necessità. Conosceremo presto i dettagli delle condizioni dell'accordo.

Per ora si ventila solo che i pescherecci potranno andare un po' più al largo a pescare e la riapertura del valico (che curiosamente il TG ha definito “israeliano”) di Rafah, concessione egiziana graziosamente accordata un anno dopo la sua chiusura. Ma con la guardia presidenziale di Abu Mazen, non le milizie di Hamas, a presidiarlo.

Segno evidente che Hamas, per volontà dei mediatori del Cairo, ha abbassato la cresta e non di poco.

Infine, sullo fondo, si intravede Barack Obama. Il presidente americano ha fatto sudare freddo il governo israeliano quando ha tenuto in sospeso per qualche giorno la firma per il rifinanziamento del sistema antimissile Iron Dome e il trasferimento degli armamenti necessari alla difesa: "Secondo quando riporta il Wall Street Journal, la Casa Bianca ha istruito il Pentagono e le autorità militari americane di bloccare il trasferimento di un carico di missili, richiesti da Israele nel corso dell’operazione Margine Protettivo nella Striscia di Gaza" (Daniel Reichel).

Si conoscono i rapporti tempestosi fra Obama e Netanyahu; e non è azzardato pensare che il quinto attore sulla scena (che ha altre gatte da pelare altrove nel mondo) abbia pesantemente fatto capire a Gerusalemme che era l'ora di sospendere questa sanguinosa mano di poker.

E il gong è suonato a sancire la fine del terzo round.

Due giovani Bibi Netanyahu e Barack Obama.

Commenti all'articolo

  • Di Fabio Della Pergola (---.---.---.181) 28 agosto 2014 18:50
    Fabio Della Pergola

    Da Internazionale http://www.internazionale.it/news/s...

    I punti dell’accordo a breve termine

    • Hamas non lancerà razzi contro Israele.
    • Israele fermerà tutte le operazioni militari di aria e di terra nella Striscia di Gaza.
    • Israele aprirà i valichi verso Gaza per lasciare entrare materiale da costruzione e convogli di aiuti umanitari.
    • L’Egitto aprirà il valico di Rafah che collega il paese con la Striscia di Gaza.
    • L’Autorità palestinese si assume la responsabilità di controllare le frontiere della Striscia di Gaza e di impedire ad Hamas di introdurre armi e munizioni.
    • La zona cuscinetto alla frontiera tra Gaza e Israele sarà ridotta da 300 metri a 100 metri dal confine.
    • Israele concede che la zona di pesca si estenda da tre a sei miglia dalla costa della Striscia di Gaza.

    Tra un mese le due parti cominceranno nuovi negoziati con la mediazione dell’Egitto.

    Le questioni in discussione

    • Hamas chiede il rilascio di prigionieri palestinesi, sia quelli in carcere da lungo tempo, sia quelli arrestati nelle numerose retate in Cisgiordania, dopo il rapimento e l’uccisione di tre ragazzi israeliani a Hebron.
    • Hamas chiede la costruzione di un porto e di un aeroporto a Gaza.
    • Israele chiede la restituzione dei corpi dei soldati israeliani uccisi durante il conflitto e la demilitarizzazione della Striscia.
  • Di (---.---.---.240) 31 agosto 2014 08:49

    Gli ebrei dopo la guerra avevano un org chiamata "agana’" o simile, uccidevano e depredavano le proprieta’ dei locali. Sono chiamati "Palestinesi" una civilta’ che pochi sanni sia esistita, ma erano "animisti" per 800 anni hanno occupato le terre che non erano di nessuno. Gli ebrei se ne sono impossessati, giusto, devono anche loro vivere e proteggere le terre cristiane, senno, i musli, se ne farebbero un boccone.
    Ora, le madri ebraiche e palestinesi fanno figli come conigli, in spazi limitati, e’ una guerra demogarafica non dichiarata, come nella zoologia.

    • Di (---.---.---.99) 22 settembre 2014 22:55

      Farneticazioni incomprensibili e senza fondamento alcuno

      Filistei popolazione che abitava la zona costiera che "scomparve" per opera degli assiri 2700 anni fa

      "Palestinesi" (concezione attuale) popolazione araba in parte residuo delle invasioni islamiche a partire dal VII secolo dc e in parte emigrata nel XX secolo da paesi vicini.


      E quanto al numero dei figli non mi risulta che le madri ebree di discostino dalle medie occidentali...
  • Di (---.---.---.231) 5 settembre 2014 14:21

    Analisi perfettamente condivisibile

    grazie

    Fabrizio Lucchesi

  • Di (---.---.---.99) 22 settembre 2014 22:26

    articolo attento ed equilibrato, privo dei soliti luoghi comuni.

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