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Il Rock/Blues di “Jing Chi” scatena l’entusiasmo al Blue Note di Tokyo

C’era da parte mia un leggero timore al pensiero che un quartetto di musica Rock si esibisse in un piccolo, pur se confortevole, locale. Organo, chitarra e basso elettrici e una batteria Gretsch, acustica d’accordo, ma espansa nel numero di piatti (6) e tamburi, pensavo facessero fatica a collocarsi sulla pedana che funge da palcoscenico. E invece no. Sia per la professionalità dei tecnici, che hanno saputo regolare a puntino il volume sonoro già nel primo brano, sia per l’intelligenza dei musicisti, consapevoli di non trovarsi in uno stadio o in un’arena, tutto è filato liscio e ogni spettatore ha potuto godere in perfetta rilassatezza un bel concerto rock, in un ambiente ormai preparato ad ospitare qualsiasi genere musicale.

Il termine scelto per il nome del gruppo, “Jing Chi”, secondo l’antica scienza erboristica cinese, si riferisce alle tre energie di base, conosciute come i Tre Tesori.

Apre il primo set della serata, “At the Apollo”. È un Rock lento a volume molto alto, su cui però, come detto, i tecnici si mettono subito al lavoro, cosicchè il suono si adeguerà alle dimensioni della sala.

Robben Ford (16 dicembre 1951) tiene i contatti con la platea e suona l’amata Fender in maniera ispirata, scegliendo con buon gusto i diversi registri ed effetti da utilizzare. Sorride, chiama i brani, si volge spesso verso Vinnie Colaiuta (5 febbraio 1956), il talentuoso batterista, forse anche per concordare il metronomo.

Il brano successivo, “Crazy House” è un rock a tempo medio, con accenni afro, ma che in certi momenti sviluppa un leggero swing, grazie alla fantasia di Colaiuta. Il solo di chitarra è lungo ma non stanca; il basso elettrico, a sei corde, di Jimmy Haslip (31 dicembre 1951), musicista mancino, diffonde un suono cupo che crea un’atmosfera di attesa.

È il momento, per Ford, di presentare i solisti di quello che lui ha definito un supergruppo. Chiama l’organista Larry ‘Santiago’ Goldings (28 agosto 1968), e Colaiuta ‘Vincenzo’, riferendosi alle origini italiane (dalla provincia dell’Aquila).

“What I haven’t done”, è l’unico blues cantato. Ford esibisce una voce nasale, a tratti esile e delicatamente femminile. Dopo un solo fantasioso, la chitarra esegue una serie di rilanci che stimolano Colaiuta ad un quasi assolo.

Il quarto brano, “Go Figure”, è presentato come risalente a molti anni addietro. Per il tema, scandito lentamente, la sonorità è distorta, mentre nel prosieguo troverà spazio un assolo ben architettato di basso elettrico.

Inizialmente in ¾, “Casablanca” esordisce lentamente. Colaiuta sembra interrogarsi se liberare o meno un 4/4 swingante. Lo farà molto leggermente per poco tempo. Ford si concentra sul suo assolo, in crescita quanto ad intensità, che stimola nuove scomposizioni batteristiche, mostrando Colaiuta visibilmente sudato in volto.

Il set si conclude con tre composizioni tratte dall’ultimo CD, il quarto, “Supremo” : “Showtime”; l’accattivante “Better Times”, che riporta un po’ alla musica Reggae e nella quale Goldings abbandona l’organo per trasferirsi al piano elettrico; “Secrets” è invece un Blues lento, con degli obbligati da rispettare per tutti. Per la sua delicatezza, il pensiero va a “Something” di George Harrison.

Il concerto si concluderebbe qui. Ma la sala è in fermento. Il pubblico, vicinissimo ai propri beniamini, non si accontenta più di ondeggiare la testa durante l’ascolto, vorrebbe scatenarsi. Allora il quartetto lo scuote proponendo un’aggressivo “Vegas”, nel quale spicca un possente accompagnamento nello stile tipico del “Boogie-woogie”.

Jing Chi convince. È un quartetto affiatato, in cui ogni musicista fa il proprio lavoro con precisione, attento ad ascoltare gli stimoli provenienti dagli altri colleghi.

Robben Ford si esibirà in Italia con il suo “Purple House Tour” : 9 concerti dal 14 al 23 Novembre.

Foto: 

TSUNEO KOGA
 

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