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Giappone, l’esperimento scricchiola

Come riferisce il Financial Times, pare che i giapponesi comincino a manifestare una qualche impazienza nei confronti del sin qui assai popolare premier, Shinzo Abe. I motivi sono sempre quelli che vi diciamo da tempo, ma vale la pena ripeterli per verificare a che punto siamo nella transizione giapponese verso l’ignoto.

Con cadenza pressoché settimanale la stampa specializzata internazionale tasta in modo vieppiù paranoide il polso dell’inflazione nipponica, in quella che sembra diventata un’allucinazione planetaria. Ecco, siamo al 3,4%, record! Anche l’inflazione core, al netto di alimentari freschi, imposte ed energia, è salita; anzi no è scesa di un decimo di punto, allarme! Avendo preso alla lettera il target governativo e della Bank of Japan di un’inflazione al 2% entro il prossimo anno, ma avendo brutalmente rimosso che tale fiammata inflazionistica è tutto fuorché “benigna”, cioè generata da crescita economica.

Molto più banalmente, tutto si riconduce al furioso deprezzamento dello yen dello scorso anno, che ha reso le importazioni molto più costose. Soprattutto quelle energetiche, visto che il paese ha spento tutti i reattori nucleari, nel post-Fukushima. Questo aumento di inflazione importata, da costi, si somma all’aumento dell’imposta sulle vendite, salita dal 5 all’8%, che è alla base del mini boom dell’economia giapponese nel primo trimestre, e che sarà restituito nel secondo. Di più: l’export giapponese non si muove più di tanto, malgrado il deprezzamento (nominale e reale) dello yen, perché la filiera produttiva giapponese produce fuori dal paese in modo rilevante, ed al momento non si parla (né si parlerà, per tanti motivi) di riportare in patria parti della catena del valore.

Il combinato disposto di questa situazione è presto detto: niente spinta alla crescita da parte dell’export; grandi profitti ma pressoché esclusivamente una tantum per le grandi imprese giapponesi, visto che non è che ogni anno si possa svalutare il cambio del 20%; continua erosione del potere d’acquisto per i consumatori giapponesi: sia per i numerosi pensionati (di un paese tra i più anziani al mondo, memento) che per i lavoratori. In questo secondo caso, inoltre, bisogna segnalare che il numero di quanti sono insider, cioè lavorano in grandi imprese, che offrono loro protezione occupazionale sostanziale, oltre che bonus semestrali, è in costante calo rispetto alla fascia di occupazione precarizzata, che di tali benefici non gode.

Tutto ciò significa che il Giappone ha in corso una transizione non è chiaro verso cosa né dove. Ovviamente, questo non significa che, nel breve periodo, non ci possano essere risultati positivi del mercato azionario. Aiutati magari dal cambiamento di allocazione di portafoglio del gigantesco fondo pensione nazionale da obbligazioni ad azioni. Chi poi si comprerà titoli di stato che hanno rendimento reale sempre più negativo resta un mistero. O forse no, visto che la Bank of Japan prosegue nella sua azione di aumento della base monetaria. Il rischio è che, finito l’effetto-confronto, si torni alla solita deflazione made in Japan ed i rendimenti reali riprendano a salire. Ma resta il problema di lungo periodo di come finanziare uno stock di debito, che è ormai al 250% di Pil, in presenza di popolazione calante.

Tutto ciò non succederà domattina, ovviamente. Magari il paese si aprirà improvvisamente all’immigrazione, lasciandosi alle spalle millenni di nazionalismo insulare. Oppure ci sarà uno scoppio di natalità tra le giapponesi, chissà. Ma è opportuno tenere gli occhi sul Giappone, un gigantesco esperimento (sociale prima che economico) che potrebbe finire molto male.

JapanWages

 

Foto: Ben Houdijk/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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