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Il gioco della différance tra fede e ragione nella costruzione di uno Stato

La politica, l’Europa, l’Occidente e la globalizzazione richiedono degli approfondimenti culturali per meglio affrontare le tematiche che necessariamente si pongono.

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L’intento di questo articolo è quello di fare una breve e parziale disamina sulla condizione del linguaggio (logos) e poi della politica occidentale, secondo un percorso tracciato dal filosofo Jacques Derrida, che parte dall’analisi di quella straordinaria invenzione ebrea e greca che è l’alfabeto, grazie al quale, con pochissimi segni grafici (le lettere), è possibile originare delle parole, ciascuna con un preciso significato. In particolare l’insieme delle lettere di una parola costituiscono il significante, mentre ‘quello che vogliono dire’, che può solo ‘visualizzarsi’ nella mente, sarebbe il significato.

In termini più filosofici il significato ed il significante possono dispiegarsi in ‘essere’ ed ‘ente’.

Pertanto questo sistema è profondamente diverso dagli ideogrammi e dalle altre forme di scrittura sviluppate fuori dall’ Occidente. Ed è questa innovazione alfabetica che permette di avere una filosofia articolata e non soltanto un pensiero. Il concetto fondamentale per Derrida è quello della différance.

Inizierei a ‘sviscerare’ alcune definizioni dal suo saggio del 1968: “In una concettualità e con delle esigenze classiche, si potrebbe dire che la différance designa la causalità costituente, produttrice e originaria, il processo di scissione e di divisione di cui i differenti o le differenze sarebbero i prodotti o gli effetti costituiti.” (1)

Questa condizione ‘primordiale’ della différance è descritta in quest’altra citazione:

“Poiché l’essere non ha mai avuto “senso”, non è mai stato pensato o detto come tale se non dissimulandosi nell’ente, la différance, in una certa e assai strana maniera, (è) più “vecchia” della differenza ontologica o della verità dell’essere. E’ a questa età che la si può chiamare gioco della traccia. Di una traccia che non appartiene più all’orizzonte dell’essere ma il cui gioco sostiene e forma il bordo del senso dell’essere: gioco della traccia o della différance che non ha senso e che non è.” (1)

La différance sarebbe quella differenza tra significato e significante, o tra essere ed ente, che non è dicibile.

Questo concetto genera un dualismo paradossale e oppositivo, valevole in qualunque ambito:

“Potremmo dunque chiamare différance questa discordia “attiva”, di forze differenti e di differenze di forze che Nietzsche oppone a tutto il sistema della grammatica metafisica ovunque essa comanda la cultura, la filosofia e la scienza” (1)

Come spiega Derrida: “Ogni concetto è in via di diritto ed essenzialmente iscritto in una catena o in un sistema all’interno del quale esso rinvia all’altro, agli altri concetti, per gioco sistematico di differenze. Tale gioco, la différance, non è più allora semplicemente un concetto, ma la possibilità della concettualità, del processo e del sistema concettuale in generale.”. (1)

Da quello che si evince la différance ‘permea’ tutto il mondo, infatti:

“La différance è non solo irriducibile a ogni riappropriazione ontologica o teologica – onto-teologica – ma, aprendo anzi lo spazio nel quale l’onto-teologia – la filosofia – produce il suo sistema e la sua storia, essa la comprende, la inscrive e la eccede una volta per tutte.” (1)

“La différance è l’ <<l’origine>> non-piena, non semplice, l’origine strutturata e differente [différant] delle differenze”. (1)

L’ambivalenza oppositiva e paradossale è tale per cui metodologie opposte ne sono il risultato:

“Tutto nel tracciato della différance è strategico e avventuroso.

Se c’è una certa erranza nel tracciamento della différance, essa non segue la linea del discorso filosofico-logico più di quella del suo rovescio simmetrico e solidale, il discorso empirico-logico.

Il concetto di gioco sta al di là di questa opposizione, esso annuncia alla vigilia della filosofia e al di là di essa , l’unità del caso e della necessità, in un calcolo senza fine.” (1).

Per Derrida, comunque il nome différance è soltanto un modo bislacco di definire questo ‘innominato’, infatti: “Tuttavia sappiamo già che se è innominabile non lo è provvisoriamente, poiché la nostra lingua non ha ancora trovato o acquisito questo nome oppure bisognerebbe cercarla in un'altra lingua al di la del sistema finito della nostra: non vi è nome per essa, neppure quella di essenza o di essere, nemmeno quello di différance ….. Questo innominabile non è un essere ineffabile, cui nessun nome potrebbe avvicinarsi, Dio per esempio, ma è il gioco che rende possibili gli effetti nominali, le strutture relativamente unitarie o atomiche che sono chiamate nomi, catene di sostituzione di nomi, in cui per esempio l’effetto nominale diffèrance è esso stesso trascinato, trasportato via….” (1).

Vorrei introdurre anche le variabili di tempo e di spazio in questo concetto ponendo una citazione un po’ complessa, ma affascinante:

“La différance è ciò che fa sì che il movimento della significazione sia possibile solo a condizione che ciascun elemento “cosiddetto” presente, che appare sulla scena della presenza, si rapporti a qualcosa di altro da sé, conservando in sé il marchio dell'elemento passato e lasciandosi già solcare dal marchio del suo rapporto all'elemento futuro, dato che la traccia si rapporta a ciò che chiamiamo il futuro non meno che a ciò che chiamiamo il passato, e dato che essa costituisce ciò che chiamiamo il presente proprio grazie a questo rapporto con ciò che non è tale: assolutamente non è tale, non è cioè nemmeno un passato o un futuro intesi come presenti modificati. Perché il presente sia se stesso, bisogna che un intervallo lo separi da ciò che non è tale, ma questo intervallo che lo costituisce come presente deve anche, al tempo stesso, dividere il presente in se stesso, spartendo cosí, insieme al presente, tutto ciò che si può pensare a partire da esso, cioè ogni ente, nella nostra lingua metafisica, in particolare la sostanza o il soggetto. Dato che questo intervallo si costituisce, si divide dinamicamente, esso è ciò che si può chiamare spaziamento, divenir-spazio del tempo o divenir-tempo dello spazio (temporeggiamento).” (1)

Io sintetizzerei con un’altra sua frase dalla sua Opera ‘Fede e sapere’, che egli definisce assioma:

non c’è a-venire senza eredità e possibilità di ripetere” (2)

Insomma l’origine, non è mai data, però la perdita non è assoluta, dal momento che di essa resta sempre una traccia, definita archi-origine, che funge da origine, paradossale, della struttura di opposizione.

Ogni elemento del linguaggio e dell’esperienza, generati da una différance,  possono essere identificati, riconosciuti, quindi ripetuti, oserei dire per una sorta di ‘inerzia’ intrinseca; che è l’iterabilità, infatti: “quest’unità della forma significante si costituisce solo grazie alla sua iterabilità, grazie alla possibilità di esser ripetuta in assenza non solamente del suo “referente”, il che è ovvio, ma in assenza di un significato determinato o dell’intenzione di significato attuale, come di ogni intenzione di comunicazione presente” (1)

Jacques Derrida nelle sue Opere più recenti ha trattato tematiche di politica ed attualità, sempre alla luce dei suoi scritti precedenti sulla différance ed il decostruzionismo.

In questo ambito, molto pregnante, egli ha applicato ed esteso i concetti di dualismi oppositivi, di giustizia, analizzando anche trattati, Costituzioni nazionali e dichiarazioni di eminenti politici.

In ‘Fede e sapere” del 1997, egli afferma: “i “lumi” della critica e dalla ragione teletecnoscientifica non possono che presupporre la fidatezza”.(2)

Per fidatezza possiamo già intendere ‘fede’, nel senso che egli vuole imprimere: “Senza l’esperienza performativa di questo atto di fede elementare, non ci sarebbe né ‘legame sociale’, né un indirizzarsi all’altro, né, in generale, alcuna performatività: né convenzione, né istituzione, né Costituzione, né Stato sovrano, né legge, né soprattutto, in questo caso, quella performatività strutturale della performance produttiva che lega, fin dall’entrata in gioco, il sapere della comunità scientifica al fare, e la scienza alla tecnica”. (2)

Una fede e quindi anche una religione la quale “accompagna e precede, persino, la ragione critica e teletecnoscientifica, veglia su di lei come fosse la sua ombra. È la sua veglia, l’ombra della luce, il pegno di fede, il requisito di fidatezza, l’esperienza fiduciaria che presuppone ogni produzione di un sapere condiviso, la performatività testimoniale implicata in ogni performance tecnoscientifica così come in tutta l’economia capitalistica, che ne è indissociabile”. (2) 

Il dualismo oppositivo ma indissociabile tra religione e scienza è anche trattato secondo una teoria ‘immunitaria’ o ‘autoimmunitaria’: “lo stesso movimento che rende indissociabili religione e ragione teletecnoscientifica nel suo aspetto più critico, reagisce inevitabilmente a se stesso. Secerne il suo antidoto, ma anche il suo potere di autoimmunità. Siamo in uno spazio in cui ogni autoprotezione dell’indenne, del sano e salvo, del sacro (heilig, holy) deve proteggersi dalla propria protezione, dalla propria polizia, dal proprio potere di rigetto, dal proprio semplicemente, cioè dalla propria autoimmunità. È questa terrificante ma fatale logica dell’autoimmunità dell’indenne che assocerà sempre Scienza e Religione” (2)

Parliamo di “una struttura profonda, ovvero (ma anche al contempo) una paura di sé, una reazione proprio contro ciò con cui si è fatto lega…” (2)

La fede senza dogma sarebbe parte integrante della dinamica “naturale” del conoscere e: “Questo iato apre lo spazio razionale di una fede ipercritica, senza dogma e senza religione, irriducibile a qualsiasi istituzione religiosa o implicitamente teocratica” (3)

Insomma “questa fede è un altro modo di mantenere la ragione (raison garder), per quanto folle essa sembri” (3)

Una fede in grado, in questo periodo di crisi, di salvare l’’onore della ragione’ “se il minimo semantico che possono mantenere i lessici della ragione, in tutte le lingue, è la possibilità ultima, se non di un accordo, almeno di un indirizzarsi, che è universalmente promesso e incondizionatamente affidato all’altro, allora la ragione resta l’elemento o il respiro di una fede senza chiesa e senza credulità, la ragione d’essere del pegno, del credito, della testimonianza al di là della prova, la ragion d’essere del credito dato all’altro o della credenza nell’altro…”(3).

La ragione si iscriverebbe tra il calcolo e l’incalcolabile, con la fede collocata all’interno dell’orizzonte razionale: “lo iato fra queste due postulazioni altrettanto razionali della ragione [il calcolo e l’incalcolabile], questo eccesso di una ragione che si supera da sé e che si apre così al suo avvenire e al suo divenire, questa es-posizione all’evento incalcolabile, sarebbe anche lo spaiamento irriducibile della fede, del credito, della credenza senza cui non vi è legame sociale, indirizzo all’altro, proba onestà, promessa da onorare, onore, fede giurata o pegno da dare.” (3).

E’ proprio la razionalità che detiene due polarità: “la razionalità della ragione è destinata per sempre, universalmente, per ogni avvenire e ogni divenire possibili, a dibattersi tra, da una parte, tutte queste figure e condizioni dell’ipotetico e, dall’altra parte, la sovranità assoluta dell’an-ipotetico, del principio incondizionale, del principio assoluto, di questo principio che io qualifico sovrano” (3)

Volendo andare oltre, ed analizzare il suo pensiero sulla formazione e mantenimento degli Stati-nazione, egli incentra la sua attenzione su quel principio di iterabilità, che amplia e definisce, distinguendo la violenza fondatrice (magari anche l’epopea che ha permesso la creazione di uno Stato) e la violenza conservatrice: “Appartiene alla struttura della violenza fondatrice il fatto che essa chiama la ripetizione di sé e fonda ciò che dev’essere conservato, conservabile, promesso all’eredità e alla tradizione, alla condivisione.… E anche se una promessa non è mantenuta, l’iterabilità inscrive la promessa di conservazione nell’istante più dirompente della fondazione” (4).

Insomma ciò che è stato ‘posto’, come ente statuale è iterato, per il solo fatto che è stato appunto ‘posto’ in origine.

Ora mi accingerei a dispiegare le differenze tra America ed Europa, attraverso un libro recente curato dagli psicoanalisti Domenico Cosenza e Marco Focchi. Ecco una prima citazione: “seguendo l’impostazione funzionalista, l’Europa ha dovuto poi rinunciare fin dall'inizio anche ai codici simbolici più elementari della politica: essa non è, in primo luogo, una patria. dunque non ambisce ad alcuna forma di patriottismo, e neppure ad avere figli cui instillare un senso di fratellanza e solidarietà. Non è poi neppure un “dominio”, nel senso che non rinvia a un dominus: non dispone di un esercito proprio e non evoca affatto la metafora domestica, che secondo Derrida è ambiguamente ma originariamente inscritta nella struttura simbolica dell’ appartenenza politica (essere chez-soi, presso di sé, a casa propria).

La stessa parola “Comunità” è chiaramente problematica dal momento che è proprio la matrice affettiva del legame a mancare. Non ci si può dunque sorprendente se nel Preambolo della Carta dell’Unione non si trova nulla di simile alla costituzione americana, che esordisce con :”Noi Popolo degli Stati Uniti ...”.

L’ Europa si è unita senza un Noi, e forse anche senza di noi.

Eppure solo con la crisi economica deflagrata dieci anni fa si è creato vero fronte trasversale antieuropeista. La conclamata impotenza degli Stati a governare gli effetti della crisi ha provocato una profonda frustrazione che ha finito per coinvolgere l’Europa, rea di imporre agli stati sgradite e a volte vessatorie politiche di austerità.

Buxelles è divenuta per i suoi critici (di destra e di sinistra) un nemico esterno, un Super io implacabile e distaccato dalle sorti del popolo, un establishment alleato al sistema finanziario e perciò complice della globalizzazione.

Il sovranismo è certo un fenomeno imparentato al nazionalismo, ma ha di suo lo specifico riferimento alla sovranità, ovvero all’essenza più profonda dello stato.”. (5)

La Unione Europea non ha una configurazione tradizionale di uno stato, né scaturisce da una epopea.

La disamina prosegue: “A loro modo, le ideologie sovraniste portano alla luce il versante emotivo di un fenomeno reale e di enorme portata, vale a dire la corrosione dei due fondamentali principi senza i quali, in un'ottica hobbesiana, lo stato - ovvero l’unica forma di comunità conosciuta dai popoli europei negli ultimi secoli- non può dirsi tale. In base al primo di questi principi, la sovranità è indivisibile e non ammette alcun potere al di sopra del suo. Il secondo principio e invece una legge non scritta composta di solo tre sole parole: protego ergo obligo. Tradotto: la sovranità è legittima se e fintanto che è in grado offrire protezione in cambio dell’obbedienza. ….

Per quanto riguarda il secondo principio, il contagio economico del 2008. di cui le fasce sociali più esposte di molte nazioni patiscono ancora gli effetti, ha drammaticamente dimostrato l`intollerabile impotenza della stato nel compito di protezione che gli è proprio, e ha nel contempo alimentato, come risposta, l’ anacronismo dei vari sovranismi.

La funzione politica della protezione è cosi diventata disgraziatamente patrimonio culturale dell’ ideologia sovranista, che ha assunto il monopolio della paura e lo ha gestito in modo tale da suscitare il desiderio di un protettore.” (5)

L’origine di uno Stato o di una istituzione ne determina la storia futura, secondo uno ‘spirito’ che andrebbe cercato nella stessa fase fondativa.

Una ulteriore citazione dal libro: “ Come si sa, l'Europa non nasce sulla scorta di un gesto di emancipazione capace di fondare un mito collettivo positivo. Non nasce da una rivoluzione o da una lotta di popolo contro un nemico comune esterno, e neppure dai valori dell’ antifascismo. L’ Europa nasce in verità da una catastrofica guerra intestina. in parte interstatale e in parte civile; che non si sarebbe potuta risolvere senza l’ intervento di potenze non europee.” (5)

Un’ulteriore considerazione: “Al momento è proprio l'idea di Europa a essere bisognosa di difesa.

Non abbiamo infatti nessuna alternativa credibile per affrontare le grandi questioni del mondo globale..” (5)

Alla luce delle interessanti osservazioni fin qui esaminate, mi piacerebbe proporre una forma di iterabilità dello spirito nazionale, riferita alla epopea americana della guerra civile, per mostrare come si riesca a far ‘materializzare’ la solidità nazionale.

L’uso del linguaggio evocativo di matrice religiosa diventa essenziale come collante, anche se modificato per la realtà contemporanea democratica e patriottica.

A questo scopo citerò un breve passo di un’ opera dello storico Garry Wills, che, nella fattispecie analizza alcuni passaggi del discorso di Abramo Lincoln a Peoria, del 1854, alcuni anni prima dell’elezione a Presidente degli USA.

Lo storico infatti scrive: “Altrove Lincoln rende più esplicita l’immagine teologica della rigenerazione spirituale:

<<La nostra veste repubblicana è stata macchiata, trascinata nella polvere. Rendiamola nuovamente pura. Mettiamoci all’opera e laviamola fino a farla diventare bianca, nello spirito, se non nel sangue della rivoluzione.>>”(frasi tratte dal discorso di Lincoln a Peoria).

Lo storico americano prosegue: “La dichiarazione di Indipendenza aveva sostituito il vangelo come strumento di rinascita spirituale. Lo spirito, non il sangue è l’idea della Rivoluzione: non si tratta soltanto delle battaglie temporali e del loro esito cronologico. Il grande compito che resta “alla fine del Discorso, non è qualcosa di inferiore. alle grandi imprese dei padri. E’ in realtà la stessa opera, che si compie continuamente e che rende tutti i suoi campioni gli eroi dell’ ideale permanente della Nazione. Nell'ultima frase del Discorso egli dice, in forma più concisa, quanto aveva detto nel 1854 nel discorso sulla legge del Kansas-Nebraska:

<<Riadottiamo la Dichiarazione d'Indipendenza, e un’azione e una politica in armonia con essa. Il Nord e il Sud, tutti gli americani, tutti gli amanti della libertà, ovunque, si uniscano nella grande e buona opera [“l'opera incompiuta” del Discorso]. Facendo questo, avremo non solo salvato l'Unione, ma l'avremo salvata in modo tale da renderla sempre degna di essere salvata. L’avremo salvata in modo che i milioni di uomini liberi e felici che verranno, in tutto il mondo, si leveranno a benedirci fino alle ultime generazioni.>>.

L’ultima frase si rifà al racconto di Luca della nascita miracolosa di Cristo più scopertamente di quanto non avvenga nell'esordio del discorso ( “D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata” Luca 1,48) . Ed in questo sta la potenza più grande del Discorso. Esso è reso compatto e irresistibile dalla sua capacità di attingere a così tante fonti di energia verbale: retorica classica confacente alla sepoltura democratica dei caduti; le immagini romantiche di nascita e rinascita della natura ricorrenti nelle inaugurazioni dei cimiteri rurali; il linguaggio biblico per la consacrazione…” (6)

A mio parere, quel che comprendo, è definibile come différance tra fede e ragione, quando alla base di una nazione vi è una epopea, una letteratura , ed una fede in questa letteratura che è in grado di generare fratellanza e di contro piena fiducia nella ragione umana.

Difatti potrei ricordare la frase di Lincoln del 1860 alla Cooper Union: “Dobbiamo avere fede che la ragione produca la forza”.

L’Europa non ha una epopea fondativa né pertanto, partiti che si rifanno a quest’epopea.

Il ruolo della cultura potrebbe essere proprio quello di generare una epopea non violenta.

L’unico partito nella UE che, per la sua origine ottocentesca si rifà ad una epopea (il Risorgimento italiano) è il Partito Repubblicano Italiano, ma non credo che nel resto della Unione Europea ci sia null’altro.

Vorrei però evidenziare, in ultima analisi una differenza ‘ontologica’ tra Europa e Paesi anglo-sassoni.

Per questo, mi servirò del concetto di ‘potenze psichiche’ che sono “una esaltazione della dignità, della compostezza, del pudore, della compassione, ma anche un senso estetico, morale, senso della giustizia, sviluppo delle regole di vita che finiscono per funzionare come strumenti di esclusione e di segregazione…” e cito un breve passo di un libro di psico analisi: “Ma se per l'Illuminismo, il gioco della ragione era capace di 'farsi gioco' anche delle cosiddette potenze psichiche (pensiamo a Sterne o a Voltaire....), con l'affermarsi della borghesia nell' '800 è proprio il sistema delle potenze psichiche ad assumere modalità e movimenti fino a quel momento di appannaggio della religione.”. (7)

Voltaire era famoso per la sua spiritosaggine e non gli mancavano mai battute umoristiche.

Anche gli anglosassoni sono famosi per il loro humour che credo aiuti ad ‘abbassare’ le potenze psichiche e con ciò ad appianare le divergenze o i conflitti.

Come ha sempre detto il giornalista Federico Rampini, cittadino americano, anche negli USA ci sono i problemi ma lì si superano.

Infine, per Derrida, il procedimento di decostruzione permetteva l’analisi del dualismo prodotto dalla différance, e mi piacerebbe ricordare questa definizione: “razionalismo incondizionale che non rinuncia mai – proprio in nome dei Lumi a venire e nello spazio da aprire di una democrazia a venire – a sospendere in maniera argomentata, discussa, razionale, tutte le condizioni, le ipotesi, le convenzioni e le presupposizioni, a criticare incondizionalmente tutte le condizionalità …” (3).

 

 

 

(1) Marges – de la philosophie, Paris, Minuit, 1972; trad. it. di M. Iofrida, Margini della filosofia, Torino, Einaudi, 1997.

(2) Foi et Savoir (1996), suivi de Le Siècle et le Pardon, Paris, Seuil, 2000 (“Coll. Points”); trad. it. di A. Arbo, Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione, in Aa. Vv., La religione, Roma- Bari, Laterza, 1995

(3)Voyous. Deux essays sur la raison, Paris, Galilée, 2003; trad. it. di L. Odello, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, Milano, Cortina, 2003

(4) Force de loi. Le “Fondement mystique de l’autorité”, Paris, Galilée, 1994; trad. it. di A. Di Natale, Forza di legge. Il “Fondamento mistico dell’autorità”, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.

(5) Amore e odio per l'Europa : la psicoanalisi interroga la politica / a cura di Domenico Cosenza e Marco Focchi Pubblicazione Torino : Rosenberg & Sellier, 2019

(6) Lincoln a Gettysburg : le parole che hanno unito l'America / Garry Wills ; traduzione di Cesare Salmeggi Milano : Il Saggiatore, c2005

(7) L'ombra del grillo parlante : analisi della paura di scomparire di Sergio Finzi - Bergamo: Moretti & Vitali, 2005

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