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Expo 2015 e democrazia diretta. Un guadagno imprevisto?

Se c’è qualcosa che accomuna la maggior parte dei governi – di destra, di sinistra, dittatoriali, democratici – è che fanno di tutto per trasferire il potere decisionale a istanze il più possibile protette dal controllo popolare e il più possibile antidemocratiche.

Che ci trovi favorevoli o contrari (vi lascio indovinare da quale parte mi schiero), l’Expo 2015 si farà. Facciamo almeno in modo che si trasformi in un’occasione per dimostrare che non permetteremo più che si maneggi alle nostre spalle, con i nostri soldi, con i nostri spazi, con la nostra salute, e dimostriamo una volta per tutte che i cittadini organizzati possono fare lo stesso lavoro di un comitato di politici e burocrati – e che possono farlo meglio.

Se c’è qualcosa che accomuna la maggior parte dei governi – di destra, di sinistra, dittatoriali, democratici – è che fanno di tutto per trasferire il potere decisionale a istanze il più possibile protette dal controllo popolare e il più possibile antidemocratiche.

Può trattarsi, nella migliore delle ipotesi, di fumose commissioni parlamentari che, senza alcun tipo di mandato specifico da parte dei cittadini, lavorano a porte chiuse e che, con l’appoggio delle maggioranze parlamentari – prodotti di calcoli matematici e quozienti elettorali – fanno approvare d’ufficio le loro decisioni.
 
Un altro tipo di barriera frapposta tra i comuni mortali e il potere decisionale è rappresentato dalle varie strutture interstatali (spacciate al grande pubblico come strutture internazionali). Senza sfociare negli estremi del G8, che di trasparente e democratico non ha assolutamente nulla (ma che nemmeno finge di esserlo), basti citare istituzioni come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale: due organismi finanziati con il denaro pubblico che svolgono un ruolo preponderante nel servire gli interessi dei grandi potentati economico-finanziari a discapito dell’interesse della stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Oppure gli accordi interstatali – quali per esempio Schegen – che (salvo qualche caso isolato, come quello della Svizzera) vengono elaborati, discussi e ratificati in ambienti totalmente al di fuori della conoscenza e del controllo popolare. Oppure si può anche notare come, tra i compiti impliciti dell’Unione Europea – che peraltro ha anche dei compiti espliciti talvolta molto utili – c’è senza dubbio anche quello di spostare il centro decisionale per determinate questioni al di là della portata della gente comune, che già fa una grande fatica a seguire gli intrallazzi dei governi comunali, regionali e nazionali.
Il motivo che spinge i governi a ricorrere a questi mezzi per allontanare i centri del potere dall’influenza dei diretti interessati – che, vale la pena ricordarlo, siamo noi – è semplice: in queste sedi di tratta di temi così importanti che l’interferenza dei “non addetti ai lavori” – che, vale la pena ricordarlo, nel gergo politichese siamo sempre noi, ovvero i diretti interessati – rischierebbe di mandare all’aria l’intero sistema economico sul quale si basa l’attuale ordine internazionale e, quel che è peggio, rischierebbe di dare l’impressione ai cittadini di avere voce in capitolo sulle questioni che li riguardano.
 
Cittadini che, peraltro, non sono così addormentati e manipolabili come si crede. Un esempio lampante (almeno secondo me) del fatto che le persone sono coscienti di questa deriva e non hanno intenzione di assecondarla è dato dalla ratifica della Costituzione Europea: in tutti i paesi nei quali il documento è stato sottoposto al vaglio del popolo, questo l’ha prontamente rifiutato. E, se ricordate le cronache dei grandi mezzi di informazione, la reazione dei principali intellettuali e politici è stata di additare la popolazione come ottusa e insensibile alle tematiche comunitarie. I commentatori più accondiscendenti si sono limitati a criticare aspramente l’Unione Europea e gli Stati membri, rei di non esser riusciti a inculcare un vero sentimento di appartenenza europea e di non aver esposto chiaramente i contenuti della Carta in esame.
 
Sorvolando sul vago sapore “anni ’20” dell’invito a inculcare il senso di appartenenza a una patria, credo che il motivo che ha spinto gli “europei” (o meglio, quegli europei che si trovano esclusi dai parlamenti e dai circoli intellettuali e che sono stati chiamati a pronunciarsi sull’Europa, cosa che a noi in Italia non è ovviamente stato concesso) a non sottoscrivere la Costituzione Europea sia stata la semplice constatazione che “ehi, io di questa cosa non ne avevo mai sentito parlare, non ho chiesto che fosse scritta e non so da chi è stata scritta. Non mi importa se è una cosa buona o cattiva, se avete lavorato alle mie spalle, io non la firmo”.
 
Ragionamento che, secondo me, porterebbe quasi tutte le leggi sfornate dai Parlamenti a finire nel cestino, se ci fosse un vero controllo popolare su quello che esce dalle Stanze del Potere (e assumendo l’ipotesi fallace secondo la quale sarebbero i Parlamenti a fare le leggi).
 
Sul terreno della critica al controllo popolare, però, i Manovratori hanno gioco facile: i cittadini non hanno le competenze necessarie per prendere certe decisioni, ma, specialmente, l’entusiasmo del popolo si esaurisce sulla lunga distanza: grande entusiasmo all’inizio, ma poi a prendere il sopravvento sarebbe il caos. Sarebbe comunque lecito chiedersi se siamo proprio sicuri che un Gasparri o un Frattini, come anche un Sarkozy o un Brown, siano in possesso di tali fantomatiche competenze. Ma la più pericolosa delle alienazioni di potere operate dallo Stato non è in favore delle organizzazioni internazionali o elle commissioni parlamentari sulle quali, in fondo, un seppur minimo (minimissimo) controllo popolare continua a esistere. È infatti l’appalto delle decisioni pubbliche nelle mani dei poteri economici a rappresentare il più grande rischio per la democrazia e la trasparenza: quando vengo a sapere che il complesso sistema di smaltimento dei rifiuti, la ricostruzione delle zone terremotate, persino la distribuzione dell’acqua (dell’acqua, dell’acqua!) sono nelle mani di aziende private, non posso fare a meno di chiedermi se la gente si rende conto di cosa ciò implichi. Un’azienda privata non è tenuta a essere democratica, non è tenuta a render conto a nessuno se non ai propri azionisti/proprietari, e specialmente non è tenuta a fare gli interessi della collettività secondo il volere della collettività.
 
L’appalto delle responsabilità pubbliche ai privati è la negazione ultima della democrazia e del controllo popolare, è un ulteriore anello che separa i cittadini dall’effettiva presa delle decisioni: la maggioranza del popolo elegge un suo rappresentante (che il più delle volte non è altro che un notabile del tutto alieno al popolo stesso), il quale a sua volta delega le proprie responsabilità a un’azienda terza, sulla quale il popolo non ha alcun tipo di potere.
 
È proprio qui che si inseriscono le mafie – nel senso giuridico del termine, ma anche il quello più semplicemente etico – sulle quali si regge il nostro oligarchico sistema economico “liberista” e “liberale”. 
 
Questi meccanismi fanno parte della routine quotidiana di ogni governo – comunale, regionale, nazionle –, tanto che ormai nessuno ci fa più caso, è un fatto talmente naturale che sembrerebbe acquisito e, in questo caso come in molti altri, ci limitiamo a lasciare le redini in mano agli “addetti ai lavori”.
 
Oggi abbiamo però un’occasione che non si presenta spesso: nel caso dell’Expo 2015, l’appalto delle responsabilità (e dei denari) pubblici nelle mani dei privati (leggasi, delle mafie nel senso giuridico e non) è per ovvie ragioni estremamente pubblicizzato. Le cifre che verranno spese, la grandiosità (in senso negativo per alcuni, in senso positivo per altri) del progetto sono sotto gli occhi di tutti.
È notizia piuttosto recente che persino Formigoni ha alzato la testa dalla scrivania e ha ammesso – ma solo perché sarebbe stata una palese ammissione di idiozia non farlo – che ci sono “segnali da più parti di tentativi molto preoccupanti di infiltrazioni mafiose nei cantieri”. Il lungimirante governatore ha quindi istituito un comitato per verificare la correttezza dei lavori.
 
Marco Travaglio, con lo stile e la perizia che lo contraddistingue (la perizia, quella di un giornalista di razza; lo stile, quello di chi, vedendo un incendio, lungi dal cercare un estintore si mette a urlare “ragazzi, qui c’è un incendio”) ha già fatto notare come i membri di questa commissione siano probabilmente più un’attrattiva che un deterrente per la malavita.
 
Ma, sinceramente, con tutto il denaro che c’è in gioco, sfido chiunque a trovare (specialmente i Italia) qualcuno che in una posizione così delicata potrebbe restare al di sopra di ogni sospetto.
 
La soluzione sarebbe (ed è) semplice: controllo popolare totale su tutto ciò che riguarda l’Expo 2015.
E con questo intendo dire che, se il progetto prevede di far colare decine di migliaia di tonnellate di cemento in un quartiere di Milano, gli abitanti del quartiere dovrebbero avere voce in capitolo: dovrebbero poter decidere, insieme agli altri cittadini, innanzitutto se questo lavoro s’ha da fare, poi come s’ha da fare e chi l’ha da fare. Se i soldi per costruire dei titani di cemento armato andassero a un’azienda, i cittadini dovrebbero aver diritto di sapere esattamente quali saranno le spese, chi possiede questa azienda, come questa azienda pensa di risparmiare i soldi per vincere l’appalto.
 
Dovrebbe essere la comunità dei cittadini a decidere queste cose, a vegliare sul loro corretto funzionamento, a controllare che i loro soldi vengano spesi come pattuito, per i fini pattuiti.
 
E questa dovrebbe essere la regola, non l’eccezione: è precisamente la mancanza di questo controllo popolare che partorisce gli sprechi scandalosi che vediamo ogni sera su Striscia la Notizia, come un macabro riproporsi della nostra quotidiana resa ai potenti, della nostra quotidiana incapacità di prendere responsabilmente in mano le redini della nostra comunità.
 
Come detto, per i lavori “di routine” questo di fatto non accade mai, ma nel caso dell’Expo 2015 – forse – i riflettori della stampa e la maggiore coscienza della quantità del denaro pubblico in gioco potrebbero spingere le “autorità” ad agire in maniera diversa, sempre che la popolazione si organizzi rivendicando un controllo popolare più stretto sull’utilizzo dei propri denari, lo sfruttamento dei propri spazi quotidiani, l’organizzazione della propria città.
 
Ci vuole organizzazione, ci vogliono cittadini responsabili, ci vuole un grande investimento di tempo: in una parola, ci vuole impegno. Ma è quell’impegno che in una società giusta dovrebbe muovere i nostri passi ogni giorno, e che i pochi che governano le nostre nazioni ci hanno indotti a chiamare “coraggio”.
 
Non è “coraggio” rivendicare il proprio ruolo di cittadini, non è “coraggio” prendere direttamente le decisioni che ci riguardano così da vicino: dovrebbe essere la norma.
 
Che ci trovi favorevoli o contrari (vi lascio indovinare da quale parte mi schiero), l’Expo 2015 si farà. Facciamo almeno in modo che si trasformi in un’occasione per dimostrare che non permetteremo più che si maneggi alle nostre spalle, con i nostri soldi, con i nostri spazi, con la nostra salute, e dimostriamo una volta per tutte che i cittadini organizzati possono fare lo stesso lavoro di un comitato di politici e burocrati – e che possono farlo meglio.
 
Riuscire in questo intento significherebbe aprire una porta, spezzare un tabù gravoso e finora gravido di mille deleterie conseguenze. 
 

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