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 Home page > Attualità > Media > I politici credono a quello che dicono?

I politici credono a quello che dicono?

 
Forse la risposta più “politica” (sic) alla domanda posta nel titolo potrebbe essere: non è importante che ci credano. Ma non saremmo lontani dalla realtà se rispondessimo che, per lo più, i politici, anche quelli considerati bravi e “onesti”, non credono davvero alle cose che dicono.
Quello del linguaggio politico infatti è senz’altro l’ambito in cui si verifica in modo più completo la cosiddetta “autonomia del politico”, teorizzata da diversi filosofi della politica, a partire dall’input dato da Machiavelli.
 
I discorsi “politici”, soprattutto oggi, nella società dell'informazione e dello spettacolo, sono sempre più autonomi rispetto alla funzione di segni o di mezzi di comunicazione, per diventare essi stessi oggetto, ciò di cui si deve parlare, anziché veicoli della comunicazione. Al punto tale che la loro referenza, sul piano linguistico, sembra diventare sempre più vuota!
 
In effetti il discorso politico, essendo prevalentemente incentrato sull’uditorio, tende piuttosto a “formare” il pubblico, preparandolo a recepire positivamente nel futuro i discorsi e le posizioni dei vari personaggi politici. Perciò è naturale che questi ultimi speculino, fondamentalmente, “sulla pluralità di interpretazioni che i loro messaggi possono subire e quindi sulla poca consistenza di significato reale che le loro parole e i loro enunciati hanno” (V. Lo Cascio). La politica si muove necessariamente nella logica del compromesso, e non può essere indifferente al proprio successo, perché perderebbe il suo stesso motivo di esistenza.
 
Bisogna poi considerare che un discorso politico, cioè l’idea di comporre una volontà generale a partire da una moltitudine, sarebbe resa “impossibile da una definizione epistemologica della verità scientifica”(Latour). 
È quanto pensava anche Eco quando considerava “moralistico asserire che il discorso politico deve sottrarsi alle tecniche retoriche per vertere solo intorno alla verità; la conduzione della polis è materia di opinione, e intorno alla varietà delle opinioni deve esercitarsi il gioco del convincimento.
 
Il linguaggio politico perciò può essere molte cose, ma, sicuramente, non uno strumento di informazione; non è un messaggio, ma piuttosto un tentativo, spesso riuscito, di "massaggio" della mente e della “pancia” dei cittadini!
Bisogna onestamente prendere atto che l’animale politico rimane “il principe delle parole ritorte”. Il linguaggio politico non esisterebbe senza questa capacità di piegaretradiremodificare la parola”, scrive Bruno Latour.
 
Il fatto è che il discorso politico è essenzialmente metaforico, e quindi le parole della politica, più di tutte, hanno l’obiettivo di esercitare un potere quasi magico: devono “far vedere”, devono “far credere”, devono “far agire”. E, talora, purtroppo, quelle parole mirano a trasformare ascoltatori o seguaci in veri e propri proiettili umani diretti contro nemici o avversari! 
È facile, del resto, verificare come nella lotta politica quotidiana si cerchi soprattutto di imporre, con tutti i mezzi, la propria definizione della realtà eil proprio vocabolario, più che individuare o rappresentare concretamente e nel dettaglio problemi effettivi
 
Da questo punto di vista, è il caso di riconoscere che “pur senza essere legittima, di fatto la menzogna è parte essenziale della politica: lo è nella forma della propaganda, quando si fanno promesse sapendo che non si potranno mantenere; e nella forma del nascondimento o dell’alterazionedelle informazioni di cui il potere politico è in possesso”, come dice lo storico Adriano Prosperi.
 
Ma non è il caso di scandalizzarsi o di disperare! In fondo, la “politica”, non nacque, nell’antica Grecia come “rappresentazione”? Se interpretate questo termine come categoria teatrale non vi state sbagliando. È avvenuto proprio questo. I greci inventarono la “politica come discorso”, che sostituiva lo scontro fisico, e la guerra civile, trasferendo lo “scontro” su una specie di “palco teatrale”, lo scenario dell’agorà politico, cioè della “rappresentazione, appunto (Vegetti). E cos’è la “rappresentazione”, se non “fiction”?
 
Basta saperlo! Proprio per questo rimane fondamentale non cadere nell'equivoco di stabilire un rapporto speculare tra le forme mediante le quali la politica si descrive e si rappresenta e i processi concreti che la costituiscono. Purtroppo anche gran parte dei mezzi di comunicazione non ci aiutano a sfuggire a questo equivoco!
 
Se poi pensiamo che con i loro discorsi (lunghi o brevi (tweet) che siano) i politici devono comporre e coordinare diversi gruppi che perseguono valori diversi; o, se pensiamo inoltre che molto spesso, attraverso i discorsi politici, sono in atto anche scontri cifrati tra due o più soggetti o gruppi di potere — al di sopra delle teste dei cittadini; allora possiamo capire perché l'ambiguità e il contenuto criptico del discorso politico tendano a diventare sempre più estesi, al punto da rendere plausibile l’ipotesi di Bruno Latour secondo il quale il numero dei cittadini in grado di decodificareil contenuto dei discorsi politici tenderà a contrarsi sempre di più. 
 
Così, paradossalmente, mentre insistiamo nel pensare ai discorsi politici come a un insieme di contenuti, argomenti, tesi e posizioni ideali, intorno a cui prendere posizione, scontrarci o azzannarci, dobbiamo prendere atto invece che i discorsi politici non sono tanto un medium destinato a comunicare contenuti, ma diventano essi stessi solo ciò di cui si parla, ciò che determina però la nostra “agenda” quotidiana!
 
Ma, ne vale la pena? Che cosa facciamo davvero e di cosa parliamo, quando crediamo di parlare di “politica”?
 
 
 

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