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Intervista a Kailash Satyarthi, Premio Nobel per Pace 2014

Da New Delhi, Daniele Pagani

Kalkaji è un normale quartiere nel sud ovest di Delhi, diviso tra tranquille aree residenziali ed il solito colorato ed inarrestabile caos indiano. Qui ha sede Bachpan Bachao Andolan (BBA), organizzazione che da circa vent’anni combatte lo sfruttamento minorile. La battaglia di BBA non è fatta di molte parole e pubblicità, ma di azioni concrete: irruzioni e blitz in fabbriche che schiavizzano e sfruttano bambini sono all’ordine del giorno.

Oggi, però, l’urlo di gioia degli attivisti ha dato inizio ad un giorno di festa. Kailash Satyarthi, sessantenne fondatore dell’organizzazione, ha vinto il Premio Nobel per la pace insieme alla diciassettenne Pakistana Malala Yousafzai, sopravvissuta due anni fa ad un attentato dei Taliban. Il suo blog, in cui descriveva le negazioni quotidiane del diritto all’istruzione per le giovani donne pakistane, era diventato scomodo.

L'attivismo di Bba è costato molto ai suoi membri, ma non in termini di denaro. In India il lavoro minorile è una gallina dalle uova d'oro: i bambini lavorano ininterrottamente, schiavizzati e non pagati, trasformandosi nella forza lavoro gratuita che consente il massimo profitto.

La criminalità organizzata indiana, attiva soprattutto nell'industria dei mattoni, nelle miniere di carbone e nelle industrie di gioielli e tappeti poggia gran parte della sua economia sul lavoro minorile. Combattere realmente questo fenomeno vuol dire scontrarsi direttamente con i gruppi della malavita locale: irrompere in una struttura clandestina e liberare bambini costretti ad intrecciare tappeti sedici ore al giorno senza cibo significa bruciare giri d'affari spesso sostanziosi. Esporsi è pericoloso, soprattutto in un paese nelle cui zone rurali e periferiche non esiste una differenza netta tra criminalità organizzata e istituzioni: spesso si compenetrano, si sovrappongono e fanno affari. Più di una volta Kailsh e gli attivisti che lo accompagnavano sono stati aggrediti e brutalmente picchiati. C'è anche chi ha perso la vita, come Dhoom Das ammazzato nel 1984 o Adarsh Kishore, ucciso nel 1985.

In un ufficio affollato da giornalisti e attivisti, pochi minuti dopo aver ricevuto la notizia, Kailash Satyarthi ha risposto ad alcune mie domande.

La domanda sarà scontata, ma come non farla: come ha accolto la notizia?

Questo premio è un riconoscimento ed un onore per i milioni di bambini che ancora sono in schiavitù, che sono privati della loro infanzia, dell’educazione, ma soprattutto del loro diritto fondamentale alla libertà. Voglio ancora una volta ricordare e richiamare all’attenzione il fatto che ci sono ancora molti, troppi bambini che lavorano come schiavi nelle fabbriche di mattoni, nelle case, nelle miniere. Spesso rimangono invisibili. Questo premio è per loro, ma è anche per gli indiani: l’India è forse la madre di centinaia di problemi ma è anche anche la madre di milioni di soluzioni.

Lei sta dividendo il Nobel con una cittadina pakistana. Come legge questa situazione alla luce delle recenti tensioni tra i due paesi?

Credo che sia stata una grande decisione, un messaggio che non deve arrivare soltanto ai governi, ma soprattutto ai cittadini. Ho lavorato con organizzazioni pakistane per molti anni, sono stato lì spesso e conosco la gente. Ho sempre pensato che una convivenza pacifica sia e debba essere possibile. Possiamo e dobbiamo vivere in pace nel nome dei comuni valori dell’umanità, soprattutto quando parliamo di infanzia. I bambini devono nascere e crescere nella pace, devono divertirsi e viversi l’istruzione come esseri umani liberi.

Spesso la povertà è considerata origine dello sfruttamento minorile…

Il fatto che la povertà sia causa e perpetuazione del lavoro minorile è solo ed assolutamente un mito. È in realtà il lavoro minorile a permettere alla povertà e all’analfabetismo di continuare ad esistere. Non possiamo più nasconderci dietro alla scusa della povertà come origine dello sfruttamento minorile e del furto dell’infanzia dei nostri bambini. È inaccettabile.

Come investirà il denaro ricavato da questo premio?

Ancora è presto per dirlo, parlerò con i miei collaboratori e soprattutto parlerò con i bambini e cercheremo di capire quale è il modo migliore per utilizzare il denaro.

Che cosa le ha fatto scegliere di intraprendere questo lavoro?

Tutto è nato dalla compassione, quando avevo cinque o sei anni. Per la prima volta, nella mia città natale ho visto un bambino che aveva la mia stessa età lavorare con il padre; proprio davanti alla mia scuola. Provavo un sentimento contraddittorio: da una parte io ero contento e studiavo con gioa, dall’altra c’era lui che, invece, lottava per la sua infanzia e per il suo sostentamento. Chiesi ai miei genitori e al mio maestro come fosse possibile e mi diedero la stessa risposta: sono bambini poveri e quindi lavorano. Non mi convinsero. Un giorno chiesi al padre di quel bambino, come mai non mandasse il figlio a scuola; mi guardò come se gli stessi facendo una domanda assurda e mi rispose: noi siamo nati per lavorare. Rimasi stupito ed attonito. Perché qualcuno era nato per lavorare mentre io, invece, me ne andavo a scuola sereno? Queste domande mi hanno sempre accompagnato e il non aver trovato una risposta convincente mi ha portato a iniziare a combattere.

Sembra, però, che questo problema sia infinito. Molti sono stati i progressi, ma la questione è ben lungi dall’essere conclusa. Cosa manca?

Qui chiamo in causa una cosa ben chiara. Tutti parlano di globalizzazione dell’economia e del mercato, molti parlano della globalizzazione della conoscenza. Io voglio chiamare in causa la comunità globale ed ogni singolo cittadino del mondo affinché si globalizzi la comprensione e la compassione verso i bambini. La globalizzazione della compassione è quello che manca.

Da New Delhi, Daniele Pagani

@paganida

Questo articolo è stato pubblicato qui

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