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Gli USA ed il baratro fiscale

Mentre in Italia ci si concentra sui ravioli che nitriscono ed in Europa sugli esiti elettorali italiani, negli Stati Uniti ci pensano Alan Simpson (repubblicano) ed Erskine Bowles (democratico) a rimettere sul tavolo una questione rimandata, parzialmente diluita, ma non risolta: la riduzione del deficit USA.

Hanno infatti presentato un piano che punta a ridurre il disavanzo di spesa pubblica a stelle e strisce di 2400 mld$ (diconsi duemilaquattrocento miliardi di dollari) in dieci anni, riscrivendo anche il codice tributario. La cifra è significativa perché l’obiettivo fissato dalla Casa Bianca era di 1500 mld$. Avviamo il consueto #TICTACTICTAC per la prossima scadenza (1 marzo) entro la quale andrà promulgato qualcosa, viceversa subentreranno tagli automatici della spesa per circa 85 mld$ (questa scadenza viene denominata “sequester” negli articoli dei giornali USA).

Il tema di fondo è sempre lo stesso: la spesa pubblica statunitense supera in maniera spropositata le entrate fiscali. Il motivo per cui questo accade è che la presidenza Bush, dovendo fronteggiare la crisi, avviò nel 2001 un ingente piano di agevolazioni fiscali mirate al rilancio dell’economia. Il PIL americano degli ultimi dieci anni testimonia che la spinta ha funzionato, ma è altrettanto vero che fare disavanzo significa accumulare debito, e questa è una cosa che puoi permetterti di fare se il rapporto debito/PIL ha degli spazi (come il bilancio americano aveva allora e non ha più oggi).

Lo spazio per incentivi così forti non c’è più, in qualche modo gli USA - ancorché in modalità soft - dovranno attuare la loro forma di austerity, quindi vediamo la proposta (definita dagli autori “una base per un accordo bipartisan”) di Simpson e Bowles: il piano identifica riduzioni della spesa per 600 mld$ attraverso modifiche dei programmi di assistenza sociale come Medicare e Medicaid. Altri 600 mld$ deriverebbero dalla riduzione o dall’eliminazione di una serie di sgravi fiscali, una cifra in linea con le richieste della Casa Bianca ma in contrasto con quelle dei repubblicani (che non sono disposti a includere aumenti della pressione fiscale nell’accordo sulla riduzione del deficit). I restanti 1.200 mld$ arriverebbero da una revisione delle spese discrezionali, ovvero quelle che il Congresso approva di anno in anno, da una revisione della metodologia di calcolo del Social Security, la previdenza sociale americana, e dalla riduzione degli incentivi previsti per pensionati e militari.

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Ma se gli incentivi fiscali e la spesa “gonfiata” stimolano il PIL, la loro rimozione quanto lo frenerà? Dipenderà evidentemente dall’entità del taglio e dai famigerati moltiplicatori: ad esempio secondo accreditati studi per ogni euro investito nella banda larga si genererebbero ritorni di PIL ben più ampi (solo che “banda larga” non è popolare come “IMU” ed in campagna elettorale non se ne parla…) viceversa la redistribuzione improduttiva è magari socialmente più gradita (impatto politica-consenso), ma il ritorno in termini di PIL (e quindi il PIL perso in caso di sua rimozione) risulta più contenuto: non genera circoli virtuosi e quindi la sua rimozione non avvierebbe spirali recessive.

Ahimé quando si entra nel tema dei moltiplicatori ci si ritrova magicamente nel territorio delle opinioni. Perché di elementi empirici ce ne sono, ma non sono tutto, dipende anche dal contesto in cui ci si trova: se la crescita di PIL fosse al di sotto del potenziale, praticamente tutti concordano nell’assegnare alla spesa pubblica moltiplicatori significativamente superiori a 1. Nel caso delle scadenze degli stimoli fiscali statunitensi mentre il Congressional Budget Office stima un impatto modesto (nel breve termine) derivante dagli aumenti di imposte e taglio di spesa aggregati alla voce “fiscal cliff” nella misura di uno 0,5% del PIL, all’Università di Berkeley hanno calcolato per molte voci -ed in tempi non sospetti- moltiplicatori prossimi a 3, che porterebbero quindi un calo del PIL statunitense con il fiscal cliff a regime, dell’8,2% (!!)

L’esperienza dei precursori europei, che la cura dell’austerity l’hanno dovuta avviare prima, non pare molto incoraggiante: si è partiti con una dialettica di expansionary austerity che pochi di voi ricorderanno (teoria secondo cui il beneficio derivante dal risanamento avrebbe compensato le ricadute negative di PIL derivanti dai tagli) per arrivare oggi alle dichiarazioni di estensione dei tempi di Olli Rehn, a cui pochi avrebbero creduto solo qualche mese addietro…

Insomma occorre tener conto di molteplici aspetti, non ultimo il fatto che - a dispetto di ogni congettura sui moltiplicatori - nelle voci di spesa pubblica pesano parecchio le spese sociali come pensioni, sanità e sussidi di disoccupazione; considerando che l’invecchiamento della popolazione è destinato a far aumentare la spesa per pensioni e sanità, agire nella misura sbagliata potrebbe far lievitare anche il peso dei sussidi (si calcola che ogni punto di PIL perso provochi un aumento dello 0,7% del tasso di disoccupazione).

Dal Fondo Monetario Internazionale l’indicazione arriva piuttosto chiara: l’impatto sulla crescita di tagli alla spesa pubblica è più significativo di quello di aumenti delle tasse. In pratica il suggerimento è quello di rimettere in equilibrio il bilancio privilegiando gli aumenti di tasse alla riduzione di spesa. L’analisi, un working paper intitolato Fiscal Multipliers and state of the economy a firma di Anja Baum, Marcos Poplawski-Ribeiro e Anke Weber, calcola che per ogni dollaro di taglio nella spesa l’output negli Stati Uniti possa diminuire di 1,80 $. Viceversa un aumento dell’1% nelle entrate fiscali potrebbe limare la crescita solo dello 0,1%.

Basterà a convincere i Repubblicani più oltranzisti?

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