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Governo Monti: quando si parlava di equità

Monti aveva promesso "rigore, crescita ed equità". Ed ora, che fine ha fatto l'equità? Cronaca di una parola scomparsa.

Monti è bravo, Monti è buono, Monti è bello. Partiamo da qui. Premettiamo ciò che si dice sempre e che è ovvio per chiunque sia sincero e abbia un minimo di cervello: è un sollievo vederci rappresentati in campo europeo ed internazionale da una persona seria, competente e capace.

Ma ricordo che, all’inizio del suo mandato, Monti aveva promesso che l’azione del suo governo sarebbe stata improntata a rigore, crescita ed equità. Beh, a me pare che almeno due parole su tre siano state dimenticate. Il rigore si è visto, eccome, mentre per la crescita è stato fatto molto poco. E l’equità? E’ rimasta lettera morta.

Lo sappiamo qual è l’obiezione: era un momento tragico, bisognava intervenire rapidamente e erano necessari sacrifici. Benissimo, tutto vero. E infatti la gente ha accettato tutto, bene o male. I grandi sforzi li abbiamo fatti e li faremo. Ma ci vuole qualcosa in cambio.

E invece non è ancora arrivato nulla. Una persona normale si guarda intorno e vede la benzina alle stelle, l’IVA al 21% (e presto probabilmente al 12% e 23%), l’IMU sulla casa che sarà una mazzata, la pensione più lontana e non indicizzata all’inflazione oltre un certo (basso) importo, l’aumento dell’IRPEF regionale. E allora pensa: cos’ho in cambio?

Le liberalizzazioni, vendute come colossali ed epocali, sono state svuotate di ogni contenuto; 18 miliardi spesi per costruire degli utilissimi cacciabombardieri; la corruzione che si mangia 60 miliardi l’anno resta intatta; l’evasione vale 120 miliardi e non viene attaccata con la forza che sarebbe necessaria; la patrimoniale ormai è solo un vago ricordo, non se ne discute nemmeno più, proprio mentre Bankitalia ci informa che i dieci italiani più ricchi possiedono beni e ricchezze pari a tre milioni di poveri.

Per non spararsi, uno guarda al suo posto di lavoro. Almeno quello me lo garantiranno, pensa. E invece no. Di fronte a tutto questo, il problema principale è riformare l’articolo 18, permettendo di licenziare più facilmente, visto che, ci raccontano, le imprese non investono in Italia perchè qui è troppo difficile licenziare.

Ma non è così. Le imprese non investono nel nostro Paese per la corruzione, la mafia, la burocrazia, l’enorme costo del lavoro e la lentezza della giustizia, non a causa dello Statuto dei Lavoratori. Perfino Squinzi, neo presidente di Confindustria, ha affermato che il problema non è l’art. 18, ma la burocrazia, il costo eccessivo dell’energia e la mancanza di infrastrutture. Inoltre l’OCSE dice che siamo tra i più flessibili al mondo: licenziare in Germania è molto più difficile. Allora o si prende tutto dal modello tedesco che tanto si vuole imitare, oppure la si smette di rifarvisi sempre.

Il punto, quindi, è creare occupazione, diminuire il costo del lavoro e dare stabilità ai giovani che iniziano a lavorare. In un Paese in cui la disoccupazione cresce (9,3% a febbraio, mai così alta dal 2004) e quella giovanile è al 31,9%, in cui lavoratori ed imprenditori si uccidono per mancanza di soldi o di lavoro, queste devono essere le priorità.

Il conto non possono pagarlo sempre i soliti noti, i sacrifici devono essere distribuiti sulle spalle di tutti. Solo così si può uscire dalla crisi senza pericolose rotture sociali. E un governo tecnico deve fare quello che nessuno è mai riuscito a fare: raggiungere la giustizia sociale. Altrimenti, che ci sta a fare?

Crediti immagine: Altan

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