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Il Governo che confonde la stabilità con l’immobilismo: alcune proposte concrete

I timidi segnali di ottimismo che l’Europa sta raccogliendo in questa incerta estate vengono velocemente sbandierati come gli auspici e gli auguri di romana memoria che profetizzano la fine di questa crisi. Ma la verità è più sottile: è vero che esiste una ripresina, ma in Italia dobbiamo riuscire ad agganciarla e per farlo abbiamo bisogno di dinamismo e velocità, soprattutto tra i banchi del governo che in cinque mesi, hanno prodotto molto poco, appena due leggi, e soprattutto il rimando di ogni decisione rilevante ad un fantomatico autunno ormai alle porte.

L’Italia, ed il governo Letta in particolare, sta correndo un gravissimo rischio, sta confondendo la stabilità di cui necessità questo paese con l’immobilismo. 

Secondo i dati di Unioncamere, da gennaio al maggio 2013, sono 5.334 le aziende che sono state costrette a chiudere, in pratica 35 fallimenti al giorno, tre ogni due ore, giusto per esasperare il macabro calcolo, vittime anche loro di quella stabilità che vogliamo confondere con l’immobilismo di un paese che preferisce sempre l’attesa al fare, la codardia della stasi, al coraggio del cambiamento.

Per questo ho deciso di elencare solo alcuni timidi esempi che potrebbero essere spunti dai quali il governo Letta potrebbe prendere slancio per rilanciare con forza quella indispensabile e non più procrastinabile attività di riforma del nostro paese.

L’Italia è la nazione con il maggior numero di sentenze emesse dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo non ancora eseguite, sono 2569, secondo e terzo posto vanno alla Turchia e alla Russia.

L’ultima condanna ci è giustamente piombata addosso sull’incivile e vergognoso stato delle nostre carceri, ma la stragrande maggioranza dei casi riguarda sentenze che condannano questo paese per l’intollerabile lentezza, l’inadeguate garanzie di una giustizia dai tempi biblici, ingolfata, maldestra e troppo troppo spesso tardiva in maniera ingiustificata. Giusto per farci un’idea, basti pensare che per completare i tre gradi di giudizio e vedersi riconoscere il proprio diritto o il proprio dovere, servono in media 2886 giorni, contro i 778 della Spagna. 

Soluzioni al problema? 

  • Informatizzazione dei sistemi
  • costituzioni di arbitrati obbligatori per la maggior parte delle cause civili ed amministrtive
  • abbassamento del periodo di sospensione delle udienze previsto dalla legge, che ad oggi va dal 1 agosto al 15 settembre di ogni anno e che da solo blocca il paese in sostanza per tre mesi, quando basterebbe a costo zero utilizzare una turnazione dei magistrati e dei dipendenti per migliorare di percentuali interessanti la produttività dei tribunali e, soprattutto, per non congelarlo ulteriormente, nonostante il caldo dei mesi estivi.

Se la giustizia è un tabù ventennale per qualsiasi governo si succeda a palazzo Chigi, si potrebbe però lavorare su altri fronti:

  • sburocraticizzazione della pubblica amministrazione
  • semplificazioni normative utili a far nascere un azienda
  • sul taglio degli sprechi della spesa pubblica
  • normalizzazione tra il nord e il sud del paese in termini di infrastrutture
  • Ma anche di comportamenti dello Stato, dei servizi ai cittadini, sullo sblocco vero dei crediti che le imprese vantano dallo Stato, (ad oggi in teoria sbloccati 40 miliardi, erogati 20 miliardi, pagati solo 5, su un debito di circa 120 miliardi di euro), sulla riforma delle provincie, sul finanziamento pubblico ai partiti, sulla riforma costituzionale, etc. 

Insomma di cose da fare, tutto sommato mi pare ce ne siano tante ed il momento richiederebbe dedizione, capacità, coraggio, virtù che singolarmente non mancano. Lo dimostra il fatto che in Italia, comunque continuiamo ad investire, in primis le nostre vite, speranze, soldi, tempo, ma poi come per magia sembriamo distratti, immobili nella nostra ottusa ricerca del pettegolezzo, di un vinto o di un vincitore, siamo schiavi della voglia di inseguire i mali e i vizi di pochi, trascurando le necessità dei molti.

Lo dimostriamo ogni giorno quando, invece di parlare e soprattutto di fare, preferiamo pensare alle piccole botteghe di ognuno, che siano il congresso di un partito o la sentenza che condanna un uomo che noi vogliamo per forza sentire più uguale degli altri.

Abbiamo radicati in noi la sindrome della squadra di calcio, vogliamo e ci sentiamo allenatori ed arbitri degli altri, commentiamo il gioco senza mai voler veramente entrare in campo, guardiamo dagli spalchi o dalle nostre comode poltrone, una partita mal giocata sulle nostre vite, sul nostro futuro, aspetteremo l’autunno, ma in cuor mio non so di quale anno per vedere cambiare qualcosa.

Che dire forse è il caldo di agosto, forse il fatto che come molti sono qui a lavorare e a preoccuparmi non dell’ombrellone degli altri, ma del futuro di questo paese, delle sue imprese, lavoratori, figlie e figli, solo che a volte mi sembra che tutti siamo orientati solo ad invecchiare, mentre io preferirei semplicemente crescere. 

 

Foto: Kartik Jasti/Flickr

 

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