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Giorgio Bàrberi Squarotti, un ricordo

È morto, il nove aprile scorso, Giorgio Bàrberi Squarotti, "il celìcola", l'abitatore del Parnaso, come lo chiamò un po' malignamente Pasolini. In effetti, si tendeva a vedere in lui il tipico accademico lontano dal mondo, l'emblema del letterato fuori dal tempo e dalla storia. 

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Giorgio Barberi Squarotti
Il poeta e critico letterario Giorgio Barberi Squarotti nel suo studio.

E, forse, negli stessi ambienti accademici, non erano viste di buon occhio, in questi tempi di specialismo esasperato, spinto a volte fino alla reductio ad absurdum, la sua vastità di interessi, la sua operosità assidua, quasi prodigiosa, la sua capacità di abbracciare con straordinaria sintesi l'intero arco della letteratura italiana. E infastidiva, in certi ambienti, la sua tenace difesa dell'autonomia della letteratura da qualsiasi condizionamento ideologico, nella convinzione che, come diceva Vittorini, la politica appartenga alla cronaca, la cultura alla storia.

Questo ha fatto dimenticare (e lo stesso vale per un altro insigne cattedratico, Silvio Ramat) che Bàrberi Squarotti fu soprattutto un poeta, forse uno dei più significativi degli ultimi decenni (basterebbe, a renderlo tale, una raccolta come Le vane nevi), guardato con sufficienza, o semplicemente passato sotto silenzio, da chi non l'ha letto.

Forse non si crede più, come in passato, che anche l'erudizione, al pari dell'ispirazione, e la coscienza culturale al pari dell'illuminazione innata e prodigiosa, possano alimentare la creazione poetica.
Nel caso di Bàrberi Squarotti, una stessa idea stava alla base tanto del discorso critico, quanto dei versi: quella dell'assoluta autonomia della letteratura, della sua cristallina e adamantina aseità che ne fa madre, figlia e specchio di se stessa, un prodigioso organismo che perdura e si rinnova nei millenni, che risorge ciclicamente dalle proprie ceneri, e rivive in forme diverse di generazione in generazione, di stagione in stagione.

Fu quest'idea, del resto, alla radice di molte delle sue interpretazioni critiche più felici, ad esempio quella della poesia dannunziana come "poesia della poesia", poesia che parla di se stessa, che riflette su se stessa nel momento del suo farsi e che, in pari tempo, si nutre, proprio per questo, di tutta la poesia che l'ha preceduta; ma che è, nel contempo, costantemente insidiata dall'ombra del nulla, dall'insidia dell'annientamento, tanto che ogni oggetto di bellezza, ogni thing of beauty diceva Keats, devono essere salvati, difesi, cristallizzati nella cesellatura maniacale e capziosa del verso e della pagina (anche a costo dei famigerati “plagi”) proprio un attimo prima che, nel costante e inesorabile impoverimento del gusto, della memoria e del linguaggio, svaniscano per sempre, siano per sempre annientati da una volgarità iconoclasta e spietata.  

Ma egli sentì e soffrì anche i limiti, anche le angustie di questa letteratura, di questa poesia gelide, nude (sono ninfe improvvise e luminose, insensate e spaurite ad attraversare, ossessivamente, i suoi versi, a specchiarsi in acque limpide e algide e a svanire nuovamente in verdi e buie selve), sempre insidiate dagli orrori e dai paradossi della storia (emblematiche, in proposito, nel suo lavoro di critico, le riflessioni su Manzoni, sfiduciato, infine, circa la capacità della finzione, dell'invenzione letterarie di comprendere il reale) e dalle ambigue contaminazioni dell'ideologia.

È quasi banale, ora che il suo viaggio terreno si è concluso, vedere, secondo tradizione, in quella nudità pura e indifesa un'epifania dell'anima corpore soluta, spogliata e liberata dalla carne e dal tempo. Ma si può sperare che, finalmente, spentisi, come solitamente accade, invidie, rancori, malignità, preconcetti, Bàrberi Squarotti possa finalmente essere riconosciuto e ricordato per quel poeta, di valore imponente e di notevole coerenza stilistica, che prima di ogni cosa volle essere.

Un solo esempio, che mostra ̶ nella levità trascolorante delle immagini, nelle sottilissime modulazioni dell'endecasillabo, ora alterato dall'interno con accentuazioni, cesure e spezzature inconsuete e sospese, ora travalicato da efficaci inarcature, nella finezza, infine, della tramatura fonica, bilanciata fra la durezza, l'incisività, le esplosioni improvvise che segnano l'attimo dell'epifania e le sonorità più pacate e morbide che sostengono la continuità della durata, delle presenze e dei nomi che perdurano, purificati ed eternati dalla lontananza della memoria ̶ la sapienza cesellata, quasi neoclassica o parnassiana, di questa Musa. 

 

Nello specchio chi apparve su dall’ombra
malinconica e vuota, appena un poco
animata da fluttuanti echi e occhi
assorti? Forse un soffio mite, un fiocco


di melo nevicato, il giglio subito
divaricato, il più alto candore
e illuminatamente acceso di vergine
nuda. Tutto era immobile, si sa
che nel vetro perfetto non esiste
il tempo, ma le presenze vitali
lì durano, ed è la gioia trepida
di poterle ammirare quanto dura
il proprio nome.

 

Forse, dicevo, un giorno sarà riconosciuta la grandezza di poeta che fu propria di Squarotti, e che fino ad ora raramente è stata compresa, forse perché il critico ha fatto ombra al poeta, o forse per il timore di apparire troppo elogiativi nei confronti di un'autorità riconosciuta e potente del mondo letterario e accademico: se per grandezza, a proposito di un poeta, come di un filosofo, intendiamo la capacità di creare, di costruire, di intrecciare, con un lavorio di anni, assiduo, cangiante e insieme profondamente coerente, un linguaggio, un sistema semantico, un vasto ingranaggio di segni, di spie, di simboli, di emblemi, una coesa mappa della realtà e del pensiero che rinvii all'altro da sé e nel contempo a se stessa, traendo luce e conferma dall'uno e dall'altro di questi due movimenti ermeneutici.

E si potranno, allora, vedere anche nella sua opera di critico (che pure non si abbandonò mai al soggettivismo interpretativo, né mai d'altro canto si sottomise alle sirene dell'ideologia) lo stesso nucleo, la stessa motivazione e le stesse ansietà che alimentavano il suo lavoro di poeta: in lui che, dicevo, volle forse essere soprattutto un poeta, e che, paradossalmente, nonostante la sua centralità, la sua monumentale autorevolezza di critico letterario, visse (da “poeta della letterarietà”, come fu definito, raffinatissimo, e a tratti volutamente distante e algido, poeta doctus) una condizione di sostanziale marginalità, ma, proprio per questo, di autonomia.

Basta riprendere in mano Astrazione e realtà, uscito nel 1960 nei prestigiosi «Quaderni del Verri» diretti da Luciano Anceschi, per trovare, in certe formule e in certe definizioni che hanno, quasi, la stessa incisiva precisione, la stessa nettezza adamantina, di un verso (le “vicende riprese dal fondo dei secoli”, lo “schermo nobilitante”, la “nobile dignità separata e superiore”, l'”astrazione purificata”, di Carducci; il “tempo morto e muto”, l'”oscura inquietudine”, “l'aura dell'inaridimento e della morte”, la “vitalità negata”, di Gozzano – a proposito del quale anche Sanguineti parlerà di “lingua morta del tempo morto” –; “lo speculum e l'aenigma”, in Ungaretti, “della parola purificata”, “vicina alla luce d'immenso”, “ormai non più terrena tanto è purificata e limpida”), un'intrinseca, anche se filtrata, mediata, in qualche modo schermata, poeticità, ossia una tensione e una forza creatrici, una duratura testimonianza esistenziale e intellettuale, che il rigore e lo specialismo (che pure in Barberi Squarotti non fu mai tecnicismo fine a se stesso) riescono solo in parte a velare, non essendone, in fondo (per riprendere un'altra immagine cara allo Squarotti poeta, quella dell'erma), che l'altra faccia, il lato d'ombra o di luce.  

Matteo Veronesi

 

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