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Il cambiamento in salsa Hollande

Il cambiamento è ora (“Le changement c’est maintenant”). Così recitava lo slogan con cui François Hollande ha condotto vittoriosamente la campagna elettorale nelle scorse elezioni presidenziali francesi. È diventato così il secondo socialista presidente della V Repubblica francese dopo François Mitterrand, vincitore nel 1981.

Cambiamento per questo? Certo, in un’ottica di alternanza normale, senza isterismi. In Francia il presidente della repubblica era di destra da ben diciassette anni: prima Chirac (1995-2007) e poi Sarkozy (2007-2012) avevano mantenuto l’Eliseo stretto nelle mani dell’area neo-gaullista, con tutte le differenze politiche tra i due presidenti, ovviamente. Ma ricorderemo che in questa lunga epoca di presidenti gaullisti c’è stato un quinquennio in cui il governo era socialista, il famoso governo Jospin (1997-2002), che alcuni ricorderanno per l’introduzione delle 35 ore lavorative, di cui tanto si parlò in Italia all’epoca del primo governo Prodi.

Un cambiamento importante, dunque, chiedeva Hollande ai francesi, perché è comunque il presidente che segna la politica generale e soprattutto l’epoca. Ma il cambiamento chiesto, e voluto, è da intendersi, appunto, come un cambiamento fisiologico e non un sommovimento radicale, non l’arrivo di “nuovi salvatori”, di “papi stranieri”, di persone che scendono in campo. La sinistra non ha avuto bisogno di presentare un Prodi socialista, ovvero qualcuno fuori dalla dinamica dei partiti, per vincere. E l’elettorato non si aspetta che un “uomo della provvidenza” venuto dall’esterno possa risolvere i problemi. In Italia invece pare che solo un profilo del genere possa salvare la politica, a destra come a sinistra. È di questi giorni una sorta di insofferenza della sinistra nel dover rimanere all’interno della dialettica Bersani-Renzi e molti invocano un terzo che venga dalla mai ben definita società civile (alcuni fanno anche il nome di questo possibile salvatore e lo individuano nel ministro Barca).

Hollande non è un presidente che viene dal nulla e non poteva certo fare finta di esserlo. Infatti, deputato della Corrèze dal 1988 al 1993 e poi dal 1997 al 2012, è stato primo segretario del partito socialista dal 1997 al 2008, undici anni in cui il partito è stato sia al governo sia all’opposizione, in cui ha perso due elezioni presidenziali, riuscendo però a riprendersi dallo choc del 2002 (quando al ballottaggio contro Chirac non andò Jospin ma Jean-Marie Le Pen). Ma è stato anche sindaco di Tulle (2001-2008) e presidente del consiglio generale della Corrèze (2008-2012). E con lui il partito socialista ha portato al governo una classe dirigente non certo tutta di primo pelo, anche se molti parlamentari sono al loro primo mandato e il numero delle donne rispetto alla legislatura precedente è aumentato considerevolmente. Ricordiamo infatti che Martine Aubry, sua avversaria alle primarie socialiste, è segretario del PS dal 2008, ma è anche sindaco di Lille dal 2001 ed è stata ministro del lavoro nel governo Jospin (fu proprio lei ad introdurre la legge sulle 35 ore lavorative). E si potrebbe continuare con il primo ministro, Jean-Marc Ayrault, sindaco di Nantes dal 1989 al 2012, deputato dal 1988 e capogruppo all’assemblea nazionale (il parlamento francese) del PS dal 1997, o il ministro dell’Economia e delle Finanze, Pierre Moscovici, già ministro degli affari europei del governo Jospin, deputato al parlamento europeo dal 1994 al 1997 quando diventa deputato al parlamento francese fino al 2002, quando viene sconfitto; ridiventa eurodeputato nel 2004 e dal 2007 ripassa all’assemblea nazionale. Un cambiamento che ha in sostanza portato in primo piano quanti nelle precedenti esperienze governative erano in secondo piano e che al tempo stesso sta facendo emergere già i loro successori. Come per esempio il ministro dell’interno, Manuel Valls, sindaco di Evry dal 2001 e deputato della stessa città dal 2002, o il ministro delle attività produttive Arnaud Montebourg, deputato dal 1997 e presidente del consiglio generale della Saône-et-Loire dal 2008.

È il cambiamento degli amministratori di cui parla Bersani? Forse. Ma forse un po’ meno. Perché se da una parte è vero che nessuno è diventato ministro dal nulla, è pur vero che sul campo molti nuovi deputati sono emersi. E sul campo, ovvero con il voto dei cittadini, molti alti dirigenti si sono ritrovati con le gambe rotte: pensiamo alla nota vicenda di Ségolène Royal, battuta dal “dissidente di sinistra” Olivier Falorni al secondo turno, ma anche nel campo avverso il ministro dell’interno uscente, ed ex segretario generale dell’Eliseo con Sarkozy, Claude Guéant è stato battuto in un “feudo” della destra da un dissidente di destra, un certo Thierry Solère.

È come se in Italia Rosy Bindi e Beppe Pisanu, candidati dai loro partiti non risultassero eletti. Impossibile ovviamente con il sistema attuale. Possibile con i collegi uninominali e il doppio turno. Un doppio turno che serve per dare aria ai dissidenti (pensiamo a Falorni!) e lasciare la decisione ultima agli elettori, sale della democrazia. Ma non è solo una questione di meccanismo elettorale: lo stesso sistema infatti ha consentito a Marie-George Buffet, segretario generale del partito comunista dal 2001 al 2010, deputato dal 1997, ministro nel governo Jospin, di farsi rieleggere senza alcun candidato contrapposto al secondo turno, pur avendo ottenuto solo il 34% dei voti al primo, grazie all’accondiscendenza del PS che ha costretto il suo candidato, una giovane militante locale, Najia Amzal, che aveva ottenuto il 30% dei voti al primo turno, a ritirarsi.

Ma non è neanche un cambiamento “alla Grillo”. Non arriva un comico a menare fendenti. Lo fece solo una volta molti anni fa Colouche quando si presentò alla presidenza della repubblica, con risultati deludenti. E gli oppositori del “sistema PS-UMP”, come possono provare ad essere Marine Le Pen (17,9% alle ultime presidenziali) da una parte e la galassia a sinistra del PS dall’altra, che in queste elezioni ha avuto il suo campione in Jean-Luc Mélenchon (11% sempre alle presidenziali del 2012), non sono dei nuovi della politica. Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale, partito di estrema destra fondato dal padre Jean-Marie nel 1972, candidato all’Eliseo dal 1974 al 2007 (con una pausa nel 1981 quando non riuscì a raccogliere le firme), è eurodeputato dal 2004, consigliere regionale del Nord-Pas-de-Calais dal 2008 (ma lo fu già dal 1998 al 2004) ed è stata consigliere regionale dell’Ile-de-France dal 2004 al 2010. Mélenchon dal canto suo viene dal PS, fu ministro del governo Jospin, senatore dal 1986 al 2010 eletto dai socialisti a più riprese, nel 2008 lascia il partito per formare il “Parti de gauche” (partito di sinistra), con cui viene eletto eurodeputato nel 2009.

Che lezione possiamo cercare di apprendere per l’Italia? Semplicemente, forse, che il cambiamento non è solo cambiare tutto (magari per poi non cambiare niente, come è stato con la “discesa in campo” di un imprenditore estraneo ai “giochetti” della politica) ma cambiare con gradualità. Significa non congelare sempre le stesse persone negli stessi posti, ma dare la possibilità ad una nuova classe dirigente di emergere gradualmente. Una sorta di ricambio permanente al posto del ricambio improvviso che sembra essere molto più alla moda. Un ricambio permanente che però deve essere basato sulle capacità e non sulla dedizione ai leader.

Dobbiamo quindi ripensare al senso dei cambiamenti. Il cambiamento maggiore è quando il governo del paese cambia parte politica, quando dopo più di un decennio di destra egemone i cittadini danno fiducia alla sinistra. Quando cioè si è in un rodato e immutabile sistema di alternanza, che è il miglior freno per evitare che governi e governanti abusino troppo della loro posizione, perché sanno che non sono lì per sempre. Che arriverà, per errori ma anche semplicemente per logoramento, il momento di passare all’opposizione.

Beninteso, la Francia non è il paradiso politico (lungi da me la volontà di iscrivermi al nutrito club degli esterofili), come non può esserci in nessun luogo. Attaccamento al potere, corruzione, clientelismo sono parte della natura umana e sono presenti ovunque nel mondo, non facciamoci illusioni. Alla società, a noi tutti, non ai “politici” come si sente dire in giro, è dato però il compito di limitarli, senza aspettarsi lavacri salvifici che portano solo delusioni e riproduzione degli stessi vizi.

Pubblicato originariamente su iMille

Questo articolo è stato pubblicato qui

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