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Goudou goudou, il web-documentario per non dimenticare Haiti

“Una catastrofe porta ad altre catastrofi”

Era il 12 gennaio, più di un anno fa, quando ad Haiti l’assassino “Goudou Goudou” si è fatto sentire distruggendo tutto, poi si è trasformato da rumore terrificante in una musica di speranza sulle bocche degli haitiani. Suono onomatopeico che riproduce le tremblement de terre, “Goudou Goudou” è il web-documentario sulla ricostruzione di Haiti, ideato da Giordano Cossu e Benoit Cassegrain, fondatori del progetto Solidar’IT in Haiti.

Alla ricerca di finanziamenti per il suo documentario, Cossu ha bussato anche alle porte del ministero dei beni culturali, la risposta? “Bello, ma qui Bondi ha tagliato tutto”; finanziato infine, con il supporto di Reporters sans Frontières, da Fondation de France, RF1 e da Vanity Fair per la versione italiana, “Goudou goudou” ha vinto in questi giorni il premio “Eretici digitali” al Festival Internazionale del giornalismo di Perugia.

Il web-documentario racconta le voci ignorate della ricostruzione, descrive il mondo sommerso di Haiti dimenticato dai media. “Una catastrofe porta ad altre catastrofi” racconta Giordano Cossu, i capelli chiari conserti da una parte, gli occhi blu sinceri che incrociano i tuoi: “Hanno dimenticato Haiti, dopo il terremoto ci sono altri rischi, ad esempio gli uragani hanno devastato le tendopoli, le precarie condizioni igieniche hanno portato il colera”. “Goudou Goudou” è frutto di una lunga permanenza dei due registi nell’isola a contatto con i giornalisti locali, cinque i reportage dei giovani radio-cronisti haitiani che compaiono nel web-documentario, visibile integralmente in versione italiana sul sito di Vanity Fair.

Guardate gli occhi scuri e profondi di questa popolazione sofferente e distrutta dal terremoto, dice il giovane giornalista Mc Haendel Paulémon “è abbandonata da Dio”, ma c’è una resitenza: “dopo aver passato tutto questo abbiamo il diritto di riprenderci il diritto di sognare”. Scriveva Kipling nel racconto “I costruttori di ponti”, che “chi dona la vita se la può riprendere”. Benite lo vedi dal tuo monitor nel Web, 26 anni, è uno dei ragazzi della ricostruzione e sta lottando, una bocca grande spiega come ai microfoni: “dateci il lavoro cosicché regni l’amore, perché il sangue cessi di scorrere in questo Paese”.

“Dio dice che vivrai con il sudore della fronte”, questo è Charles che si guadagna la vita nel commercio del ferro, a colpi di mazzetta lo separa dalle macerie e lo rivende, per 50 Gourdes al giorno sfama i suoi cari, è l’unico modo per vivere che ha trovato ad Haiti. In “Goudou goudou”, fra i miserabili di Porte au Prince, ci sono giovani che hanno “l’arte del recupero” nelle mani: writers, rapper, e i ragazzi di Teleghetto che rappresentano una realtà priva di filtri con mezzi di fortuna, “lo facciamo per il nostro Paese senza niente in cambio”.

La compagnia teatrale di Zhovie, artisti di strada travestiti da Zombie inscenano la morte che ritorna dopo il terremoto, urlano “viva lo Stato, i coloni ci hanno preso lo Stato. Siamo morti assassinati ci sono dei responsabili”. Emerge duro nel documentario l’attacco alle ONG che hanno invaso Haiti. “Se volete aiutarmi io metto la mano sinistra voi la destra, non voglio stare a guardarvi e basta” spiega Sofonie Louis, cittadina haitiana, chiedendo che le Ong non si sostituiscano allo Stato. Commoventi le parole del radiocronista Ralph Joseph, a contatto con la morte e la sofferenza nei campi ogni giorno del suo lavoro: “quando si è giornalisti c’è una certa etica da rispettare, non si può piangere davanti alla gente, ma devo dire che il più delle volte piango dentro di me”.

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