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Ischia, terremoto: la parola Stato scritta con la sabbia

Una scossa davvero minima, nel panorama dei terremoti che hanno fatto maggiori danni in questo Paese, quella di ieri notte ad Ischia, eppure è bastata per causare morte e distruzione.

di Ivana FABRIS

Le ragioni ormai le conosciamo tutti e come un vecchio refrain, siamo già pronti a dire “…tutto normale, non c’è da stupirsi, si sapeva…”.

Sappiamo tutto. Accettiamo tutto. E subiamo tutto.
QUESTO IL PROBLEMA.

Case costruite dal malaffare, dalla criminalità organizzata che ha il controllo sul territorio.
Case costruite con materiali scadenti e inadeguati, con l’abusivismo edilizio che si reggono sul profitto che dà loro la sabbia con cui si edificano abitazioni buone solo a raccoglier voti e a far attecchire, radicare ed espandere il potere criminale.

Lo accettiamo perché sappiamo che è il solo modo per avere una casa e averla a prezzi abbordabili. Lo accettiamo come accettiamo che si costruisca in sfregio all’ambiente e alla vita umana. Lo accettiamo sperando nella buona sorte, affidando le nostre esistenze ad un fatalismo non più tollerabile perché la sorte non è buona, perché il suolo dove si costruisce ha caratteristiche che non perdonano.

Lo accettiamo perché lo Stato non c'è e particolarmente nel Meridione d’Italia, proprio in quanto sacca di sfruttamento massivo di risorse umane ed economiche, da secoli non c'è mai stato.

Ma in questo meraviglioso quanto assurdo Paese, si parla di TAV, di TAP, di grandi opere che non servono a nessuno, mentre tutto cade a pezzi, mentre le scuole dove vanno i nostri figli e i nostri nipoti sono tutte fuori norma e tutte pericolose tanto che l’emergenza è così dilagante che è diventata normalità.

Si parla di ponte sullo Stretto mentre le case sono costruite per cadere, per creare danni alla salute dell’ambiente e umana, per crollare al primo lieve scossone della terra.

Si parla – e ci fanno parlare – del NULLA mentre i governi che si succedono continuano ad impedire la messa in sicurezza dei fabbricati e del territorio solo per rispondere a voleri di chi se ne infischia bellamente delle vite umane. Per onorare servilmente un potere quale è il neoliberalismo che miete continue vittime in ogni modo e che necessita solo di far scomparire il benessere per tutti per poter dominare il tutto.

Questo è un Paese che potrebbe rinascere e aspirare a raggiungere i suoi più straordinari splendori, che per farlo potrebbe dare lavoro a centinaia di migliaia di persone, è un Paese che potrebbe riprendere a generare benessere e bellezza per tutti.

Non lo si fa.
NON LO SI VUOLE FARE.
L’Italia deve impoverire sempre di più, deve crollare sotto al peso della predazione supportata dal luogo comune che serve ad alimentare la campagna di discredito necessaria a far accettare all’opinione pubblica mondiale, che se accade il peggio è solo colpa di ogni singolo popolo.

Non lo si vuole fare perché il pregiudizio contro l’Italia e gli italiani è lo strumento propagandistico che serve al sistema di potere che ci sta annientando, per far sì che tutto degeneri col consenso dell’opinione pubblica mondiale.

Nell’era della globalizzazione economica e della comunicazione globalizzata, NULLA di quanto riguarda i vari paesi del mondo, è disgiunto. Eppure tutti continuano a credere che ciò che colpisce l’Italia non abbia a che fare con quello che annienta i popoli africani, mediorientali o i popoli dell’America Latina. Eppure non è così. Ma il pregiudizio e il luogo comune, alimentati dal sistema, continuano a scavare un solco che ci separa gli uni dagli altri.

Divide et impera continua a funzionare, continua ad ottenere quanto vuole chi ci domina.

Cerchiamo di esserne coscienti e ad essere coscienti anche del valore del nostro Paese e di noi stessi come popolo. Cerchiamo noi per primi di non essere strumenti contro il nostro stesso interesse. Cerchiamo di essere consapevoli e di amare il nostro Paese, di difenderlo da continue aggressioni.

Solo così sconfiggeremo chi ci vuole solo sudditi e, in nome del massimo profitto, servi da sfruttare anche fino alla morte.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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