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Finlandia | Le elezioni e il loro ambiguo (ma non troppo) messaggio

Le elezioni finlandesi del 14 aprile hanno inaugurato, ufficiosamente, la lunga fase che si concluderà, dopo la tappa ben più cruciale delle elezioni in Spagna il 28 aprile, con le elezioni europee di maggio: la “resa dei conti”, secondo alcuni, fra “sovranisti” ed “europeisti”. 
di Cristiano Dan

Il loro esito, che si presta, come vedremo, a diverse e contrastanti “letture”, è stato ben presto archiviato dalla grande stampa, in parte perché offuscato da altri e drammatici avvenimenti (l’incendio di Nôtre-Dame, la guerra in Libia…), ma in parte anche perché piuttosto imbarazzante per chi sposa senza se e senza ma la causa “europeista”.

In effetti, il governo che è uscito letteralmente a pezzi dalle elezioni finlandesi era un governo rigorosamente “europeista”, che per quattro anni consecutivi aveva diligentemente somministrato ai suoi cittadini le ricette “austeritarie” suggerite da Bruxelles, con il risultato di un quadro macroeconomico giudicato soddisfacente, ma con un progressivo e sensibile peggioramento – severi tagli per far quadrare i bilanci – del tenore di vita della popolazione. La prospettiva di nuovi tagli, soprattutto nei settori dell’istruzione, dell’assistenza (compreso il congelamento delle pensioni) e della sanità, con la ventilata minaccia di privatizzare alcune attività (per esempio, l’assistenza agli anziani, in un Paese in cui un quinto della popolazione ha più di 65 anni) è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, e a nulla sono servite alcune frettolose retromarce governative.

«Vincono i socialdemocratici, ma…»

I primi commenti, e spesso gli unici, comparsi sulla stampa italiana hanno assegnato la vittoria ai socialdemocratici, pur sottolineandone l’esilità e la precarietà. Tecnicamente parlando, e con un occhio più al gergo sportivo che a quello politico, è vero: i socialdemocratici sono il primo partito con il 17,7 %, tallonati dall’estrema destra dei Veri finlandesi al 17,5 % (e con solo 6800 voti in meno) e dal KOK, un partito democristiano di centrodestra, al 17 % tondo. Ma sono primi non grazie a una loro travolgente avanzata, che non c’è stata (guadagnano l’1,2 %, che non è poco ma è ben al di sotto delle loro aspettative), ma a causa del crollo del partito di centro (dal 21,1 al 13,8 %) e ai lievi arretramenti percentuali dei Veri finlandesi (meno 0,2 %: erano appunto anche loro al 17,7) e del KOK (meno 1,2 %). Questo va detto non per sminuire il risultato dei socialdemocratici, ma per ricollocarlo nelle sue giuste dimensioni: c’è stato un progresso, sì, ma decisamente inferiore, per esempio, a quello dei Verdi (più 3,0 %) e di poco superiore a quello dell’Alleanza di sinistra (più 1,0 %), che dalla grande stampa sono stati relegati nei titoli di coda o del tutto ignorati. Inoltre, va anche aggiunto che sino all’ultimo in una circoscrizione un seggio è stato in bilico fra i socialdemocratici e i Veri finlandesi, ed è stato assegnato ai primi solo grazie a una manciata di voti (320, per la precisione). Se ciò non fosse avvenuto, ora ci ritroveremmo con i Veri finlandesi come primo partito in numero di seggi (40 contro i 39 socialdemocratici), e con titoli e commenti della stampa di ben diverso tenore…

La sottolineatura della vittoria socialdemocratica è stata comunque di solito accompagnata da un “ma”, che si riferiva al fatto che l’estrema destra non solo non arretrava se non in termini trascurabili (meno 0,2 %, come s’è detto), ma che per molti aspetti si dimostrava in piena ripresa. Ed è questo fatto che deve aver spinto molti quotidiani “europeisti” a lasciar perdere la Finlandia e a parlare d’altro. Ed è sempre questo fatto che invece ci convince a tentare un’analisi meno superficiale di queste elezioni, perché, al di là degli inevitabili fattori squisitamente locali, qualche insegnamento e qualche conferma se ne possono ricavare.

Un abbozzo di analisi

In un Paese di cinque milioni e mezzo di abitanti, e in cui va a votare poco più del 70 % degli aventi diritto (c’è comunque stata una lieve diminuzione dell’astensione) i guadagni o le perdite di un partito possono apparire, ai nostri occhi italiani, ingannevoli. Quando si legge, dunque, che i partiti di governo perdono nel loro complesso, come è effettivamente avvenuto, circa 200.000 voti (arrotondiamo le cifre, per semplicità), si deve tener conto che essi equivalgono grosso modo a 2.000.000 di voti in Italia. Non proprio una bazzecola. Dove vanno questi 200.000 voti? Apparentemente (e vedremo dopo perché “apparentemente”) vanno in gran parte ai partiti che costituiscono l’opposizione di sinistra/centrosinistra (che complessivamente aumentano appunto di 200.000 voti). Si deve tener conto del fatto, però, che i votanti sono stati 100.000 in più, e che almeno la metà di questi ha scelto uno dei partiti dell’opposizione di sinistra. Restano dunque 100.000 voti, che si distribuiscono fra un paio di altri partiti moderati che non facevano parte della coalizione governativa, fra alcune liste minori di vario orientamento e, in misura trascurabile, fra le liste di estrema destra.

Da questa prima schematica panoramica, che si basa su calcoli puramente aritmetici (una analisi dei flussi elettorali è al di là delle nostre possibilità) sembrerebbe dunque che si possano ricavare le seguenti conclusioni: a) in Finlandia vi è stato un sensibile spostamento a sinistra dell’elettorato; b) il governo “europeista” è stato sconfitto; c) l’estrema destra è rimasta al palo. Ma, come vedremo, se a) e b) sono veri, c) non lo è affatto, nonostante le apparenze.

Il crollo del governo di centro-destra

Il governo finlandese uscente era formato da tre partiti: il Centro di Finlandia (KESK, Suomen Keskusta), il Partito della coalizione nazionale (KOK, Kansallinen Kokoomus) e il Sininen tulevaisuus (SIN), tradotto a volte come Futuro blu, altre come Riforma blu. Il KESK è un partito centrista fondato nel lontanissimo 1908 come espressione del mondo contadino, rurale, che oggi si definisce “liberale” ma che continua a rappresentare più l’elettorato delle province più arretrate che quello dei nuclei urbani. Il KOK, di poco più “giovane” (è stato fondato nel 1918) è un partito di tipo democristiano, espressione all’origine della borghesia urbana, e oggi più conservatore del KESK. Il SIN, infine, è un partito nuovo di zecca, che merita qualche spiegazione in più.

A seguito delle elezioni precedenti, quelle del 2015, si era infatti formato un governo tripartito che oltre al KESK e al KOK, comprendeva l’estrema destra dei Veri finlandesi, allora, va detto, su posizioni meno oltranziste. Come si vede, solo pochi anni fa, almeno in Finlandia, le forze “europeiste” non credevano affatto alla necessità di formare “cordoni sanitari” per fermare l’estrema destra, ma ritenevano di poterla addomesticare inserendola nei gironi del potere, e di fatto “sdoganandola”, rendendola presentabile. Nel 2017, però, il controllo del partito dei Veri finlandesi è stato assunto dalla sua ala più estremista, capeggiata da un intelligente e cinico razzista, Jussi Halla-aho, e ne è seguita una scissione: una ventina dei 39 deputati, con alla testa il fondatore del partito, Timo Soini, è rimasta nella coalizione governativa, dando vita a una nuova formazione, il SIN appunto; l’altra metà è passata all’opposizione.

Le elezioni del 14 aprile hanno massacrato questa compagine governativa. KESK, il Centro, che esprimeva il presidente del Consiglio, Juha Sipillä, ed è stato considerato come il principale responsabile delle politiche dei tagli, ha subito un vero e proprio salasso: perde da solo oltre 200.000 voti, quasi un terzo di quelli che aveva nel 2015, crolla dal 21,1 al 13,8 % (meno 7,3 %) e scende dai 49 seggi che aveva a 31 (meno 18). Una sconfitta spettacolare, soprattutto in Finlandia dove si è da sempre abituati a variazioni di modesta entità: per trovare un risultato peggiore occorre infatti risalire a un 12,4 % ottenuto nel … 1917, quando questo partito muoveva i suoi primi passi. Cosa ancora più grave, si tratta di un crollo strutturale, che colpisce il KESK proprio nelle province di suo più antico e forte radicamento (due solo esempi: nelle circoscrizioni di Oulu e della Lapponia, dove rasentava il 43 %, perde rispettivamente il 12,4 e il 13,7 %). Si potrebbe pensare che il KESK sia arrivato al suo stadio terminale, se non fosse che in un sistema politico in cui nessun partito arriva ora al 18 % dei voti è evidente che qualche spazio di manovra è ancora a sua disposizione.

Il disastro del KESK ha rappresentato l’ancora di salvezza per il Partito della conciliazione nazionale, il KOK, presso il quale ha trovato rifugio quella parte dell’elettorato centrista in fuga dal KESK, ma non disposto a passare all’estrema destra e, tanto meno, a sinistra. Una boccata d’ossigeno, che gli ha permesso di ridurre i danni: meno 17.000 voti, meno l’1,2 % (era al 18,2 %) e, soprattutto, un seggio in più rispetto ai 37 che aveva, ottenuto grazie ai particolari meccanismi del sistema elettorale. Anche il KOK dunque non se la passa bene (è il suo peggior risultato dal 1966), ma riesce a contenere i danni: in alcune circoscrizioni arretra assieme al KESK, in altre recupera qualcosa a spese di quest’ultimo, anche se il saldo finale è negativo. Resta il fatto che rimane comunque il terzo partito del Paese, a poca distanza dei primi due. E pertanto ancora in gioco, anche se malconcio.

A chi è andata decisamente peggio è il SIN. Forte di una ventina di parlamentari e alla sua prima prova elettorale, non arriva a raggranellare nemmeno 30.000 voti (1.500 per parlamentare…) e si ferma all’1 %, non conquistando ovviamente alcun seggio e ponendo probabilmente una pietra tombale sulla sua brevissima avventura.

Tirando le somme, la coalizione governativa perde 190.000 voti, il 7,5 % e 17 seggi (che però salirebbero a 36-37 se si tenesse conto anche di quelli di cui disponeva il SIN).

La stagnazione dell’esercito di riserva governativo

Al di fuori della coalizione governativa, ma del tutto interni al “campo moderato” e pertanto non lontani quanto a programmi dal tripartito di governo, vi sono due partiti sui quali occorre spendere qualche parola. Il più piccolo di questi, quello dei Cristiano-democratici di Finlandia (KD, SuomenKristillisdemokraatit), è una formazione democristiana di destra dalle posizioni non troppo distanti, su certi temi, da quelle dei Veri finlandesi (e non a caso in una circoscrizione era alleato con loro). I KD avevano 105.000 voti nel 2015 e salgono ora a 120.000, passando dal 3,5 al 3,9 %, senza però aggiungere seggi ai cinque che già possedevano. Sembra evidente che presso di loro abbia trovato asilo un’altra porzione dei voti persi dai centristi e dal KOK.

Più interessante il caso del Partito popolare svedese in Finlandia (SFP, Svenska folkpartiet i Finland), il partito di raccolta della minoranza dei finlandesi di lingua svedese (circa il 5 % della popolazione, concentrata soprattutto nella circoscrizione di Vaasa). Si tratta di un partito centrista, che ora si autocolloca fra i liberali e che aveva fatto un particolare sforzo in queste elezioni, presentando più liste del solito, nella certezza di raccogliere parte dei consensi in fuga dai partiti governativi. Inoltre, è l’unico fra i principali partiti “moderati” nettamente ostile a qualunque accordo con i Veri finlandesi, il cui ultranazionalismo non può ovviamente risultare gradito a una fetta della popolazione che da un momento all’altro potrebbe sentirsi dire di non essere “veri finlandesi” (ciò che già avviene per i lapponi [a rigore, i più vecchi “finlandesi” di tutti], per non parlare dei rom e degli immigrati). Ma non è andata come il SFP sperava. La componente di lingua svedese della popolazione finlandese è in lento ma costante declino, e questo non poteva non riflettersi anche sul piano elettorale: i 145.000 voti del 2015 scendono a 139.000, la percentuale al 4,5 % dal precedente 4,9 %, e i seggi restano 9 (cui va aggiunto l’unico assegnato all’arcipelago delle Aland, di lingua svedese e dotato di autonomia, e che da sempre è appannaggio di una coalizione di partiti locali affini al SFP).

Si può infine accennare a un terzo partito, o meglio un movimento, il Movimento Ora (Liike Nyt), d’orientamento liberista e nato da una miniscissione del KOK, che a sorpresa, con 69.000 voti e il 2,3 %, conquista un seggio. Mentre con qualche riga – e solo per fare un favore a Di Maio – ricorderemo che “correva” anche un certo Seitsemän tähden liike (11.000 voti e 0,4 %), la cui fonte di ispirazione, apertamente rivendicata, risulterà evidente dalla traduzione italiana della sua denominazione: Movimento sette stelle…

Come è andata a sinistra

Abbiamo visto come siano circa 200.000 i voti, fra quelli dei nuovi elettori e fra quelli che abbandonano il campo governativo, che si riversano sui partiti di opposizione di sinistra e di centrosinistra. Ma come si distribuiscono?

Qui l’apparente vincitore, il partito arrivato “primo”, il Partito socialdemocratico di Finlandia (SDP, Suomen Sosialidemokraattinen Puolue) non si ritaglia affatto - come sembrerebbe dai titoli della stampa - la parte più consistente del bottino. Dai 490.000 suffragi del 2015 arriva infatti un po’ oltre i 545.000 (più 55.000 voti), dal 16,5 % sale al 17,7 (più 1,2 %) e con 40 seggi ne conquista sei in più. Un risultato che si potrebbe ritenere soddisfacente solo se non si considerano alcuni fatti. Primo, tutta la campagna del SDP è stata condotta all’insegna del “voto utile”, nel senso che per forza già accumulata e per programma il SDP sarebbe stato l’unico partito in grado di offrire una valida alternativa sia al governo dell’austerità sia all’estrema destra: e di conseguenza le aspettative, apertamente ammesse, erano quelle di un risultato attorno al 20 % o addirittura superiore. Secondo, la percentuale ottenuta dai socialdemocratici rappresenta certo un progresso rispetto al 2015, ma resta pur sempre ancora lontana da quella del 2011 (19,1 %): in tutte le elezioni celebrate dal 1945 a oggi, a eccezione del 1962 e di quelle successive al 2011, il partito aveva sempre ottenuto risultati superiori al 20 %, con punte fino al 28 %. Terzo, i progressi del SDP sono non solo modesti, ma disomogenei quando si passa a esaminare la distribuzione territoriale del suo voto. E infatti, se in quasi tutte le circoscrizioni registra guadagni (fra l’1,1 e il 2,7 %), in una di quelle in cui era più forte, la Finlandia centrale, segna il passo con un meno 0,1 % e in un’altra, questa particolarmente significativa, quella della capitale Helsinki, dove già era debole (15,5 %), perde ben il 2,0 %, da mettere a confronto con i risultati qui ottenuti dai Verdi (più 4,7 %) e dell’Alleanza di sinistra (più 1,4 %). Possono sembrare dettagli di scarsa importanza, ma servono a chiarire tutta la difficoltà che incontra questo partito nello sbarazzarsi dell’eredità “austeritaria” di un recente passato e di proporsi come portatore di un vero e proprio mutamento.

Quanto detto risulterà più evidente esaminando l’andamento delle altre due forze d’opposizione “da sinistra”: i Verdi e l’Alleanza della sinistra.

La Lega verde (VIHR, Vihreä liitto) è in realtà l’unico partito che possa rivendicare una solida e consistente crescita. Con 354.000 voti ne guadagna ben 101.000 rispetto al 2015, con una percentuale che sale dall’8,5 all’11,5 % e con cinque parlamentari in più rispetto ai 15 che aveva. Le prime liste verdi erano comparse nel 1983 (1,47 % e due seggi) e da allora, trasformatesi in partito, non hanno fatto che crescere elezione dopo elezione, con solo un paio di ridotte flessioni di assestamento. Non mancano però i problemi. Il primo è quello della penetrazione nelle aree meno urbanizzate o prevalentemente rurali, dove i Verdi avanzano ma in proporzioni ridotte, senza paragone rispetto ai risultati dei grandi centri urbani (un solo esempio: nella circoscrizione di Helsinki la VIHR passa dal 18,8 % al 23,5 %, ed è il primo partito). Il secondo è la tentazione, sempre ricorrente nei Verdi, di ritenere obsoleta la distinzione destra/sinistra, arrivando a stipulare alleanze anche con partiti conservatori (sempre a Helsinki, è il caso dell’alleanza municipale con il KOK). Detto questo, resta il fatto che l’importanza della questione ambientale in Finlandia (se non al primo, al secondo o al terzo posto nelle preoccupazioni degli elettori) e lo scontro diretto su questo tema con i Veri finlandesi (che non arrivano a negare il problema ecologico, ma ritengono sia un problema che debbono risolvere anzitutto USA, Russia e Cina…) hanno favorito il VIHR e ne spiegano in gran parte il successo.

L’Alleanza di sinistra

L’Alleanza di sinistra (VAS, Vasemmistoliitto) esce bene da queste elezioni, con 251.000 voti (più 40.000), l’8,2 % (più 1 %) e 16 seggi (più 4). E resiste bene sia alle sirene del “voto utile”, sia all’attrazione esercitata dai Verdi soprattutto sull’elettorato giovanile. Ma anche qui non mancano i problemi. Oltre a una distribuzione territoriale del voto piuttosto disomogenea (si va dal 14,1 % della poco popolata Lapponia e dall’11,1 % dell’urbana Helsinki al 3,3 di Vaasa: ma comunque in tutte le circoscrizioni si registrano progressi), la VAS ha una certa difficoltà nel consolidare il proprio elettorato e nell’espanderlo. Fondata nel 1990, è in sostanza una “rifondazione” del Partito comunista finlandese, del quale ha ampiamente rinfrescato il programma (ecologismo, femminismo). Per tutti gli anni Novanta si stabilizza attorno al 10-11 %, per poi cominciare a cedere progressivamente terreno sino al 2015, quando tocca il punto più basso, il 7,1 %. Quella di quest’anno è quindi l’inversione di una tendenza quasi ventennale, e come tale va salutata. Sembra però che molte delle difficoltà del passato siano dipese, oltre che da vari altri fattori, da forti oscillazioni nel suo orientamento, con frequenti disponibilità ad alleanze del tutto contro natura. Per limitarci a un solo esempio, le elezioni del 2011 sono quelle che vedono i Veri finlandesi balzare di botto dal 4 al 19 %, e subito per isolarli si vara una “grande coalizione” di governo che comprende non solo i socialdemocratici e i verdi, ma anche i conservatori del KOK, i democristiani di destra del KD, il partito della minoranza svedese, ma anche la VAS, che si vede così “costretta” ad espellere due suoi parlamentari contrari all’accordo. Tempo un paio d’anni, ed è la stessa VAS che deve “autoespellersi” dalla coalizione per non ingoiare i tagli sociali che si apprestava a fare, mentre qualche mese dopo sono Verdi, che i tagli avevano digerito, che si “autoespellono” a loro volta per non votare a favore di … una nuova centrale nucleare. Inutile dire che il “cordone sanitario” così costruito attorno ai Veri finlandesi non li ha molto danneggiati, e anzi alla lunga ha finito col rafforzarli. Mentre la credibilità dei partiti di sinistra che avevano appoggiato provvedimenti antisociali non ha fatto che uscirne danneggiata.

Queste vicende un po’ squallide di un recente passato è bene evocarle non per rigirare il coltello in piaghe che si sperano già rimarginate, ma per comprendere meglio com’è stato possibile che si sia formato un blocco politico-sociale di estrema destra così resistente, tale che neanche il dimezzamento per scissione del suo gruppo parlamentare è riuscito a incrinare. E qui arriviamo ai Veri finlandesi.

Una Vandea finlandese

Il partito dei Veri finlandesi (PS, Perussuomalaiset) ha le sue lontane origini (1959) in un Partito dei piccoli proprietari che, dopo essersi ribattezzato Partito agrario, si “rifonda” nel 1995 con l’attuale denominazione. Alle sue origini troviamo quindi un partito “populista” (così veniva etichettato all’epoca), ma non in grado di organizzare che settori limitati di una protesta, perlopiù di carattere “rurale”, periferica. Dopo alcuni relativi successi nei primi anni Settanta (10 % dei voti), il partito inizia una vertiginosa parabola discendente: negli anni Novanta i Veri finlandesi veleggiano attorno all’1 % e nessuno sembra preoccuparsi di loro. È in questi anni però che la natura di questo partito comincia a cambiare, in sintonia con quanto sta già avvenendo in altre parti d’Europa. Dal generico e un po’ confuso “populismo” si passa abbastanza rapidamente alla costruzione di un nazionalismo finlandese che si prospetta non solo come difensore delle “sane tradizioni” del Paese (minacciate dal multiculturalismo, dal globalismo, dall’immigrazione), ma che, almeno nei primi tempi, è attento alla questione sociale, nel senso che fa propria la difesa del Welfare. E qui sta una delle ragioni del suo iniziale successo. Proprio negli anni nei quali la socialdemocrazia e i Verdi, in nome dell’“europeismo”, si piegano ai diktat di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale, i Veri finlandesi riescono a darsi un’immagine “sociale” che fa presa in molti settori di lavoratori che si sentono abbandonati dai partiti che tradizionalmente li rappresentavano. Come avviene per altri movimenti di estrema destra, infatti, la componente “operaia” dell’elettorato dei Veri finlandesi non è affatto trascurabile, è più o meno paragonabile alla componente “operaia” del SDP, ed è sicuramente più consistente di quella della VAS, per non dire dei Verdi.

Abbiamo visto come alla fine degli anni Novanta i Veri finlandesi stagnassero attorno all’1 %. Nel 2007 però risalgono al 4 %, e nel 2011 balzano al 19,1 %, per flettere leggermente nel 2015 (17,7 %) e attestarsi quest’anno al 17,5 %. Sembrerebbero, a prima vista, in lenta ma costante discesa, ma solo se ci si dimentica della spaccatura che hanno subito nel 2017, con la perdita di metà del gruppo parlamentare. La verità è dunque tutt’altra. Non solo hanno riassorbito una scissione che per altri sarebbe stata fatale, riconquistando praticamente tutta la loro base sociale, ma si dimostrano in netta ripresa. Solo nel dicembre 2018, quindi pochi mesi fa, erano stimati attorno all’8-9 %, per dirne una. E per dirne un’altra, se si confrontano i risultati da loro ottenuti con quelli delle municipali del 2017, si scopre che guadagnano 311.000 voti, rispetto ai 47.000 della socialdemocrazia o ai 33.000 dei Verdi. Infine, Jussi Halla-aho, il loro lugubre capo, che si presentava nella circoscrizione di Helsinki, viene eletto con oltre 30.000 preferenze individuali, risultando in questo senso l’uomo politico più “gettonato” (il “vincitore” delle elezioni, il leader socialdemocratico, ne ottiene 11.400).

A mo’ di provvisorie conclusioni

In conclusione, possiamo dire che sì, effettivamente le elezioni hanno visto la sconfitta del governo di centrodestra; che sì, le elezioni hanno registrato una significativa avanzata delle forze di sinistra e di centrosinistra; ma che no, le elezioni non hanno affatto visto una sconfitta dell’estrema destra e nemmeno una sua stagnazione, che è solo apparente. È infatti molto probabile che se le elezioni si fossero tenute fra due settimane, fra un mese, ora staremmo scrivendo tutta un’altra storia, interrogandoci sul perché e il percome i Veri finlandesi si trovano a essere il primo partito del Paese. Il fatto è che l’avanzata delle sinistre si spiega in parte con il voto dei giovani, in parte con lo spostamento a sinistra di una fetta dell’elettorato centrista, ma non si spiega affatto con la riconquista di parte di quei settori, anche e soprattutto popolari, che compongono il blocco politico-sociale edificato dai Veri finlandesi. E il perché ciò non avvenga dovrebbe essere chiaro: nessuno dei partiti di sinistra e di centrosinistra è “innocente”, o quanto meno tale appare a significativi settori della popolazione, che hanno subito tagli ora dal governo uscente di centrodestra, ma avevano subito tagli, prima, nel 2011, anche da parte del governo dell’ammucchiata nel quale partiti di sinistra e di centrosinistra s’erano irresponsabilmente infilati. L’“europeismo”, quando da vaga idealità e da stucchevole sentimentalismo si riduce e concretizza in “austerità” per chi sta in fondo alla scala sociale e in sfrenato arricchimento per i soliti noti, rischia di essere la “malattia senile” di una sinistra incapace ormai di comprendere la realtà in cui opera.

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