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Funerali di Placido Rizzotto: il vescovo non ha il coraggio di pronunciare la parola Mafia

 

Peccato. Mi è rimasto l’amaro in bocca. Non credo che Placido Rizzotto sarebbe rimasto contento di vedersi benedire da morto da un vescovo che non ha pronunciato mai la parola mafia nella sua omelia. O che ha storpiato il suo nome in quello, inesistente per la circostanza, di Rizzuto. Lui che era un socialista, ammazzato dalla mafia come gli altri suoi compagni socialisti, alla vigilia – possiamo dire – delle elezioni politiche del 1948, sarebbe stato invece contento di sentire pronunciare i nomi di Calogero Cangelosi ed Epifanio Li Puma, sindacalisti di Camporeale e di Petralia Soprana, ammazzati da Vanni Sacco e dalla mafia madonita.

E sarebbe stato felice di costatare che il suo non era un riconoscimento privato, ma un atto dovuto a tutti quei sindacalisti assassinati prima e dopo di lui. Per lo sviluppo, per la libertà, per una Italia senza malandrini, senza mafiosi e mascalzoni.

Peccato. Perché quello che doveva essere un evento di Stato, laico e riparatore, è stato una cerimonia quasi privata, con scarsi riferimenti a ciò che rappresentò Cosa Nostra in quegli anni di piombo e di terrorismo, quando si tentò di bloccare la democrazia con la decapitazione del movimento contadino, e quando lo Stato complice si liberava persino dalla fatica di portare a conclusione i processi per condannare i colpevoli delle stragi e delle uccisioni, lasciando le famiglie dei sindacalisti in balia di se stesse.

Lo Stato si è macchiato di colpe imperdonabili per i processi mai istruiti, per quelli mai conclusi, per tutte le assoluzioni dovute a insufficienza di prove, per non avere mai individuato i mandanti di stragi e delitti necessari a imprimere una svolta reazionaria ed eversiva al governo della cosa pubblica. Ma anche per non avere scritto mai, nè in Parlamento, nè negli atti del governo, nè in quelli della magistratura una sola riga volta a riparare il colpo inferto alla democrazia negli anni della ricostruzione. Perciò nessuno pensi di avere chiuso ogni discussione su queste responsabilità con una messa solenne. Tanto più che i nomi dei veri responsabili delle stragi e degli assassini di quegli anni, sono ancora sconosciuti.

E’ vero. Lo Stato consegna oggi una tomba ai familiari di Placido Rizzotto. Anche se senza corpo, quasi vuota, è simbolicamente ricca di senso, dopo che tutta la corporeità di un uomo senza vita è stata seppellita per sempre dalla mafia, da quanti avevano già in partenza stabilito che nulla doveva rimanere di chi aveva combattuto fino in fondo una lotta senza quartiere contro i padrini di Corleone, i colletti bianchi al contempo mafiosi e uomini di Stato, criminali infiltrati nelle sue istituzioni, vermi della Repubblica nascente.

Ma ci sarà per sempre una tomba, un posto in cui deporre un fiore, cantare un inno, magari quello che ancora non si è intonato come se fosse un’offesa al pudore, dire una parola parlando a un ideale, ad un’altra entità, superiore, a un mito.

Oggi, si è deciso di chiudere un lungo capitolo durato sessantaquattro anni. Un tempo interminabile che non ha ancora reso giustizia e che non può concludersi come se la storia tramontasse dentro una vicenda familiare e non segnasse una realtà più vasta: le lotte per il pane e il lavoro, per la giustizia e per la libertà, perché l’Italia fosse quella Repubblica per la quale molti sindacalisti e uomini politici di allora si sono battuti. Oggi c’è stato il trionfo del clericalismo sulla laicità dello Stato. Nessun inno dei lavoratori. Sarebbe stata una diavoleria. Quando l’ipocrisia trionfa sulla verità non c’è speranza di giustizia. “Eterno dubbio sulla storia – direbbe Bufalino - : è un boia dai cento occhi o una sonnambula cieca?”. Vogliamo sperare che non sia nè l’uno, nè l’altra.

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