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 Home page > Attualità > Economia > Il lavoro che rende poveri

Il lavoro che rende poveri

Vi ricordate quando la povertà significava principalmente non avere un lavoro? Scordatevela, i nuovi poveri, quelli soltanto un gradino sopra la soglia di sopravvivenza, sono lavoratori sottopagati. L’Istat ha consegnato una memoria alla Commissione Lavoro del Senato dalla quale scopriamo che l’Italia è il quarto paese in Europa per occupati a rischio povertà. Prima di noi la Romania, la Spagna e il Lussemburgo.

di Gianluca Cicinelli

 Attenzione: stiamo parlando del 2019, anno su cui è basata la rilevazione, quindi un anno prima della crisi ulteriore scatenata dalle conseguenze del Covid sull’economia. Le posizioni lavorative con retribuzione oraria inferiore ai 7,66 euro lordi, costituiscono il 6% del totale e i più colpiti sono gli apprendisti, 28% sul totale dei sottopagati, e gli operai, 7,1% sul totale.

Le donne sottopagate, 6,5%, sono in numero superiore agli uomini, 5,5%, così come è l’8,7% degli stranieri a essere meno pagato degli italiani che sono il 5,4%. I giovani sottopagati, persone al di sotto dei 29 anni, sono il 10,9% contro una media del 5% tra le persone di età superiore. Complessivamente il 12% di chi lavora in Italia è oggi a rischio povertà, in testa giovani, donne e stranieri. Questi dati sono il frutto di uno studio per la commissione che sta lavorando sulla questione del salario minimo. Li prenderanno in considerazione? Ci speriamo ma non ci crediamo.

Perchè accanto a queste cifre che affliggono i “working poors” (gli economisti amano l’inglese che ci fa sentire meno disgraziati), che stupiscono soltanto chi vive in un mondo separato dalla realtà di tutti i giorni, dobbiamo considerare che anche il 10% tra i beneficiari di contratti collettivi, regolati quindi per legge, percepisce mediamente il 20% in meno di quanto previsto dai minimi contrattuali. E non ce lo dice Potere al Popolo o Lotta Comunista, ma l’ineffabile Forbes, che, sempre nel 2019, aggiungeva a questo dato che la maggior parte delle violazioni dei minimi contrattuali avviene nelle imprese più piccole e, ma che sorpresa, nel sud d’Italia.

Occorre essere sinceri: se da una parte è sacrosanta la lotta per arrivare a stabilire un salario orario minimo, come è già fissato in ben 22 paesi europei, a testimonianza che si tratta di un problema urgente e drammatico, è altrettanto vero che la povertà non si cancella per decreto. Lo avevano capito senza girarci intorno già i componenti della Costituente nell’immediato dopoguerra, riflettendo su un Paese ancora devastato dalle macerie, elaborando l’articolo 36 della Costituzione: ““Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

L’unico modo per affrontare seriamente il problema di una retribuzione dignitosa è mettere mano al modello produttivo, c’è poco da fare, è evidente che quello attuale consente al padronato, grande e piccolo, d’imporre le sue regole inique, perchè nel totale arretramento, talvolta vera collusione con gli imprenditori, dei sindacati storici è chiaro che i lavoratori sono totalmente alla mercè di regole di mercato fatte ia beneficio di una sola parte in causa. Immaginate un lavoratore che, forte di una legge sul salario minimo, fa causa al padrone: cosa mangia tra quando avvia la causa e quando questa arriva a definizione completa? Perchè i tempi della giustizia favoriscono lo stato di cose attuale e la cultura popolare che ne consegue è quella di accettare qualsiasi paga pur di assicurarsi tre pasti entro fine giornata e poi, un giorno, forse, si vedrà.

Allora facciamo la rivoluzione? Non sembrerebbe una rivoluzione condannare gli imprenditore che non rispettano la dignità della vita dei lavoratori. Come non sembrerebbe una rivoluzione l’introduzione del salario minimo, visto che il neo presidente degli Usa Biden ha inserito nel suo pacchetto di salvataggio dell’economia a stelle e strisce la proposta di un salario minimo fissato a 15 dollari per 60 minuti di lavoro. Anche lì i difensori dei padroni si oppongono, sostenendo che l’introduzione di questo provvedimento “costringerà” gli imprenditori a molti licenziamenti. Sempre negli Stati Uniti, e la fonte sono gli studi citati dal presidente dell’Inps Tridico, un aumento di un dollaro di salario minimo ha un effetto di una riduzione tra il 3,4% e il 5,9% del tasso di suicidi nella classe di età tra i 18 e i 64 anni fra i non laureati.

La pressione sociale e politica dunque va fatta utilizzando la richiesta del salario minimo accanto alla rivisitazione delle regole a cui è sottoposto, in attesa della presa del palazzo in cui speriamo ancora, il conflitto tra padroni e lavoratori. Ma la cultura del conflitto è scomparsa dai radar della sinistra o meglio: è sparita dai radar la sinistra politica, partiti e sindacati, mentre rimane sui territori una sinistra sociale priva di sostegno giuridico ed economico per lottare contro la disuguaglianza.

Intervenendo sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, in cui si delinea la distribuzione delle risorse del Recovery Plan, Fabrizio Barca, presidente del Gruppo Coordinamento del Forum Disuguaglianze Diversità, lamenta che la maggioranza dei progetti è priva dell’indicazione dei risultati attesi, mancano cioè di una visione su cosa comporterebbero in beneficio reale per la popolazione. La sua denuncia coglie nel segno. Spiega infatti come per portare avanti un reale riformismo sociale ed economico bisogna avere una visione della società che questo prefigura. Ed è la foto più cruda ed efficace dello stallo politico in cui ci troviamo, che nemmeno la conversione del prode Ciampolillo riesce a nascondere.

Foto Frantisek Krejci de Pixabay

Questo articolo è stato pubblicato qui

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