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Il vero paradosso della crisi

Quando l'uomo di strada ascolta le notizie economiche nei tg resta allibito. Non tanto per la penuria di buone novelle, circostanza alla quale siamo abituati da (ormai) un quadriennio. Ciò che lascia di sasso è la (inestricabile) rete di paradossi generata dalla (interminabile) crisi globale: L'euro è a rischio a causa dei debiti sovrani, ma rimane forte sui mercati valutari; le agenzie di rating decidono le sorti degli Stati, declassando alcuni Paesi i cui fondamenti sono vacillanti ma risparmiando altri nelle stesse condizioni; il Giappone ha il debito più grande del mondo in rapporto al PIL ma gli investitori continuano a sostenere lo yen; la solvibilità degli Usa non è in dubbio ma è bastato scendere di un gradino nella scala S&P per mandare i mercati a picco.

Un quadro che manda in tilt ogni sorta di ragionamento dell'uomo medio. Il quale arriva a spiegare le controverse dinamiche della finanza tramite il ricorso a teorie complottiste su presunti “poteri forti” che guidano le sorti dell'economia mondiale a proprio beneficio e a scapito di tutti gli altri. Ma non è così. Le contraddizioni nascono dal fatto che il sistema finanziario globale non è lineare. E applicando operazioni aritmetiche ad un mondo algebrico è normale che i calcoli non tornino.

Primo paradosso: euro forte, eurozona debole.
La ragione per cui l'euro rimane forte sul dollaro è che il biglietto verde non è mai stato così poco attraente per gli investitori. La crescita degli Usa è ancora in forse, la disoccupazione resta alta e vari analisti hanno espresso timori riguardo ad una possibile recessione nel secondo semestre.

Il quantitative easing promosso dalla Federal Reserve, ossia il programma di stampo keynesiano di sostegno all'economia mediante una poderosa iniezione di denaro pubblico, non è stato sufficiente a scacciare il fantasma della crisi. In compenso ha aggravato ulteriormente il carico delle finanze pubbliche, aumentando un deficit attualmente pari a 125 miliardi di dollari (al mese, in totale il 10% del PIL su base annua).

Soldi non prelevati dalla propria ricchezza ma letteralmente stampati, il che implica necessariamente la parte di parte del loro potere d'acquisto.
Questo spiega perché l'euro è forte rispetto al dollaro.

Secondo paradosso: Grecia giù, Giappone su.
Al contrario però, la moneta unica è debole sia nei confronti dello yen che del franco svizzero, due valute considerate “rifugio”. Lo yen è addirittura ai massimi dal 1945.

Un indebolimento dovuto ai continui report di Moody's, S&P e Fitch, le quali hanno continuato a bombardare la croce rossa declassando a cadenze più o meno regolari il traballante debito greco, mettendo pressione a tutta l'eurozona.
Eppure il debito di Atene è pari al 152% del PIL, mentre quello di Tokyo al 252%, e la Grecia non ha subito una catastrofe biblica (secondo le stime di Tokyo) da quasi 300 miliardi di dollari di danni. Ma le tre sorelle del rating non si sono neppure sognate di declassare il debito giapponese.

Le ragioni per cui la Grecia affonda e il Giappone no sono molteplici. In primo luogo, Tokyo produce il 10% del PIL mondiale, mentre Atene contribuisce appena per lo 0,3%. L'economia nipponica, pur stagnante, è dunque perfettamente in grado di sostenere un simile fardello. In secondo luogo, il 95% del debito giapponese è detenuto da investitori domestici, al contrario di quello ellenico che è perlopiù in mano a stranieri, pertanto un eventuale default di Tokyo non inciderebbe più di tanto sull'andamento dei mercati globali, mentre quello di Atene avrebbe ripercussioni sui bilanci di banche ed enti pubblici e privati di mezza Europa. Infine, il selective default di Atene promosso dalla BCE equivale a tutti gli effetti ad un fallimento controllato.

Vi è un'ulteriore ragione, che non riguarda la Grecia bensì le tre agenzie in questione. Ancora oggi queste ultime ricevono pesanti critiche per non aver saputo prevedere lo tsunami finanziario che ha travolto il mondo nel 2008, per cui è facile intuire come mai abbiano adottato una linea più rigorosa riguardo alla questione Grecia. Tanto più che l'insolvibilità di Atene non è un rischio ipotetico bensì un fatto ormai acquisito.

Terzo paradosso: la piccola Grecia trascina la grande Europa
Di fatto, la valutazione negativa di un'agenzia di rating è praticamente una profezia che si autoavvera, perché il declassamento di un Paese inasprisce il peso del relativo debito fino a renderlo insostenibile. Rendendo definitive alcune situazioni di transitoria difficoltà che in altri modi sarebbe possibile accomodare. È questa la ragione per cui i critici considerano le agenzie di rating una parte del problema.

Ma come può un'economia lillipuziana come quella greca trascinare con sé altre ben più rilevanti (come quella italiana e spagnola)? Nell'eurozona la politica monetaria non è di competenza dei singoli Stati bensì della BCE, per cui l'aumento dei rendimenti chiesti dal mercato sui titoli di un Paese determina un rialzo più o meno generalizzato dei tassi di interesse di tutti quelli aderenti alla moneta unica.

Ecco perché la bancarotta de facto di Atene spaventa tanto i governi del Vecchio continente: una catena è forte quanto il suo anello più debole, e se Atene fallisce, non è detto che fallisca solo Atene.

Quarto paradosso: yen forte e Giappone debole.
Lo yen è ai massimi, abbiamo visto. Tuttavia, in tempi di magra come questi l'apprezzamento di una moneta è un fatto tutt'altro che positivo. Una moneta forte è per un'economia più un ostacolo che un incentivo. Questo perché un corso valutario troppo elevato deprime le esportazioni, rallentando la produzione interna e dunque la ripresa economica.

Giappone ha recentemente adottato delle misure tese a indebolire lo yen. La forza della moneta minaccia la produzione industriale in questa drammatica fase di recupero dopo il (triplo) disastro dell'11 marzo. Il terremoto-maremoto ha seriamente danneggiato l'industria del Paese, in particolare il settore automobilistico già in crisi patologica a livello globale. Frenare le esportazioni in questo momento vorrebbe dire compromettere in modo forse definitivo le capacità di ripresa del sistema. Uno yen forte non può che aggravare la situazione.

Nondimeno, la gran parte degli analisti è concorde nel ritenere che l'azione della Banca centrale giapponese non sortirà del tutto gli effetti sperati. Il mercato continua ad investire in yen e non c'è verso di invertire questo trend.
Tutto questo spiega perché la forza di una moneta sembra essere totalmente all'opposto della realtà economica di cui è espressione: l'euro e lo yen sono così le monete forti di due economie (rectius: nel primo caso, di un coacervo di economie) sostanzialmente deboli.

Come negli anni Trenta
Lasciando il Sol levante per riavvicinarci alle nostre latitudini, rimane un ultimo paradosso. O meglio, un cerchio che deve essere quadrato.

Ora che la crescita sta rallentando su entrambe le sponde dell'Atlantico, i governi di Stati Uniti ed Europa non trovano di meglio che imporre piani di austerità attraverso una serie di tagli draconiani alla spesa pubblica. D'altro canto, il risparmio per gli erari non c'è perché parte delle risorse non impiegate è destinata alla copertura dei crescenti interessi sui debiti sovrani.

Stringere i cordoni della borsa ora che la ripresa economica si dimostra più lenta di una lumaca zoppa è quanto di più sbagliato si possa fare. In un certo senso, è un remake degli errori colossali commessi dai governi negli anni Trenta, all'epoca della Grande Depressione, solo con altre forme. Allora fu l'eccessivo protezionismo a stroncare il recupero, paralizzando il commercio internazionale e dunque la produzione interna. Oggi è proprio la stretta delle finanze pubbliche a far mancare il necessario sostegno alla rinascita economica: è questa, più di ogni altra, l'omologia che non viene colta. Certo, a differenza di allora non abbiamo l'incombenza di una guerra mondiale alle porte - non una guerra armata, almeno, perché la guerra c'è già, è economica e valutaria e ci coinvolge già tutti. E nel '39 Usa ed Europa non erano pesantemente indebitati con la Germania quanto oggi lo sono verso la Cina, se mai era il contrario.

Ecco qui il vero paradosso della crisi: tutto ciò che stiamo facendo nel tentativo di riemergere non fa che impelagarci ancora di più nelle sabbie mobili della stagnazione. Così l'osservatore medio continua ad osservare esterrefatto l'impenetrabile mondo dell'economia. Gli si chiede di fare sacrifici senza che lui potrà mai capire il perché. E senza mai accorgersi che la crisi globale non è altro che una macchina del tempo che ha riportato tutti noi indietro di ottant'anni.

Purtroppo, nemmeno i nostri governanti lo hanno ancora capito.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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