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Il processo sulla “trattativa” Stato-Mafia: alcune considerazioni

Le condanne di primo grado pronunciate dalla Corte di Assise di Palermo per il processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-Mafia” sono state a dir poco dure: l’ex comandante del ROS Mario Mori e l’ex colonnello Giuseppe De Donno hanno ricevuto una pena di 12 anni di reclusione, pari a quella inflitta all’ex Senatore di Forza Italia Marcello dell’Utri, mentre condanne a 28 ed 8 anni sono state inflitte al boss Leoluca Bagarella e al figlio dell’ex sindaco di Palermo, Massimo Ciancimino.

di Andrea Muratore

L’avallo da parte della Corte d’Assise dell’architettura processuale costruita dal PM Antonino Di Matteo ha avuto profonde ripercussioni sul dibattito politico e sull’attualità: Di Matteo, ad esempio, ha definito “storica” la sentenza arrivata a cinque anni dall’avvio del processo, e ha immediatamente ribadito che essa è un messaggio diretto a Silvio Berlusconi, rilanciando le ipotesi di una collusione tra l’ex Cavaliere e Cosa Nostra formulate già al meeting di Ivrea organizzato dai Cinque Stelle.

Vogliamo qui esprimere alcune considerazioni, e alcuni dubbi, sulle condanne di primo grado emesse a Palermo, nonché invitare a una seria riflessione su una fase cruciale della storia d’Italia, quella della marea montante dello stragismo mafioso che non mise in ginocchio lo Stato ma lo sottopose a prove durissime, a cavallo tra i roventi anni 1992 e 1993 in cui il Paese sperimentava l’incertezza politica legata alla transizione tra Prima e Seconda Repubblica.

In primo luogo, l’architettura stessa del processo è traballante: essa contrasta notevolmente con un consolidato di sentenze definitive che hanno sancito l’assoluzione di numerosi imputati chiave, come Mario Mori, dalle accuse legate alla mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 o alla fallita cattura di Bernardo Provenzano del 1996. Inoltre, l’assoluzione dell’ex Ministro dell’Interno democristiano Nicola Mancino spezza parzialmente il fronte di chi ritiene plausibile che un input politico abbia portato i militari a cercare un abboccamento con personalità ambigue come Vito Ciancimino per poter negoziare una sorta di “armistizio” con la Mafia.

Facciamo nostri i dubbi espressi da Enrico Mentana in un suo post su Facebook: “Al processo sulla trattativa Stato-mafia c’erano due soli politici di quel tempo tra gli imputati: uno, Mannino, è stato processato col rito abbreviato, e assolto. L’altro, Mancino, è stato assolto […] Le condanne, e pesanti, sono state comminate agli ufficiali dei Ros. Allora, due sono i casi: o manca del tutto il secondo livello, cioè coloro che decisero di attivare il canale di trattativa con la Cupola, attraverso il reparto speciale dei carabinieri, o quel livello non c’è. Ma allora si sarebbe trattato di servitori infedeli dello Stato, non di esecutori di un ordine di trattare con i boss mafiosi. È stata mancanza di coraggio del processo o proprio lo Stato (al tempo del governo Ciampi, lo ricordo) nella trattativa non c’era? E allora chi ha voluto la trattativa? E a chi riferivano gli ufficiali?”. Si tratta di domande legittimissime che testimoniano della scivolosità della questione: inoltre, sarebbe bene ricordare a coloro che hanno impugnato sin dalle prime battute le condanne di Palermo come corpo contundente per il combattimento nell’agone politico, in primis il leader politico del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio, che non si tratta di sentenze definitive, ma di condanne di primo grado, che un giudizio superiore potrà sempre revisionare, sbugiardando coloro che ora vi si attaccano come se fossero verità evangelica.

A tal proposito, uno dei giudizi più duri sul processo è arrivato da Nicola Porro, che ha evidenziato dieci punti a suo parere non chiari sul processo. Porro, in particolare, attacca la contraddizione riguardante Massimo Ciancimino, da un lato condannato a 8 anni per calunnia e ritenuto testimone inaffidabile per le sue dichiarazioni sul papiello, dall’altro ritenuto credibile dai giudici come principale accusatore per molti dei condannati in primo grado. Un ulteriore rilievo è espresso su Dell’Utri: “I magistrati che lo hanno condannato per concorso esterno e per il quale sta scontando il carcere hanno esplicitamente escluso che l’ex senatore abbia avuto rapporti con boss mafiosi dopo il 1992. Per la sentenza trattativa Stato-Mafia invece era là nel 1994 a trattare. Due sentenze possono dire cose opposte?”.

Quanto segnalato da Porro e Mentana permette di avanzare legittimi dubbi sul processo, che ora continuerà ai gradi superiori di giudizio. Dal nostro punto di vista, non possiamo che invitare i referenti politico-istituzionali e gli stessi PM protagonisti a non cavalcare l’ondata mediatica di processi spettacolari che, di fatto, poco contribuiscono alla reale lotta contro la Mafia: casi come quelli di Enzo Tortora insegnano che il giustizialismo delle prime ore può essere, sul lungo tempo, controproducente e dannoso.

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