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Guerra Commerciale alla Cina: cosa si muove attorno alle strategie economiche di Trump

Donald Trump ha stravolto le politiche commerciali degli Stati Uniti: via gli accordi di libero scambio, su i dazi doganali con i principali partner commerciali. Dal Canada alla Cina, passando per l'Unione Europea. Sono gli albori di una "Trade War". Cosa sta succedendo a pochi mesi dalle elezioni di metà mandato.

In principio fu la lotta ai pannelli solari cinesi, poi quella delle lavatrici asiatiche, immesse sul mercato americano talmente basso prezzo da danneggiare a colpi di “dumping” il mercato delle washing machine “Made in Usa”. Poi è stata la volta di acciaio e alluminio e dei dazi al “Made in China”.

Il 2018, il secondo anno di presidenza Trump, è un Annus Horribilis per i sostenitori del libero scambio. Sempre alla prese col plasmare e concretizzare i motti, “America first” e il “Make America Great Again”, il magnate newyorkese ha stravolto l'agenda economica mondiale: via dal Trans-Pacific Partnership (TPP), e la messa in cantina della sua variante europea (TTIP), comprese le auto europee.

Ma la vera battaglia, la "Guerra Commerciale", Trump l'ha lanciata a Pechino, colpevole, a suo dire, di aver rubato proprietà intellettuali americane e di pratiche poco limpide negli investimenti. Via così, dallo scorso marzo, a 50 miliardi di dollari di dazi sulle merci cinesi biomediche ed hitech. Controbilanciate da misure analoghe da parte Xi Jinping (circa 34 miliardi). Nei suoi intenti “The Donald” vorrebbe riequilibrare la bilancia commerciale con il Dragone Cinese, dopo il deficit commerciale di 375 miliardi accumulato nel 2017, durante il suo primo anno di mandato. Qualche risultato si è visto: se i liberal evidenziano il crollo degli investimenti cinesi in America, franati del 92 percento nei primi mesi del 2018, i protezionisti fanno notare come al contempo sono diminuite le influenze nella politica interna e le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti, cresciute di uno striminzito 5,4% (erano del 19,3% nello stesso periodo dell’anno precedente), e ancor meno nel mese di giugno scorso, quando le esportazioni sono cresciute del 3,8%, contro una crescita del 27,6% del 2017. Senza contare la disoccupazione, scesa ai livelli pre-crisi.

Le elezioni di Mid-Term di novembre sono alle porte. Nei suoi obiettivi, il Presidente degli Stati Uniti, ha quello di rastrellare e consolidare sempre più consensi nei Rust Belt, da Chicago a Buffalo, passando per Detroit, la capitale dell'auto americana, la pancia dell'elettorato americano, adirato con l'establishment per non aver tutelato l'economia industriale statunitense dagli effetti della globalizzazione e della crisi. Il rischio, però, è quello di scontentare i “farmers” del Corn Belt, gli agricoltori del Midwest degli Stati Uniti, anch'essi sostenitori di Trump (Minnesota e Indiana esclusi) ma danneggiati dai dazi. Basti pensare all’export dei semi di soia: 12 miliardi di dollari venduti nel 2017, più della metà, il 60 per cento, verso la Cina. Sono loro, che alle elezioni del 2016 hanno votato in massa Trump (per il 95 percento secondo “Data Download”) quelli che rischiano di essere maggiormente colpiti dalle contromisure cinesi. Va detto che il settore manifatturiero incide dieci volte di più rispetto a quello agricolo nei calcoli del Prodotto interno lordo americano. E' possibile quindi che Trump abbia scelto, numeri alla mano, di prediligere il settore più strategico.

Siamo solo all'inizio di una vera e propria “Guerra Commerciale”: sono in vigore ulteriori 16 miliardi di dazi per i prodotti cinesi, soprattutto motocicli e aeromobili. Altri 200 miliardi di sanzioni sono previste nel tardo autunno o ad inizio inverno. Dopo quelle di Toronto, Bruxelles (3 miliardi) e Città del Messico (3 miliardi), anche Pechino potrebbe catapultare nuove contromisure equivalenti ed egualmente dannose.

Gli Stati Uniti sono il Paese più ricco al mondo per ricchezza prodotta (Pil), seguiti da Cina, Giappone, e Germania. Da soli producono un quinto dell'economia mondiale. Il settore più redditizio non risente particolarmente dei dazi commerciali: visto che si tratta di quello immobiliare, che incide per il 13 percento del Pil, poi c'è quello finanziario (7,2 percento), quello della Salute (7,1 percento), del Commercio all'ingrosso (6 percento) e di quello al dettaglio (5,8 percento), della produzione dei beni durevoli, tra cui derivati del petrolio, l'agricoltura e vestiti (5,5 percento).

In generale gli Stati Uniti importano più di quello che producono: circa il 5 percento in meno se consideriamo la percentuale delle esportazioni: 8 percento delle esportazioni e il 13 delle importazioni di tutto il pianeta. Sono proprio i tracciati dei flussi a dar senso a questi numeri: si esporta soprattutto verso l'Unione Europea (18,7), verso il Canada (18,3), il Messico (15,9) e la Cina (8 percento). Ma è proprio con la Cina che si registra il più grande dislivello commerciale: il 21,4 percento delle importazioni, infatti, proviene da Pechino, seguono quelle dall'Unione Europea (18,9 percento), e quelle dagli altri due Paesi del trittico della Nafta (il Messico al 13,2 percento e il Canada col 12,6). Tutti Paesi pesantemente puniti dalle politiche protezionistiche di Trump.

Saranno però i numeri e gli effetti a stabilire se Trump abbia fatto bene a seguire le logiche protezionistiche di Robert Lighthizer, il rappresentante commerciale, anziché quelle liberali, ben presenti anche in seno all'Amministrazione attraverso il Segretario al Tesoro Steven Mnuchin, più soft con i partner commerciali internazionali, ai quali suggerirebbe maggiori acquisti dei beni “Made in Usa”, senza alcun tipo di trappole commerciali.

Da manuale, le strategie protezionistiche sono utili soprattutto nelle industrie emergenti e in quelle in profonda crisi, e avrebbero effetti limitati in quelle economie dove si esporta poco. Non certo la situazione degli Stati Uniti. Molti studi economici evidenziano come i dazi abbiano un impatto negativo significativo sulle industrie manifatturiere Usa, che possono spingere i produttori ad alzare i prezzi, colpendo i consumatori, o diminuendo la produzione.

Tra questi c'è quello della “Federal Reserve Bank” di Saint Louis, secondo cui i dazi doganali imposti da Trump avrebbero come effetto quello di rendere meno competitivo il settore manifatturiero americano. Si pensi a quanto potrebbe soffrire il comparto informatico, che importa per il 30 percento i beni intermedi o a quello dell'automotive, che da solo contribuisce col 3,5 percento del prodotto interno lordo del Paese e che pesa per l’8,2% dell'intera produzione manifatturiera americana. In media per produrre un'auto l'industria statunitense importa poco meno del 30 percento di componenti.

Un'analisi di “Moody’s Analytics” ha previsto cali del 2 percento il Pil, facendo perdere 250 mila posti di lavoro e pesando per 210 dollari nel costo del paniere delle famiglie.

Numeri contrastanti e che avranno bisogno di tempo per esser valutati. L'assenza di insidie interne da solo non basta per stimolare la produzione interna. La sensazione, comunque, è che se Trump non ha fatto bene i suoi conti, gli Stati Uniti rischieranno un boomerang economico capace strangolare proprio quel “Made in Usa” straziato dagli anni della crisi e ora in fase di rilancio. Facendo aleggiare nuovamente i fantasmi di una nuova recessione economica mondiale.

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