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Guida al referendum costituzionale: Sì o No?

Ecco su cosa gli italiani saranno chiamati ad esprimersi nel referendum costituzionale fissato per il 20 e il 21 settembre
 

Domenica 20 e lunedì 21 settembre gli italiani saranno chiamati a esprimersi su un referendum costituzionale avente ad oggetto la riduzione del numero dei parlamentari.

Si tratta del quarto referendum costituzionale della nostra storia repubblicana, dopo quello del 2001 sulla riforma del Titolo V (approvato), quello del 2006 sulla riforma della Parte II (respinto) e quello del 2016 sulla riforma Renzi-Boschi (anch’esso relativo alla Parte II e respinto).

Lo spoglio delle schede del referendum inizierà subito dopo la chiusura dei seggi, ossia lunedì 21 settembre alle 15. Fanno eccezione alcuni comuni del veronese e della Sardegna settentrionale, nei quali lo scrutinio partirà dalle elezioni suppletive indette nei rispettivi collegi uninominali del Senato, e solo successivamente si passerà al referendum.

 

L’oggetto del referendum

Su cosa saremo chiamati a votare? Il testo del quesito che troveremo sulla scheda elettorale sarà il seguente:

«Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 240 del 12 ottobre 2019?»

Sotto il quesito ci saranno due riquadri: uno con scritto Sì, per approvare la riforma, e uno con scritto No, per respingerla. A differenza dei referendum abrogativi, non è previsto alcun quorum per validare l’esito del referendum costituzionale, cioè non esiste una soglia minima di partecipanti al voto al di sotto della quale la consultazione non sarebbe ritenuta valida. Quindi, a prescindere dal numero dei votanti, la riforma sarà approvata definitivamente se ci saranno più Sì che No, mentre sarà respinta se i No saranno più dei Sì.

Andiamo ora a vedere nel dettaglio come verrebbero modificati i tre articoli della nostra Carta costituzionale su cui la riforma è intervenuta e su cui saremo chiamati a esprimerci. In rosso sono barrate le parti della Costituzione attualmente vigente che il testo della riforma intende cancellare; in verde viene invece evidenziato ciò che sarebbe aggiunto. Cominciamo dalle modifiche agli articoli 56 e 57, riguardanti rispettivamente la Camera e il Senato; successivamente tratteremo dell’articolo 59 sui senatori a vita.

 

Art. 56

La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto.

Il numero dei deputati è di seicentotrenta quattrocento, dodici otto dei quali eletti nella circoscrizione Estero.

Sono eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno della elezione hanno compiuto i venticinque anni di età.

La ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni, fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, si effettua dividendo il numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall’ultimo censimento generale della popolazione, per seicentodiciotto trecentonovantadue e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.

 

Art. 57

Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale, salvi i seggi assegnati alla circoscrizione Estero.

Il numero dei senatori elettivi è di trecentoquindici duecento, sei quattro dei quali eletti nella circoscrizione Estero.

Nessuna Regione o Provincia autonoma può avere un numero di senatori inferiore a sette tre; il Molise ne ha due, la Valle d’Aosta uno.

La ripartizione dei seggi fra le Regioni o le Province autonome, fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, si effettua in proporzione alla loro popolazione delle Regioni, quale risulta dall’ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.

 

Il cuore di questa riforma è la riduzione del numero dei seggi, sia alla Camera che al Senato, di poco più di un terzo del totale: alla Camera si passerebbe da 630 a 400 deputati, mentre al Senato si passerebbe da 315 eletti a 200. Se dovessero vincere i Sì, a partire dalle prime elezioni politiche successive a questa riforma, il totale dei parlamentari eletti passerebbe da 945 a 600.

Naturalmente, una riduzione di tale entità impone anche che vengano ridotte nella stessa misura le quote dei seggi riservate agli italiani residenti all’estero (da 12 a 8 alla Camera e da 6 a 4 al Senato). Gli altri seggi (392 a Montecitorio, 196 a Palazzo Madama) continuerebbero a essere assegnati in proporzione alla popolazione di ognuna delle 28 circoscrizioni alla Camera, mentre al Senato ciò continuerà ad avvenire su base regionale, con l’eccezione del Trentino-Alto Adige che – novità prevista dalla riforma – sarebbe scorporato nelle due Province autonome (Trento e Bolzano) che lo compongono. In più, per l’elezione del Senato, il numero minimo di seggi spettanti a ogni Regione verrebbe abbassato da 7 a 3 (con l’eccezione del Molise, che continuerebbe ad avere due seggi, e della Valle d’Aosta, che ne avrebbe sempre uno solo).

Se vincessero i Sì e la riforma fosse approvata, ma la legge elettorale rimanesse invariata, andrebbero ridisegnati i collegi elettorali – sia quelli uninominali, sia quelli plurinominali – della legge attualmente vigente, il Rosatellum. Tale legge, con cui si sono svolte le elezioni del 2018, era tarata su 630 deputati e 315 senatori: per evitare problemi nel caso in cui la riduzione dei parlamentari vada a buon fine, il Rosatellum è già stato modificato da un’altra legge (L. 27 maggio 2019, n. 51) che ha sostanzialmente sostituito tutti i riferimenti ai seggi espressi in numeri assoluti con delle proporzioni, per far sì che, indipendentemente dal numero dei parlamentari, il sistema elettorale non incontri ostacoli applicativi. Nello specifico, è previsto che sia alla Camera che al Senato i 3/8 dei seggi totali (meno quelli esteri) siano eletti con un sistema maggioritario secco in collegi uninominali, mentre i restanti 5/8 siano eletti proporzionalmente in collegi plurinominali con liste bloccate.

Alla Camera, in particolare, con il Rosatellum ognuna delle 28 circoscrizioni eleggerebbe meno deputati rispetto a oggi, con l’eccezione della Valle d’Aosta (che si vedrebbe sempre assegnato un solo deputato). Nella tabella che segue, tratta da un dossier del Servizio Studi della Camera, si può osservare nelle colonne blu il numero di deputati che avrebbe ogni circoscrizione se vincesse il No (cioè se la riduzione dei parlamentari non avesse luogo), mentre nelle colonne verdi sono riportati i numeri che si avrebbero se vincesse il Sì. Le colonne “392 seggi” e “618 seggi” mostrano il totale dei deputati eleggibili in ogni circoscrizione, mentre le 4 colonne successive riportano il dettaglio dei deputati eletti nei collegi uninominali di ogni circoscrizione con la popolazione media per collegio, e infine le ultime 2 colonne confrontano i seggi da attribuire nei collegi plurinominali.

Anche al Senato gli eletti si ridurrebbero, passando da 315 a 200. Con il Rosatellum ogni Regione o Provincia autonoma avrebbe meno eletti rispetto ad adesso, con l’eccezione della Valle d’Aosta e del Molise, che in base al dettato costituzionale avrebbero rispettivamente uno e due senatori. Nella tabella seguente, tratta dal dossier già citato, si possono osservare nelle colonne blu quanti senatori avrebbe ogni Regione o Provincia autonoma se vincesse il No, mentre nelle colonne gialle sono riportati i numeri che si avrebbero in caso di vittoria del Sì. Le colonne “196 seggi” e “309 seggi” indicano i senatori eleggibili in totale in ogni Regione o Provincia autonoma, le 4 colonne seguenti mostrano il dettaglio dei senatori eletti nei collegi uninominali insieme alla popolazione media per collegio, e infine le ultime 2 colonne confrontano i senatori da eleggere nei collegi plurinominali.

Queste tabelle, naturalmente, si applicherebbero solo qualora restasse in vigore il Rosatellum: se la legge elettorale venisse modificata – cosa su cui peraltro si è tornato a discutere in queste settimane – la situazione sarebbe inevitabilmente diversa. Viste le tempistiche parlamentari, appare comunque molto difficile (per non dire impossibile) che una nuova legge elettorale venga approvata prima della data del referendum: pertanto, in caso di vittoria del Sì, il Governo avrebbe 60 giorni (sempre in base alla Legge 51/2019) per ridisegnare i collegi elettorali del Rosatellum.

Un’altra conseguenza del taglio dei parlamentari si avrebbe sull’elezione del Presidente della Repubblica. L’articolo 83 della Costituzione, che non sarebbe toccato dalla riforma in esame, prevede in particolare quanto segue:

 

Art. 83

Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri.

All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato.

L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta.

 

Al momento, dunque, il Presidente della Repubblica viene scelto da 945 parlamentari eletti, dai senatori a vita e da 58 delegati regionali, e dunque da un’assemblea composta da almeno 1.003 grandi elettori (a meno di seggi vacanti alla Camera e/o al Senato). Con la riduzione dei parlamentari elettivi da 945 a 600, aumenterebbe il peso sia dei senatori a vita (ma su questo la riforma mira a mettere un freno, come vedremo tra poco) sia dei delegati regionali, che da circa il 6% dell’assemblea arriverebbero a costituirne il 9%: a seconda del giudizio che si può avere sulla presenza delle autonomie regionali in sede di elezione del Capo dello Stato, ciò può essere visto positivamente oppure negativamente.

Nonostante comunemente si parli solo della riduzione dei parlamentari, però, questa riforma mira anche – come già accennato – a porre fine a un dibattito tra i costituzionalisti relativamente al numero dei senatori a vita, attraverso la seguente modifica dell’articolo 59 della Costituzione:

 

Art. 59

È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica.

Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a cinque.

 

La Costituzione, fin dalle origini, prevede che ai senatori elettivi si possano affiancare dei senatori a vita. Questi ultimi possono essere di due tipologie: o sono ex Presidenti della Repubblica, che una volta terminato il mandato lo diventano di diritto, oppure sono personalità nominate dal Capo dello Stato che hanno dato lustro al nostro Paese “nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. La Costituzione precisa che i senatori a vita di nomina presidenziale non possono essere più di cinque, ma non è mai stato chiarito se in Senato non possano essere presenti più di cinque senatori a vita di nomina presidenziale in contemporanea, oppure se ogni Presidente della Repubblica possa nominare cinque senatori a vita.

Fino al 1984 ha prevalso la prima interpretazione, e i vari Capi dello Stato che si sono succeduti hanno sempre fatto in modo che in Senato non sedessero mai contemporaneamente più di cinque senatori a vita di nomina presidenziale.

Nel 1984, però, Sandro Pertini nominò Carlo Bo e Norberto Bobbio, portando per la prima volta il numero di senatori a vita di nomina presidenziale contemporaneamente in carica oltre la soglia dei cinque: iniziò così a prevalere la seconda interpretazione, quella secondo cui ogni Capo dello Stato può nominare fino a cinque senatori a vita. Francesco Cossiga, successore di Pertini, seguì anch’egli quest’interpretazione nominando altri cinque senatori a vita: nel 1991 a Palazzo Madama sedevano così 9 senatori a vita di nomina presidenziale più il Presidente emerito Giovanni Leone, per cui a un Senato di 315 eletti si aggiungevano altri 10 non eletti, di fatto alterando in misura non irrilevante la rappresentatività popolare della nostra Camera alta.

I Presidenti successivi (da Scalfaro fino a Mattarella) sono quindi tornati alla prima interpretazione, avendo cura di non superare il tetto di cinque senatori a vita di nomina presidenziale contemporaneamente in carica.

La riforma vuole dunque sancire una volta per tutte che la prima interpretazione è quella da seguire, mettendola per iscritto. Ma perché porre fine a questo dibattito nella dottrina giuridica, che all’apparenza può sembrare molto astratto, in una riforma sulla riduzione del numero dei parlamentari? La ratio è che il peso dei senatori a vita aumenta considerevolmente se si passa da 315 a 200 senatori elettivi: per questo motivo, si è deciso di esplicitare il numero massimo di senatori a vita di nomina presidenziale che possono sedere contemporaneamente in Senato.

Perché questo tetto è stato fissato a cinque? Il motivo è duplice: da una parte, cinque è anche il numero previsto originariamente nella Costituzione; in secondo luogo, al momento i senatori a vita di nomina presidenziale sono proprio cinque, e sarebbe stato indubbiamente complesso fissare un tetto inferiore.

 

Perché Sì, perché No

Proviamo ora a capire quali sono le ragioni propugnate da chi spinge per il Sì e da chi invece si oppone alla riforma.

Chi appoggia il Sì ritiene che una riduzione del numero dei parlamentari sia necessaria sia per ragioni economiche sia per dare maggiore efficienza al funzionamento delle due Camere, mentre chi si oppone ritiene che la riduzione dei costi derivante dall’eventuale “sforbiciata” sarebbe irrilevante, in quanto molto contenuta, e che per contro si minerebbe il principio democratico della rappresentanza.

Per quanto concerne il capitolo della riduzione dei costi, esso potrebbe costituire una leva ancora più importante per il Sì, per via dell’inevitabile crisi economica innescata dall’emergenza Coronavirus. I sostenitori del No, invece, ridimensionano il tutto sostenendo che i risparmi economici non sarebbero così rilevanti, appoggiandosi a quanto riportato dall’Osservatorio sui conti pubblici italiani diretto da Carlo Cottarelli, secondo cui «il risparmio netto complessivo sarebbe pari a 57 milioni all’anno e a 285 milioni a legislatura, una cifra significativamente più bassa di quella enfatizzata dai sostenitori della riforma e pari appena allo 0,007% della spesa pubblica italiana».

Spostandoci dal piano economico, abbiamo visto come quasi ogni circoscrizione della Camera e del Senato avrebbe, se il taglio passasse, meno eletti rispetto ad oggi: i sostenitori del No ritengono che questa riduzione degli eletti nel nostro Parlamento indebolisca la rappresentanza, perché i territori avrebbero meno rappresentanti nelle Camere; al contrario, chi appoggia la riforma sostiene che avere meno deputati e senatori non mini la rappresentanza, ma anzi permetterebbe ai cittadini di avere un minor numero di parlamentari da tenere sott’occhio, spingendo gli eletti a lavorare meglio.

Un utile strumento per chiarirsi le idee potrebbe venire dal confronto con i parlamenti di altri Stati. Il fronte del Sì usa in effetti delle comparazioni con i parlamenti esteri per mostrare come l’Italia abbia al momento un numero di eletti troppo alto rispetto agli elettori; il fronte del No, al contrario, attraverso delle comparazioni differenti mostra come ciò non sia vero e come il rapporto numerico tra eletti ed elettori sia in linea con le altre democrazie occidentali. Queste comparazioni, insomma, sono usate in modo diverso da ambedue gli schieramenti per supportare le rispettive tesi.

Il problema, però, è che nel confronto con i parlamenti esteri entrano in gioco diversi fattori che minano la comparabilità: per esempio, il Senato italiano è peculiare poiché è (quasi interamente) elettivo e ha un corpo elettorale differente rispetto alla Camera (l’età minima per votare al Senato è 25 anni, alla Camera 18), mentre negli altri principali Paesi europei con una forma di governo parlamentare o semipresidenziale (Francia, Germania, Regno Unito) la Camera alta non è eletta direttamente e soprattutto non ha un rapporto di fiducia con il Governo. Negli Stati Uniti, invece, il Senato e la Camera sono entrambi eletti direttamente, ma il sistema è presidenziale e quindi il funzionamento è completamente diverso. In secondo luogo, anche considerando solo i parlamentari eletti direttamente, i sistemi elettorali differiscono da Paese a Paese, e quindi varia inevitabilmente anche il modo in cui viene esercitata la rappresentanza.

Risulta complesso, quindi, stendere una classifica univoca che misuri il rapporto tra eletti ed elettori nei vari Paesi: ecco il motivo per cui ve ne proporremo più di una.

Innanzitutto, considerando i parlamentari totali (945 eletti, più 6 senatori a vita attualmente in carica), cominciamo col rilevare che l’Italia è al momento il terzo Stato al mondo col maggior numero di parlamentari, dietro solo alla Cina (2.980) e al Regno Unito (1.443). Se restringiamo il campo – secondo i criteri di Freedom House – agli Stati pienamente democratici, in cui cioè il Parlamento ha un ruolo effettivo, l’Italia è dunque seconda solo al Regno Unito, e con l’eventuale riduzione di 345 parlamentari scivolerebbe dal secondo al settimo posto.

In questa top 10, però, sono presenti anche repubbliche presidenziali (Brasile, Stati Uniti), in cui cioè il Parlamento non deve dare la fiducia all’Esecutivo. Proviamo allora a restringere ulteriormente il campo all’Unione Europea, dove tutte le 27 democrazie sono o parlamentari o semipresidenziali e quindi legate al Governo attraverso l’istituto parlamentare della fiducia. In secondo luogo, stanti le differenze demografiche tra gli Stati, non consideriamo i numeri assoluti ma il rapporto tra rappresentanti e cittadini: nel calcolarlo, però, occorre considerare come denominatore la popolazione e non gli aventi diritto al voto perché, come anticipato, il corpo elettorale può differire tra le due Camere, proprio come accade in Italia.

Da questa classifica sui 27 Stati UE emerge come l’Italia abbia al momento un parlamentare ogni 63 mila abitanti, e dunque avrebbe il sesto rapporto più alto tra i Paesi dell’Unione. Se la riforma venisse approvata, ci sarebbe un parlamentare ogni 99 mila abitanti, un rapporto secondo solo alla Germania (ma si tenga presente che l’Italia è comunque il terzo Stato più popoloso dell’UE dopo Germania e Francia).

Anche questa classifica che abbiamo appena visto, però, ha un problema: sono considerati come numeratore per ogni Stato tutti i parlamentari, compresi quelli non eletti direttamente dai cittadini. Vi sono infatti alcuni Stati in cui la Camera alta, se presente, può non essere direttamente eletta: pensiamo al Bundesrat tedesco e al Sénat francese, che sono espressione degli enti territoriali, ma anche al Senato italiano, dove appunto siedono – pur rappresentando una quota nettamente minoritaria – dei senatori a vita non eletti.

Potrebbe dunque valere la pena riproporre la stessa classifica del rapporto tra parlamentari e popolazione considerando il numero dei soli parlamentari eletti direttamente (per l’Italia, 945). In questa nuova graduatoria, l’Italia si piazzerebbe al momento al settimo posto tra i Paesi UE, ma se la riduzione dei parlamentari venisse approvata salirebbe fino al quarto.

In conclusione, se da un lato è vero che l’Italia ha, in termini assoluti, uno dei parlamenti più “affollati” al mondo, dall’altro bisogna riconoscere che non è vero che ci sono troppi parlamentari in proporzione alla popolazione, se si effettuano dei confronti con gli altri Paesi. Non è neppure vero, però, che in caso di vittoria del Sì l’Italia si ritroverebbe con un numero eccessivamente alto di abitanti per parlamentare.

 

L’iter della riforma

La riduzione dei parlamentari e più in generale dei costi della politica è sempre stata un cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, che si è fatto promotore di questa riforma costituzionale presentando la prima bozza già ad aprile 2018, poco dopo l’avvio dell’attuale legislatura.

Trattandosi di una riforma della Costituzione e non di una semplice legge ordinaria, però, il procedimento per la sua approvazione non è stato quello tradizionale (per il quale uno stesso testo di legge deve essere approvato, con maggioranza semplice e una sola volta, sia alla Camera che al Senato), ma è stato un procedimento che viene definito “aggravato”: le riforme della Costituzione richiedono infatti che, dopo un primo voto in entrambe le Camere sempre a maggioranza semplice (cioè la metà più uno dei votanti), debbano passare tre mesi e poi si ripeta nuovamente la votazione, sia a Montecitorio che a Palazzo Madama, stavolta con una maggioranza che deve essere assoluta (pari, cioè, alla metà più uno dei componenti di ognuna delle due assemblee). In sintesi, al posto di due votazioni tradizionali (una alla Camera e una al Senato), una riforma della nostra Carta costituzionale richiede ben quattro votazioni (due per ogni ramo del Parlamento), e quindi tempi più lunghi e maggioranze più ampie.

L’iter parlamentare di questa riforma, nello specifico, si era concluso il 7 ottobre scorso con il secondo via libera da parte della Camera. Tuttavia, trattandosi di una riforma costituzionale, e non essendo stata raggiunta la maggioranza dei due terzi in entrambe le votazioni finali, ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione era prevista la possibilità di richiedere un referendum confermativo qualora, entro tre mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ne avessero fatto richiesta 1/5 dei membri di una Camera, oppure 500.000 elettori, o anche 5 Consigli regionali.

Nel caso di specie, il termine ultimo per richiedere il referendum sarebbe stato il 12 gennaio, e le firme sono state presentate il 10. È al Senato che sono state raccolte: ne erano sufficienti 64, dal momento che i senatori in carica allora erano 319, ma alla fine in Cassazione ne sono state depositate 71. La maggior parte (42) sono di senatori di Forza Italia, anche se hanno firmato senatori di tutti i gruppi parlamentari, con l’eccezione di Fratelli d’Italia e del gruppo delle Autonomie.

Questo, in dettaglio, l’elenco alfabetico dei 71 senatori firmatari.

Una volta che la Corte di Cassazione ha validato le firme e dichiarato l’ammissibilità del referendum, il Governo il 27 gennaio scorso ha indetto la consultazione per il 29 marzo. L’emergenza Coronavirus ha però imposto inevitabilmente un rinvio del referendum, così come delle elezioni amministrative e regionali di primavera: il 14 luglio scorso il Governo ha così fissato la consultazione per il 20 e il 21 settembre, accorpando quindi referendum, amministrative, regionali e anche le due suppletive che nel frattempo si sono rese necessarie in seguito ai decessi dei senatori Stefano Bertacco (FdI) e Vittoria Bogo Deledda (M5S).

 

Le posizioni dei partiti

Il Movimento 5 Stelle, alfiere della riforma e fermo sostenitore del Sì, si spende molto sui social e attraverso dichiarazioni ufficiali, invitando gli italiani ad approvare la riforma.

Le posizioni degli altri partiti maggiori, invece, appaiono piuttosto ambigue, oppure tendono a non soffermarsi più di tanto su questo referendum.

Per esempio, Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno invitato i rispettivi elettori a votare Sì diversi mesi fa, ma non sono poi ritornati su questo tema se non marginalmente: del resto, ideologicamente sono entrambi favorevoli alla riduzione dei parlamentari e l’hanno votata in Parlamento, ma non vogliono certo mettersi a fare campagna per una riforma voluta dai loro avversari pentastellati.

 

Piuttosto diviso appare il Partito Democratico, il cui Segretario Nicola Zingaretti si è limitato a precisare che senza una nuova legge elettorale la riduzione dei parlamentari potrebbe essere pericolosa. Ci sono democratici apertamente contrari alla riforma (tra cui il senatore Tommaso Nannicini, uno dei promotori del referendum), ma c’è anche chi, come il Presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, voterà convintamente Sì. Questa frammentazione rispecchia peraltro il fatto che, nelle aule parlamentari, il PD ha respinto la riforma nelle prime tre votazioni (condotte quando era all’opposizione), ma successivamente, andando al Governo con il Movimento 5 Stelle, in occasione dell’ultima votazione alla Camera si è espresso favorevolmente.

 

Forza Italia ha una posizione piuttosto sibillina. Silvio Berlusconi ha affermato: “Abbiamo votato sì in Parlamento, perché dovremmo cambiare idea al referendum?”, precisando però poco dopo di ritenere sostanzialmente insignificante una riforma così delineata. Inoltre, diversi parlamentari forzisti fanno campagna – chi più, chi meno apertamente – per il No: come abbiamo visto, proprio i senatori di Forza Italia sono quelli che più hanno partecipato alla raccolta firme per chiedere il referendum costituzionale.

Anche Italia Viva non ha una posizione netta: Matteo Renzi ha affermato, in una tappa del tour di presentazione del suo ultimo libro, che questo referendum è “più inutile che dannoso” perché si limita a ridurre i parlamentari non superando però il bicameralismo perfetto, come invece prevedeva la riforma (poi bocciata) da lui proposta quattro anni prima. Per il resto, non si registrano post Facebook o Twitter con inviti a votare Sì oppure No. Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, al voto finale della Camera dello scorso ottobre ha dichiarato che avrebbe approvato la riforma in aula per lealtà alla maggioranza di Governo, annunciando al contempo che dal giorno dopo si sarebbe battuto per chiedere il referendum e avrebbe fatto campagna per il No.

I partiti apertamente contrari alla riduzione dei parlamentari sono sostanzialmente forze minori del centrosinistra: tra quelli presenti in Parlamento ci sono +Europa, Azione e Sinistra Italiana (che nei gruppi parlamentari fa parte di Liberi e Uguali).

 

Sondaggi e scenari

Ma cosa pensano gli italiani di questa riforma? La rilevazione demoscopica più significativa è stata condotta prima a fine giugno, e poi ancora a fine luglio, dall’istituto Ipsos per il Corriere della Sera. Prima di domandare al campione sondato la preferenza per il Sì o per il No, è stato chiesto quanto segue: “Che lei sappia, nei prossimi mesi è previsto un referendum costituzionale in Italia?”. Il dato interessante è che solo il 28% degli italiani, a fine giugno, ne era a conoscenza. Inoltre, filtrando le risposte per partito votato, emerge come l’elettorato del Movimento 5 Stelle sia quello meno a conoscenza di questo appuntamento con le urne (26%): nonostante sia il partito alfiere di questa riforma, nel suo elettorato non sembra esserci piena coscienza del fatto che si voterà per un referendum costituzionale.

Per quanto riguarda concretamente le intenzioni di voto, il Sì sembrerebbe essere nettamente in testa sul No: a giugno, il 46% del campione ha dichiarato che approverebbe la riforma, mentre solo il 10% la respingerebbe. Certo, quasi un quarto del campione (il 24%) si è dichiarato indeciso, ma anche supponendo che esso converga in toto verso il No, la percentuale del Sì continuerebbe in ogni caso a essere superiore. Un intervistato su cinque, invece, non andrebbe alle urne o comunque voterebbe scheda bianca o nulla.

Incrociando le risposte sulla base dei partiti di affiliazione, non sorprende che la percentuale più alta di Sì (73%) provenga dall’elettorato del Movimento 5 Stelle, anche se comunque sarebbe pari almeno al 50% anche in tutti gli altri partiti principali.

Questi, però, erano i dati di giugno. Nel sondaggio Ipsos del mese dopo, diffuso il 24 luglio sempre sul Corriere della Sera, la percentuale di coloro che erano a conoscenza del referendum era cresciuta di 7 punti rispetto al mese prima, restando comunque ancora piuttosto bassa (35%). Inoltre, a luglio la percentuale di chi avrebbe votato Sì era in crescita di 3 punti rispetto a giugno (dal 46 al 49%), e il No in calo di 2 punti (dal 10 all’8%).

Da fine luglio, però, il quadro potrebbe essere mutato, così come potrebbe mutare da qui al 20-21 settembre. Certo, stando a questa fotografia di Ipsos di giugno e luglio, il Sì sembrerebbe comunque avere ampie possibilità di prevalere sul No.

Un’importante considerazione finale va fatta sull’affluenza: in origine il referendum era previsto in una data ad hoc, il 29 marzo, ma successivamente con l’emergenza Coronavirus è sorta la duplice necessità – per ragioni sanitarie ed economiche – di un rinvio e di un accorpamento con regionali, amministrative e suppletive, portando all’individuazione del 20 e del 21 settembre come date uniche per queste 4 tornate. Non è difficile credere che questo accorpamento aumenti l’affluenza rispetto all’avere una data ad hoc, ma quale schieramento può essere favorito da un maggior numero di votanti?

Ci limitiamo a segnalare come il Comitato del No abbia chiesto – invano – di non accorpare il referendum alle altre tornate elettorali, sostenendo che i referendum costituzionali, toccando per loro natura l’architettura istituzionale dello Stato, non possano essere abbinati a voti di tipo politico. In realtà, con i sondaggi Ipsos abbiamo visto come tra gli italiani non ci sia molta consapevolezza dello svolgimento di questo referendum, e addirittura questa consapevolezza sarebbe ancora più bassa tra l’elettorato M5S, che però è allo stesso tempo quello più favorevole alla riduzione dei parlamentari: ecco il motivo per cui lo stabilire un data ad hoc per il referendum sarebbe stato potenzialmente in grado di accrescere le chances di vittoria del No.

 

Ora tocca a voi!

È stata lunga, ma ho cercato di illustrarvi la riforma nel dettaglio. Ora spetta a voi capire se votare Sì o No e compiere la scelta che vi sembra più giusta: buon voto, dunque!

 

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