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(In)tra(per)culturando: analisi confronto con Alcide Pierantozzi - Parte I



… dove mi porterà? Dove ci porterà, fratellino? – quel tragitto e questi lampi, e questi tuoni e questo timore sconosciuto; e questo considerare bellissimo e pieno un momento del genere, con o senza poesia? Il linguaggio non ha senso se non conosciamo quello che ci sta intorno e le parole, gli avverbi di Tempo: adesso, ieri, per noi – per ognuno – sono la resa di chi, ahimè, non ha mai capito niente.

(‘Uno in diviso’ di A.Pierantozzi, Hacca, pag.44-45)
“Alcìde Pierantozzi rappresenta il caso raro di una voce che ha saputo acquisire fin da subito credibilità senza nessun ricorso a carinerie di prosa o strizzamenti d’occhio. La sua convinzione in quello che fa è talmente radicata che chi viene in contatto con lui si convince a sua volta. Questo non vuol dire che poi tutti concordino con la sua idea di letteratura, vuol però dire che gli si riconosce il fatto di averne una e di perseguirla. Mi pare un bel risultato. 

"Uno in diviso" è poi un romanzo notevole per due motivi. Uno è la pacificazione con l’orrore: Alcìde non retrocede di fronte a quello che racconta, forse talvolta trema, ma poi va avanti. Riesce ad affrontare lo sfacelo narrandolo. L’altro è questa scelta di una lingua letteraria fatta non di un lessico selezionato in senso sublime, ma pescandolo soprattutto nei dialetti e nelle prose novecentesche per poi appoggiarlo su una sintassi fatta di sprezzature, sintagmi che confliggono, interpunzione volutamente franta e singhiozzante.” (Gabriele Dadati)
Ho letto ‘Uno in diviso’ seguendo un percorso collegato al concetto di ‘male’ pieno di tentacoli, deformato, mutevole, chiaroscuro. Poco alla volta, stringendo e facendo mio un libro pubblicato nel 2006 che ha ottenuto una lunga serie di riscontri (qui la rassegna stampa di Hacca), il cui autore è stato inserito tra i ‘giovani autori contemporanei italiani’, ’promessa della scrittura’ per intenderci. Prima pubblicazione, già seguita da un’altra (‘L’uomo e il suo amore’, Rizzoli, 2008). Dunque avere vent’anni o poco più. Due libri usciti per case editrici medio e grandi. Una ‘statistica’, almeno sulla carta, di tutto rispetto. La prossima pubblicazione si attende per il 2010 sempre per Rizzoli mentre altri progetti prendono forma. Pierantozzi non si sottrae alla mia curiosità analitica, paziente ed educato anticipa un incessante lavoro tra storie che si plasmano, attendono. E a voler ragionare su numeri, intervalli temporali e consensi si rischia l’assuefazione da ‘novello genio’. Rischio calcolato forse, eppure “il talento inquieta” asserisce Marco Mancassola (prevedendo i riscontri della prima pubblicazione), e nella seconda di copertina definisce “la furia simbolica, sessuale, filosofica, omicida" che in questo romanzo spurga, dilaga, irrompe. In effetti è una storia poco glitterata, quella di ‘Uno in diviso’, inadatta alla classica immagine del best seller con la copertina lucida che ammicca dalle vetrine rinomate. 
 
‘Uno in diviso’ non è libro da prendere alla leggera, tutt’altro.
Non ha il sapore annacquato del tormentone annunciato con gli ombelichi adolescenti scoperti o le lingue sporche di latte che tentano incastri improbabili. Ci sono lingue, si, ma sono quelle di due gemelli siamesi uniovulari il cui corpo naturalmente ricrea una forma a ipsilon con un paio di gambe, un pene e due busti con i relativi ‘accessori’ del caso (due teste, due paia di braccia, due lingue appunto capaci anche di unirsi in un bacio che è intero nella divisione: “questo bacio amaro e dolce, questo bacio forte e fragile, che nessuno vede, questo bacio divino e infernale”, pag.92). 
Kehinde e Taiwo dunque si presentano al lettore rubandosi la scena a vicenda, narrando in prima persona, mostrando un’altalena di punti di vista, precisa e accurata perché le voci sono divise appunto, eppure il legame, questa sorta di fusione galleggiante resta, ammalia. “Io, Taiwo” ripete continuamente Kehinde ma anche il fratello Taiwo insisterà sul concetto “Io, Kehinde” per raccontare, descrivere, spiegare, argomentare. Perché anche le menti - soprattutto le menti - sono inequivocabilmente indipendenti, tendono a scontrarsi, ragionano flettendo logiche filosofiche, pensieri e riscontri. Taiwo e Kehinde sentono un ‘uno in diviso’ tra-con-per loro. Ciò che accade a uno si riflette immancabilmente sull’altro deformandone in parte reazioni, carattere e inclinazioni in una sorta di ‘non legame’ fisico che è carne pulsante aggrappata alle stesse ossa.
Io ero malato consapevole della mia malattia. Taiwo era guasto, inconscio del suo stato psicosomatico. Non so bene di cosa soffrissi: non abbiamo mai consultato un dottore…
(pag. 29 – voce di Kehinde, da notare l’alternanza tra ‘io’ e ‘noi’)
Il mio male invade la sua metà corporale, gli intorpidisce le membra e lo contagia. Penso che non ci sia nulla di più contagioso del male
(pag.108 – voce di Taiwo)
I due protagonisti lavorano al ‘Bordeaux’, locale dietro la Stazione Centrale di Milano, classificato come ‘sauna’ anche se il lettore non fatica a smascherare il gioco linguistico atto a celare un luogo di incontri sessuali espliciti dove i gemelli sbirciano corpi e atti ma non devono farsi vedere eccetto dietro il bancone a coprirne i ‘punti di unione’ per accogliere a dovere i clienti (tessera, ciabatte, chiave dell’armadietto assegnato, profilattico extra strong e asciugamano bordeaux; sono segnali precisi, elenco di una casualità disarmante).
C’è un simbolo che è animale, carne quanto trasposizione, che appare dalla prima riga dell’incipit per proseguire strisciando ovunque, in silenzio a tratti ma con pressante ossessione.
Furono i serpenti a rovinarmi la vita.
(pag.15 – prima riga dell’incipit)
I serpenti, creature viscide, oscure, incarnazioni del male ma anche realtà celate, nascoste nell’ombra. Proprio come in uno dei primi episodi del romanzo, quando il nonno si trova faccia a faccia con un rettile di due metri nascosto nella stalla che finirà sfasciato in due parti investendo la testa del nonno stesso di “un flutto di latte insanguinato pieno come un’onda” (pag.19). Una scena precisa, raccapricciante, che il lettore immagina e forse rabbrividisce disgustato. Ma è serpente anche l’ouroboro tatuato sul collo di Taiwo, un serpente che si morde la coda per l’esattezza, a rappresentare la natura ciclica della vita, “il tempo che ritorna su se stesso” come insisterà più volte Pierantozzi nel corso nella narrazione. Insistenza cadenzata da indicazioni temporali, orari che ricorrono, si ripetono facendosi largo tra la nebbia onirica degli svolgimenti. 19.47.02. Ripetizione ossessionante, ipnotizzatrice. Fino a 19.48.02 verso la fine, un minuto in più e “il mondo è finito”.
La narrazione è frazionata in capitoli brevi, relativamente brevi, con titoli che sono riferimenti danteschi espliciti. Gironi incastrati gli uni negli altri in una sorta di giochi tra matrioske misteriose, sospettosamente velenose dove i sogni si confondo con l’artificio e la realtà. Realtà di matrice sessuale, legata agli incontri a cui assistono i gemelli nella ‘sauna’ ma anche quella cruda e assurda della cronaca nera, nella fattispecie il tragico delitto di Cogne spennellato nel capitolo ‘girone dell’artificio’ dove un inatteso blackout si alterna con stralci di un articolo di giornale da cui si materializzano l’avvocato Carlo Taormina, Piergiorgio Grosso, il piccolo Samuele Lorenzi. Apparizioni. Logiche che si (con)fondono con la scena principale ma non ne restano assorbiti del tutto. Contrasti evidenti, stridenti con la ferocia del bambino innocente. “ Senza dire niente, vista l’ora, torniamo a lavorare”. Così si conclude l’incursione. E si resta ghiacciati.
C’è molta crudeltà in questo libro, immagini volutamente disgustose, che uniscono un certo retrogusto horror con i simbolismi da fondale perduto. Nulla accade per caso, pur apparendo tale. Le inquadrature si spostano repentinamente. I gemelli sono due e uno, si cercano, combattono, proteggono e fuggono. Ma non celano nulla al lettore che li rincorre ansante probabilmente stordito o peggio: a pezzi.
Le ho tolto i pantaloni scozzesi. Le gambe della straniera sono di latte. Adesso che le ho sfilato le mutandine, anatomizzo il suo pube roseo e depilato, simile al cuore dei una pesca.
(pag.94 – girone degli aborti)
Seguendo i fili della narrazione, si intravvedono alcune sotto-tematiche intriganti, che aprono spiragli a logiche e ragionamenti mai sazi, come il ‘dualismo’ e la ‘follia’. Contatto l’autore per alcune domande di approfondimento.
Chi è Alcide Pierantozzi, lo scrittore?
Bella domanda. Freud, mi pare, diceva che l’ego non è mai padrone in casa propria. Ecco, mi piacerebbe fare un piccola inversione di senso: Alcide lo scrittore è padrone in ben due case, la propria e quella di Alcide il ragazzo. Tutta la mia vita è al servizio della letteratura.


Il prossimo giovedì il resto dell’intervista-analisi.
Ringrazio Alcide Pierantozzi per la disponibilità.

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