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Genocidio. Negazionismi e sottotappetismi

Durante gli ultimi anni dell’Impero Ottomano, e in concomitanza con l’avvio del primo conflitto mondiale, oltre un milione di armeni d’Anatolia vennero sterminati dal governo cosiddetto dei “Giovani Turchi”, e con essi anche circa mezzo milione di assiri e un numero imprecisato, ma certamente a sette cifre, di greci del Ponto.

La Repubblica di Armenia, il cui territorio non fu comunque direttamente interessato dagli eventi essendo all’epoca sotto dominio russo, commemora l’inizio di quel massacro giunto quest’anno al suo centenario nella sua festa nazionale che cade il 24 aprile, giusto un giorno prima della data in cui noi italiani celebriamo la liberazione dal nazifascismo.

armeni

Le caratteristiche del genocidio sono evidenti e supportate da testimonianze anche fotografiche. Le vittime erano in larga parte civili inermi la cui unica colpa era quella di far parte di una delleminoranze etniche residenti nei territori anatolici, sterminate dal gruppo dominante e governante in una campagna di vera e propria pulizia etnica. A ciò va aggiunto che tutte e tre le minoranze perseguitate praticavano in larga maggioranza un culto cristiano, mentre i turchi sono notoriamente di religione prevalentemente musulmana. Il genocidio armeno in particolare è stato riconosciuto ufficialmente come tale da 21 stati e dall’Ue, sulla base della definizione di genocidio fatta propria dall’Onu nel 1948 che comprende atti “commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Altre nazioni si apprestano a unirsi nel riconoscimento di genocidio a cominciare dalla Germania. Ciononostante la Turchia ha sempre negato che si fosse trattato di un genocidio ma piuttosto di vittime di una guerra civile.

La vicenda ha interessato le cronache recenti in seguito alle parole pronunciate dal papa a proposito del centenario dall’inizio dei massacri. Parole che hanno immediatamente suscitato il risentimento del governo turco, con tanto di richiamo del suo ambasciatore presso la Santa Sede, e che hanno innescato un domino di dichiarazioni e prese di posizione. A prevalere sembra però essere stata più la ricerca del compromesso politico che quella della verità, visto che né l’Onu né gli Usa hanno voluto riconoscere quei fatti come genocidio. Piuttosto che prendere atto di un crimine si è preferito ancora una volta nascondere la polvere sotto il tappeto, nonostante si parli di fatti vecchi di un secolo. Sembra proprio aver ragione Erdogan laddove dice che “quando i politici e i religiosi si fanno carico del lavoro degli storici non dicono delle verità, ma stupidaggini”, ma non esattamente nel senso in cui lo intende lui. Anche perché in Turchia definire genocidio quei fatti non viene considerata una stupidaggine ma equivale a vilipendere l’identità nazionale, col rischio di subire una condanna che può arrivare fino a due anni di reclusione.

Purtroppo è spesso la verità orientata politicamente e religiosamente a prevalere su quella storica. Numerosi fattori determinano non solo la mera presa d’atto di fatti documentati ma anche l’enfasi con cui questi vengono dibattuti, e tra questi fattori vi è l’autorevolezza politica di chi si è macchiato del crimine e l’appartenenza religiosa di vittime e carnefici. Nel caso dell’Olocausto, ad esempio, è tanta e tale la convergenza di opinioni nel mondo occidentale che alcuni stati hanno perfino assurdamente istituito a proposito il reato o l’aggravante di negazionismo, o si accingono a farlo come l’Italia, ma parliamo di un evento di grandi proporzioni messo in atto da un’ideologia praticamente scomparsa. È stata perfino istituita più che giustamente un’apposita ricorrenza internazionale, il “Giorno della Memoria”. Gli altri genocidi stanno invece per comodità in soffitta, a cominciare dai ben più catastrofici stermini di massa operati nel contesto colonialista che ha interessato il continente americano e quello africano. Forse perché in quel caso quasi non ci sono nemmeno i discendenti dei popoli da ricordare, più probabilmente perché le insegne degli oppressori recavano delle croci.

Ma non è nemmeno necessario andare così indietro nel tempo, ci sono esempi di genocidi ben più recenti e tuttavia citati a malapena dai libri di storia. Si pensi al massacro dei Tutsi in Ruanda a opera dei cristiani Hutu e con il coinvolgimento diretto di numerosi esponenti ecclesiastici, di quella stessa Chiesa che oggi punta giustamente il dito contro il genocidio degli armeni. Ma in quel caso le parti erano invertite. Si pensi alla recente pulizia etnica in Bosnia volta all’eliminazione dei musulmani bosniaci. Tutti questi crimini non possono essere derubricati a guerra civile perché i criminali non erano dei gruppi armati ma erano il governo del territorio. Non che questi crimini siano negati, intendiamoci, ma non sembrano affrontati con sufficiente onestà e nemmeno ricordati in modo adeguato.

In tutti i casi ci sono stati popoli che hanno ritenuto giusto uccidere altri popoli, come se questi non fossero composti di esseri umani come loro, e che oggi fanno il possibile per offuscare il ricordo di quelle tragedie. Gente a cui viene insegnato a odiare altra gente adducendo pretesti che a rigor di logica dovrebbero essere respinti. Ma del resto l’odio non è logico, è viscerale. Ed è spesso culturale. O quantomeno lo si potrebbe vincere ricorrendo alla cultura, all’educazione, e invece si sceglie di promuoverlo proprio attraverso la cultura. Lo spiegano bene le parole che lo sceneggiatore Chris Gerolmo ha fatto pronunciare alla moglie del vice sceriffo Pell, membro del KKK, nel film Mississippi Burning di Alan Parker:

L’odio non è una cosa con cui nasci. Ti viene insegnato. A scuola ti dicono che la segregazione è quello che dice la Bibbia. Genesi 9… versetto 27. Quando arrivi a sei anni te l’hanno detto tante volte che arrivi a crederci. Credi nell’odio. Lo vivi. Lo respiri. Lo sposi, persino.

Massimo Maiurana

Questo articolo è stato pubblicato qui

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