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Intervista al direttore del Corriere dello Sport: "Italia umiliata dalla Spagna, celebrazioni della sconfitta ridicole"


Roma. Mai avrebbe pensato di ringraziare i giornalisti, ha detto Cesare Prandelli dopo essere stato infilzato da quattro brucianti banderillas spagnole. "La stima umana fa piacere, la critica come strumento violento è invece difficile da accettare". Tutto bello e tutto giusto. Non fosse che all'indomani della più terribile débâcle della storia del calcio in un torneo internazionale, il timore di non ricambiare tanta amorevolezza, abbia indotto buona parte delle firme sportive nazionali a trasformare la critica in uno strumento ancora più arduo da digerire: un set di pennellini per la manicure traboccante di smalti e oli addolcenti.

Intendiamoci. Il nostro commissario tecnico si è meritato ogni oncia del rispetto che i tifosi e gli addetti ai lavori gli hanno tributato. Ha iniziato l'Europeo così così, ha proseguito bene guadagnandosi l'etichetta di Mosè del nuovo tiqui taqua italiano e ha restituito credibilità a una nazionale che sembrava squagliata per sempre nell'afa del mondiale sudafricano. Ma soprattutto ha concluso malissimo, con una finale giocata in maniera indecente e grossolana, e gestita nel peggiore dei modi: l'unica cosa che in fin dei conti resterà negli annali, insieme al grottesco entusiasmo che ha accolto gli azzurri. Se Cesare Prandelli ringrazia i giornalisti, ne ha ben donde. Perché da uomo di spessore, come di rado accade nel calcio, il ct ha fatto molta autocritica, mentre la stampa si è limitata a consolarlo mettendosi sull'attenti come di fronte a Garibaldi ferito ad un gamba.

Ai nuovi predicatori del miracolo azzurro (perché si è parlato di miracolo quasi fossimo il Gabon che realizza il suo sogno e balla tutta la notte perché chissenefrega del risultato) non si è unito per fortuna il direttore del Corriere dello Sport, Paolo De Paola, che da vero giornalista, sine ira ac studio, ha argomentato il suo disappunto per una finale buttata via che non fa onore alla nostra storia. "È vero", spiega a liberal il direttore, "si è avuta l'impressione che una squadra quattro volte campione del mondo come l'Italia, contro la Spagna sia stata colta da un'improvvisa tremarella". E anche lui, proprio come scritto dal nostro giornale l'altro ieri, manifesta stupore per le grida di giubilo che hanno accolto una squadra uscita dal campo con le ossa rotte, e le ceneri portate in processione tra gli osanna. Che cosa succede al nostro orgoglio, alla nostra memoria storica che almeno in ambito calcistico non teme confronti e non sopporta quindi certi penosi buonismi alla Candy Candy?

Perché invece che perdenti, ci proclamiamo diversamente vittoriosi? "Da qualche tempo siamo sempre più assuefatti alla logica del meno peggio", commenta De Paola, "A tutti i livelli, dalla politica alla società, si è insinuata l'abitudine ad accettare di buon grado l'opacità, il risultato modesto. È un costume di pensiero che forse si addice a molti aspetti propri di questo Paese che affronta un periodo storico difficile, ma che non si attaglia affatto al nostro calcio. Quanto al pallone, l'Italia rappresenta una superpotenza. Siamo stati a lungo i migliori e orgoglio e fierezza sono gli ingredienti più tipici della nostra tradizione". Si può perdere, certo. E nessuno si sogna il ticchio di frignare. Ma farsi umiliare in questa maniera, quasi con un gridolino di piacere per le mazzate sul groppo, questo no, non ci può appartenere. "Il vero punto dolente è stato la finale: ci siamo arrivati da provinciale, e va bene. Ma da provinciale ne siamo anche usciti, e questo è inaccettabile", concorda il direttore.

Ed è accaduto perciò che nonostante Dio perdoni ma la stampa italiana non sia mai parsa attrezzata alla bisogna, la mole enorme di sbagli commessi dal nostro allenatore si sia tradotta sui giornali in qualche tenero buffetto sulle guance di un amico sventurato: "Mannaggia Cesarino, se non ti si infortunava Thiago Motta...". Proprio lo stesso Thiago che nelle partite precedenti si era mostrato reattivo quanto un gatto di marmo infiltrato a una convention di topi insurrezionalisti che ordiscono un blitz nel tuo tinello. Entrato al minuto sessanta quando eravamo sotto due a zero, Motta ha rappresentato il simbolo di una resa senza condizioni. E il fatto che per di più si sia lievemente infortunato, diciamolo, non ci ha fatto certo gridare al destino cinico e baro: in fondo, con o senza di lui saremmo rimasti comunque in dieci. Ma l'ingresso funesto del brasiliano ha sottolineato anche l'errore più marchiano di Prandelli: la quieta rassegnazione alla sconfitta. "L'operazione Europei del nostro ct merita il massimo rispetto", chiarisce il direttore del Corriere dello Sport, Paolo De Paola, "perché ha restituito alla nostra rappresentativa dignità di gioco, ma la preparazione della finale è sembrata inficiata da un clima sin troppo festoso. Ci siamo congratulati prima ancora di scendere in campo, abbiamo detto "grazie comunque" ancor prima di giocarcela. Poi è arrivata anche la lettera dal Quirinale, che avrebbe avuto maggiore efficacia dopo la finale, e non prima. Diciamo che tutta questa gratitudine prematura può aver fiaccato la giusta tensione che serviva per affrontare la partita che a quel punto contava davvero".

Un clima di sfiducia costruttiva, che forse ha incoraggiato il nostro mister a delle scelte incomprensibili, di cui lui stesso sembra essersi pentito. "Il debito di riconoscenza di cui ha parlato Prandelli verso alcuni giocatori", chiosa De Paola, "è stata l'ammissione di aver sbagliato formazione. Davvero ha mandato in campo gli undici uomini più in forma, come recita il solito ritornello che accompagna le scelte degli allenatori, oppure il ct si è lasciato condizionare da fattori che non sono compatibili con la semplice legge che prescrive di mandare in campo i migliori?".

Onorevole per l'uomo, la confessione del mister danneggia il selezionatore ma anche il nume tutelare dello spirito collettivo di cui l'allenatore si era fatto ispiratore. "Non si può dire che tutti gli uomini in rosa sono ugualmente importanti e hanno il merito di giocare, se poi nel momento decisivo ne accantoni alcuni, tra l'altro molto in forma, per altri che hanno dato tutto e sono in evidentissima flessione", ragiona il direttore del Corriere dello Sport. "C'erano uomini che si erano mostrati guizzanti come Diamanti o lo stesso Giovinco, e che avevano mostrato un'ottima condizione come Nocerino. E invece gente come Chiellini e Marchisio aveva chiuso la semifinale sulle gambe. Perché non dare ossigeno e forze fresche a una squadra che aveva già speso tantissimo? Un'eventuale vittoria non avrebbe sminuito il valore di calciatori preziosi in quest'avventura. Al contrario, un buon turn over avrebbe sublimato lo spirito del gruppo che è stata l'arma vincente di Prandelli".

Si è detto con troppa enfasi della superiorità spagnola. Ma in pochi hanno fatto notare che nel girone di qualificazione le furie rosse le avevamo matate eccome, e non erano certo parse creature discese dall'iperuranio anche per nostri meriti. "Abbiamo sbagliato clima e intenzioni, ma anche strategia", spiega Paolo De Paola, "nella prima partita contro la Spagna il centrocampo a cinque aveva ridotto moltissimo i margini di manovra spagnoli e ci aveva permesso rapide ripartenze. In finale, invece, ci siamo proposti insiegabilmente a quattro, dietro, sguarnendo un centrocampo già stremato fisicamente, nel quale gli uomini di Del Bosque hanno trovato modo di fare il bello e il cattivo tempo". E l'armamentario retorico nazionale, non ci ha risparmiato neppure questa volta i birignao sul crollo fisico. Ma visto che Real e Barcellona, e cioè la nazionale spagnola, sono arrivate anche quest'anno in fondo a tutte le competizioni, esiste forse qualche misterioso ritrovato che a Ovest di Roma impedisce lo sviluppo delle tossine? "La storia della condizione fisica lascia enormi perplessità", risponde il direttore, "possibile che un evento come gli Europei non sia pianificato in tutte le sue variabili da uno staff che lo organizza nei dettagli? Anche da questo punto di vista, come già detto a proposito della gestione psicologica della finale, mi pare ci sia stato un tracollo. Qualcosa che con termini tecnici, definirei piuttosto un vero "svaccamento". Di solito ci si adagia sugli allori quando si vince. È sbagliato, ma per lo meno ha senso. Ma a che cosa serve adagiarsi sugli allori di una sconfitta?

"Il traguardo si raggiunge quando si taglia la linea, non quando ci si ferma a un passo", annota De Paola. "È la dura legge dello sport. Attenzione, la bellezza di aver ritrovato una nazionale attorno alla quale stringerci tutti insieme, rimane. Resta agli italiani il piacere di ritrovarsi in piazza tutti insieme, per una volta uniti in nome di qualcosa. Ma le sconfitte di questo genere non si magnificano, nè si celebrano. E in fondo, quando si tenta di fare della critica costruttiva, si rivendica con orgoglio la nostra tradizione e le aspettative che ci siamo guadagnati sul campo, e non per divina intercessione. Molti nostri lettori, tanti italiani, sono stati riconoscenti verso gli azzurri. Ma la passione per il gioco del calcio e per questi colori non li ha accecati. Si poteva perdere contro una Spagna che ha messo in fila tre trofei internazionali. E si poteva accettare la sconfitta, perché mai come stavolta la Nazionale ha espresso un'idea di calcio apprezzata all'estero e da noi italiani. Ma perdere così non è da noi, ed è giusto sottolineare che questa partita è stata buttata via con troppa fretta, dopo un grande lavoro. Prandelli ha sbagliato ma si è meritata la chance di guidarci ai mondiali". Tanta umiltà, tanti sogni roboanti realizzati, ci lasciano soltanto un paradosso. Perdere quattro a zero ed essere felici. Roba da Italietta. Niente di peggio che l'arroganza dell'umile.

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