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Il servizio idrico fa acqua da tutte le parti

Monopolio o concorrenza? L’obiettivo è ridurre gli sprechi. Ma anche la spesa dello Stato


Il Forum dei movimenti per l’acqua ha presentato nella primavera del 2010 tre quesiti in Cassazione per il referendum abrogativo della nuova disciplina sulle gestioni idriche nell’ambito dei servizi pubblici locali. Le disposizioni sono contenute nel decreto “Ronchi” che è stato poi convertito in legge dal Parlamento nel novembre 2009. Gli attivisti del movimento e anche numerosi esponenti del panorama politico italiano sono convinti che con questo provvedimento il Governo abbia avallato “la privatizzazione dell’acqua”. Le voci critiche fanno presente infatti che obiettivo specifico di un’impresa è la massimizzazione dei profitti. E poiché l’acqua è un bene pubblico e per giunta vitale, il gestore potrebbe decidere il prezzo in maniera discrezionale proprio perché la domanda di acqua è indifferente alle variazioni di prezzo. Questo comportamento sarebbe possibile in un contesto privo di regole. Ma così non è, perché le norme esistono. La questione è che il quadro legislativo è molto variabile.

E allora davvero la normativa prevede la privatizzazione? Nel testo del decreto viene confermato il carattere pubblico dell'acqua. Ben diverso è invece il discorso che attiene la gestione. Un servizio pubblico possiede un carattere di socialità, che dipende da almeno due fattori: per quante persone si vuole produrre quel servizio e quali criteri si vuole adottare per determinare le tariffe. A livello locale si tende a decidere il prezzo del servizio a partire da valutazioni di natura politica. La tariffa infatti è generalmente inferiore o uguale al costo. Decisioni che condizionano la possibilità di reinvestire parte dei ricavi nell'ammodernamento delle strutture. Un effetto domino al contrario che riduce l'efficienza.

C’è da considerare un altro aspetto: la produzione in una situazione di monopolio, pubblico o privato, tende a generare sprechi. Ecco perché il legislatore ha optato per una soluzione alternativa: l’indizione di gare periodiche di affidamento. Una procedura che dovrebbe garantire il massimo di efficienza nei confronti del cittadino. Il condizionale è d’obbligo perché nel testo manca la previsione di un'autorità realmente indipendente. È vero che tutto ciò che attiene al governo della risorsa acqua rimane di competenza delle Ato (autorità territoriali ottimali) – questi enti pubblici decidono l’indirizzo, il controllo e la definizione della tariffa. Ma sono autorità gestite direttamente dai comuni. Gli stessi comuni che il più delle volte sono soci proprietari d’imprese alle quali viene affidata la gestione del servizio idrico integrato. Un caso conclamato di mancanza di concorrenza che ha ripercussioni sui consumatori. Il motivo è chiaro: l’incentivo all’efficienza da parte dell’impresa è tanto più basso, quanto minore è il rischio imprenditoriale che deve sostenere.

Restano pubbliche dunque le proprietà degli impianti di acquedotto, depurazione e fognatura. Il decreto ‘Ronchi’ allora su cosa influisce? Sui criteri di affidamento. Quello che il legislatore prevede non è una privatizzazione tout court, bensì l’applicazione di una logica industriale al settore dei servizi pubblici locali, compresa la gestione del servizio idrico integrato. Con queste norme l’assegnazione in house del servizio dovrebbe diventare una procedura marginale, da applicare solo in casi eccezionali. Oggi invece capita spesso che la gestione venga affidata senza alcun bando di gara ad evidenza europea. Secondo uno studio del Censis presentato lo scorso ottobre (L’acqua tra responsabilità pubbliche, investimenti e gestioni economiche) oltre il 50% delle gestioni attuali restano nelle mani di società pubbliche (58 su 114). Situazioni di monopolio che perdurano da decenni, senza alcuna trasparenza sui costi e sui livelli d’investimento degli impianti. Eppure nel 1994 fu approvata la legge “Galli”. Quest’atto recepiva i contenuti di una direttiva europea che imponeva di adottare nel settore dei servizi pubblici una gestione basata su le tre “e”: efficienza, efficacia ed economicità. Insomma veniva posto come obiettivo il superamento della frammentazione delle gestioni e l’integrazione del ciclo idrico: una combinazione utile per ridurre i costi e creare economie di scala. Questo significa che se il gestore decidesse di immettere nella rete un metro cubo in più di acqua lo dovrebbe fare in presenza di un aumento meno che proporzionale del costo medio di quell’unità.

C’è di più: se nei settori dei servizi pubblici si realizzasse una gestione industriale, si determinerebbe anche la possibilità da parte degli enti locali di ridurre alcuni capitoli di spesa. Nonostante l’aumento della forza-lavoro il livello di produttività non ha registrato incrementi significativi. Se da un lato si è ridotto nel breve periodo il tasso di disoccupazione, dall’altro l’inflazione è aumentata. I lavoratori in circostanze simili chiedono adeguamenti salariali che l’impresa ha difficoltà a concedere. E si apre una crisi prima sindacale e poi occupazionale. Nel lungo periodo si evidenzia quindi la relazione dimostrata da Philipps: il tasso di disoccupazione rimane costante mentre l’inflazione aumenta. In realtà il settore pubblico a differenza di quello privato raramente ricorre al licenziamento per motivi economici. E allora interviene lo Stato che decide di colmare i buchi con l’emissione di titoli di Stato. Ed è anche così che aumenta il debito pubblico.

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