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In Bolivia la storia non si ferma più

Mentre in Brasile la caduta improvvisa di Marina Silva e un serratissimo ballottaggio tra Dilma Rousseff e Aecio Neves hanno scompaginato tutti i sondaggi, le elezioni boliviane li hanno confermati appieno.

Evo Morales e il suo Movimiento Al Socialismo non erano infatti mai scesi sotto il 50% di intenzioni di voto, serenamente avviati alla vittoria al primo turno, un esito scontato. Ciononostante, i termini del terzo trionfo elettorale del primo presidente aymara della storia del paese hanno acquisito una dimensione imponente. Non solo Morales e il suo partito sono lontani dal dare qualsiasi segno di cedimento, attestandosi su di un 60,06 % di suffragi (e i due terzi dei seggi parlamentari) che poco si discosta dal 62,51 ottenuto nel 2009, con un aumento effettivo di 140.00 voti. Ma annichiliscono una opposizione nulla, a più 35 punti di distacco, il 24,98% di Samuel Medina, e che anche in una virtuale alleanza con il terzo candidato, l’ex presidente Jorge Quiroga, raggiungerebbe appena un terzo dei consensi totali.

Ne è passato insomma di tempo dal lontanissimo 2005, quando sulla scia delle guerre dell’acqua e del gas, delle privatizzazioni e della repressione dei cocaleros, il 62% di popolazione indigena della Bolivia aveva infine la meglio sulla minoranza criolla che da sempre detiene le redini del paese, trascinando Morales ad una storica vittoria con il 53% dei suffragi. E ne è passato anche dal “colpo di stato” del 2008, quando le regioni orientali della “medialuna”, agroesportatrici e ricche di idrocarburi, si ribellarono contro la nuova costituzione “plurinazionale” recentemente approvata dal governo e ratificata dal 67% della popolazione. Autoproclamatasi “civici”, i partigiani di una maggiore autonomia degli stati orientali portavano nuovamente alla ribalta le ataviche questioni di classe, razza ed etnia che erano alla base della profonda diseguaglianza sociale del paese, contrapponendo la popolazione bianca e meticcia ai “contadini e indigeni” delle provincie minerarie occidentali. Ora il controllo del paese da parte del oficialismo sembra molto più saldo, e vari esponenti del governo hanno proclamato, dati alla mano, la definitiva vittoria contro le provincie “separatiste” e le tentazioni di golpe. Non solo infatti il M.A.S. ha confermato un predominio assoluto nella fondamentale provincia di La Paz, sfiorando il 70% dei consensi, ma ha “sfondato” ad est, vincendo per la prima volta anche a Santa Cruz, dove un tempo il presidente non poteva nemmeno presentarsi in pubblico senza temere di essere cacciato. Il M.A.S. ha conquistato 8 provincie su 9, con la sola eccezione della provincia di Beni: unico dato negativo per Morales è stata una flessione generale nella zona dell’altipiano, bilanciata però dalla storica avanzata in zone tradizionalmente ostili.

Le elezioni di domenica scorsa hanno anche confermato la tendenza ad ampliare il diritto di voto dei numerosissimi emigrati all’estero in una emorragia storica e che sembrava senza fine. Dopo che già nel 2009 i boliviani residenti in Argentina, Spagna, Stati Uniti e Brasile avevano potuto votare, in questa tornata si è allargata l’iscrizione ai registri elettorali a 270.000 emigrati di 33 paesi. La modifica in questo senso della legge elettorale si inquadra nel piano di “ritorno” con il quale il governo sta promuovendo da qualche anno il rientro volontario dei connazionali che lo desiderino, per trovare il loro posto nel boom economico boliviano.

Il cuore energetico del Sudamerica

La sicurezza di un terzo mandato di Morales (resa possibile da un pronunciamento del Tribunale superiore che giudicò “nulla” la prima presidenza perché svoltasi sotto un diverso regime costituzionale) contribuisce a delineare i possibili equilibri futuri del continente, dando un segnale positivo al fronte integrazionista, che vede la sua più grande battaglia avvicinarsi con il secondo turno brasiliano del 26 ottobre.

Ma soprattutto “blinda” il processo di profondo cambiamento in corso dal 2005 nel paese andino, non potendo scorgersi nel futuro vicino una qualsiasi riorganizzazione della destra che possa provare a invertirlo. Morales, il presidente indio e cocalero che ha espulso dal paese l’ambasciatore statunitense e l’agenzia anti-droga (la DEA) nordamericana, che ha dedicato la vittoria a Castro e Chavez, è ancora in sella, e sembra avere piani a lungo termine.

Il Mas considera infatti nel suo discorso ufficiale gli appuntamenti elettorali come una pratica minore sulla strada verso il 2025, quando si compiranno i duecento anni di indipendenza del paese e la “nuova e definitiva indipendenza”. L’agenda patriottica ha l’obiettivo infatti di portare a termine la “decolonizzazione” del paese, attraverso il perseguimento di 13 “pilastri” che spaziano dal politico al sociale all’economico.
I primi due aspetti sono stati finora affrontati con la radicale riforma della costituzione del 2007, che ha trasformato la Bolivia in “stato plurinazionale”, riconoscendo per la prima volta una serie di diritti ai popoli originari e con un vastissimo programma di riforme sociali che ha sradicato l’analfabetismo (96,2% di alfabetizzazione nel 2014, dati Unesco), ha quadruplicato il salario minimo e dimezzato la povertà e la povertà estrema. Il simbolo più potente di questa spinta redistributiva è forse la teleferica che collega La Paz alla cittadina operaia di El Alto, recentemente inaugurata e che collega, non solo materialmente, due mondi tradizionalmente ben distinti della società boliviana.

Queste misure sono state rese possibili da una prosperità economica inusitata a quelle latitudini. Il governo più stabile della storia boliviana ha coinciso infatti con una fase di acuta crescita economica (6,78% nel 2013, le previsioni parlano di una cifra simile per i prossimi anni), in gran parte dovuta alla nazionalizzazione degli idrocarburi e agli investimenti pubblici. In dieci anni le riserve di valuta estera si sono moltiplicate per 15, l’economia per 4 e il paese si è conquistato una affidabilità finanziaria che anche il banco mondiale e l’Fmi hanno dovuto ratificare.

Nonostante il vicepresidente marxista Álvaro García Linera parli di una traiettoria che dovrebbe portare in alcuni anni la Bolivia da esportatrice di materie prime a produttrice ed infine ad approdare alla “economia della conoscenza”, l’obiettivo a breve termine è di trasformare il paese nel “cuore produttivo del continente”. A differenza di quanto accadeva in tempi non troppo lontani, l’attuale élite politica aggiunge un aggettivo: sovrano.

La Bolivia possiede infatti la quarta riserva di gas naturale della regione, finora non sfruttata appieno, nonché ingenti riserve di litio. Già in atto inoltre i piani per dotare il paese di nucleare a fini pacifici.

La maggior parte di questi imprendimenti sarà finanziata anche con capitali esteri, in particolare cinesi (un prestito da 405 milioni di dollari), che hanno individuato nel continente sudamericano un polo di approvvigionamento energetico vitale per la loro economia. 

Il punto cruciale pare essere allora il carattere di questo nuovo sviluppo energetico: in molti hanno sottolineato come la classica dipendenza da Washington e dai paesi europei potrebbe solo cambiare di colore e “regionalizzarsi”, o spostarsi sull’asse dei paesi Brics. Il Brasile è l’esempio più importante. Vi sono infatti innumerevoli progetti bilaterali che aumenterebbero la penetrazione dei capitali brasiliani nel paese. I maggiori e più significativi riguardano l’energia e le esportazioni agricole. Nei prossimi anni verranno costruite in Bolivia ben cinque centrali idroelettriche che dovrebbero produrre energia sufficiente a coprire da 4 a 20 volte il fabbisogno energetico totale del paese, e la cui spaventosa eccedenza sarebbe interamente destinata al potente vicino.

I costi sarebbero però interamente sulle spalle della Bolivia, che oltre a subire le enormi ripercussioni ambientali delle opere dovrebbe ricorrere all’indebitamento per finanziarle, ossia pagare le aziende brasiliane che si incaricheranno della loro costruzione. Il potente fondo di sviluppo brasiliano Bndes non è infatti finora abilitato a sovvenzionare opere realizzate fuori dai confini nazionali. Simile discorso per gli investimenti di Brasilia o di aziende brasiliane per rendere navigabili i fiumi interni di Bolivia e Perù e ottenere così uno sbocco sul pacifico (leggasi esportazioni verso la Cina) per la soia. Ciò aumenterebbe di riflesso la produzione dei due paesi confinanti, ma risponderebbe direttamente alle esigenze dell’economia brasiliana. Una penetrazione che sventola la bandiera dell’integrazionismo, ma che ricorda da vicino la classica “solidarietà interessata” delle imprese occidentali. (1)

Le sfide per i governi progressisti della regione sono molte, ma le principali riguardano il modello economico. Il titanico sforzo necessario a rompere le catene di una primarizzazione dell’economia di stampo colonialista e neo-colonialista fatica a bilanciarsi con la sostenibilità ambientale e il rispetto dei diritti dei popoli originari, costituzionalizzato da molti di questi governi. In Bolivia il tutto è acutizzato dal carattere “plurinazionale” del paese, una nuova “natura” politica che dalla carta fatica a passare ai fatti, essendo l’estrazione mineraria e petrolifera sotto accusa per essere condotte senza il consenso e il coinvolgimento delle comunità indigene. Al punto di accusare la nuova architettura costituzionale di essere puramente “cosmetica”, non trasferendo potere decisionale alle “nazioni” che formano il paese.
Il caso più importante di scontro fra il governo e le comunità è il progetto per la costruzione di un’autostrada che dovrebbe dividere a metà la riserva naturale e territorio indigeno Isiboro-Sécure- TIPNIS, nel frattempo congelata dal governo.

La retromarcia del governo, assieme alla elaborazione di una legge sulla consultazione obbligatoria delle comunità, è sicuramente un dato positivo, che conferma il processo boliviano come uno dei più interessanti nel quadro della fase progressista e integrazionista che si è aperta nel continente dall’inizio del secolo. Tuttavia la Bolivia pare in qualche modo procedere ad una marcia più spedita e decisa di altri paesi del “blocco”, dove la spinta progressista pare pian piano spegnersi. E’ il caso dell’Argentina, forse anche del Brasile e dell’Uruguay, paesi architrave di un qualsiasi progetto di Sudamerica unito “a sinistra”.

Questo potenziale futuro “isolamento” e i programmi “sviluppisti” del governo potrebbero rendere sempre più difficile mantenere un equilibrio fra ristrutturazione dell’economia e sostenibilità sociale e ambientale del modello costruito in questi anni.

 

1-Zibechi, R. (2012). Brasil potencia. Entre la integración regional y un nuevo imperialismo (Bogotá: Desdeabajo).

Questo articolo è stato pubblicato qui

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