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Egitto. Gli affari oltre la fede

La preoccupazione occidentale per il desiderio dell’Islam politico egiziano di fare il pieno di cariche - dal premierato alla presidenza della repubblica - e scrivere unilateralmente la nuova Costituzione s’è accompagnata nei giorni scorsi con lo sblocco dei finanziamenti da parte del Fondo Monetario Internazionale che porterà al Cairo 3.2 miliardi di dollari in otto anni. Sembra una contraddizione, in realtà lo è molto meno di quel che appare. Innanzitutto è caduto il veto statunitense verso questo finanziamento.

L’aut aut l’aveva posto a metà febbraio la Casa Bianca legandolo alla vicenda dell’arresto dei membri delle Ong (International Republican Institute e National Democratic Institute) accusate d’ingerenza nella politica egiziana visto che quelle strutture fanno direttamente capo ai due grandi partiti americani. Il Consiglio Supremo delle Forze Armate e il governo Ganzouri hanno evidentemente spinto sulla magistratura per il rilascio degli attivisti, molti dei quali statunitensi e altolocati (c’era anche il figlio del segretario ai trasporti e presidente dell’IRI Lahood) che sono potuti tornare a casa.

Così la Clinton, che aveva apertamente minacciato di ostacolare l’arrivo di quei fondi, ha concesso una liberatoria boccata d’ossigeno per le disastrate casse cairote. I partiti di maggioranza (Partito della Libertà e dello Sviluppo e Al-Nour) e gli stessi deputati liberali e della sinistra (che contestano a gran voce la scelta islamista di voler scrivere da soli la nuova Carta Costituzionale) pensavano che il Paese avrebbe dovuto tenere alta la dignità nazionale, evitando comportamenti simili al servilismo mubarakiano. Ma non è stato così e tutti hanno accettato.

La trasversalità dell’attuale politica egiziana sta mostrando un altro volto: la comunione d’intenti sul fronte affaristico fra i businessmen di partiti e religioni diverse. Così al pari del noto Naguib Sawiris, che apre i conti delle sue banche per sostenere la formazione liberale che egli stesso guida (Blocco Egiziano), esiste un capitalismo islamista che vuole il ripristino della normalità economica nazionale, costi quel che costi.

Per affaristi come il fratello musulmano Khairat Al-Shater, ex banchiere e finanziatore del FJP, normalità significa tornare a far circolare denaro, quello dei citati finanziamenti e quello degli investimenti stranieri fermi dal fatidico 25 gennaio 2011. Secondo lui, questo flusso è intralciato dai quattordici mesi della “primavera egiziana”. Un pensiero che l’avvicina al copto Sawiris. I capitali esteri rimasti in sourplace oscillano fra i 15 e i 20 miliardi di dollari, parte dei quali coinvolgono le attività turistiche, seconda industria del Paese. Il settore, che impegna circa due milione di egiziani, sta tuttora languendo anche nei centri più illustri: Il Cairo, Alessandria, Luxor, le spiagge del Mar Rosso. I tour operator dall’ovest non si fidano delle sommosse di piazza ed è diminuito il flusso anche dagli Stati del Golfo. Per non citare la meta del Sinai, dove le azioni dei beduini e i raid di sconfinamento israeliani fanno da mesi il vuoto.

Una docente di economia politica, Zeinad Abul Magd in un suo recente intervento ha evidenziato come in questi mesi la leadership della Fratellanza stia tambureggiando sul concetto che “l’attività economica va in conformità coi princìpi islamici del mercato, fondati sulla concorrenza leale e sulla libera economia regolata che controlla la produzione di beni e si basa sui finanziamenti e sugli investimenti islamici”. Insomma islamismo a misura di un capitalismo d’impresa che invece nella bocca di Sawiris si coniuga col proprio cristianesimo. Nell’andirivieni della storia nulla di nuovo.

E’ bene comprendere come l’anima più robusta che già condiziona, e può continuare a farlo, la politica dell’attuale maggior partito d’Egitto è quella delle famiglie d’investitori e commercianti (controllano diverse banche, linee d’abbigliamento, alimentari e ristorazione) che vogliono riscattarsi dall’emarginazione subìta ai tempi di Mubarak per i contrasti d’interesse col figlio Gamal. Sono loro, non gli imam protestatari a costituire la leadership del partito che conta. Potrebbero essere paragonati agli uomini d’impresa che in Turchia sostengono l’islamismo erdoğaniano e lì sono ripagati da un sistema moderato che cerca nell’identità religiosa non strillata una linea interclassista e una conseguente pace sociale. Quanto il fronte capitalistico, garante degli affari degli amici di Sawiris e dei fratelli di fede Al-Shater, potrà risultare conciliante nell’Egitto del futuro è tutto da scoprire. Ma rappresenta una chiave di lettura da scandagliare, che avvicina mentalità e confessioni diverse a soluzioni politiche conservatrici che possono piacere Oltreoceano e alle contigue petromonarchie che vogliono continuare ad arricchirsi in santa pace.

Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar temono l’esempio dei sommovimenti paritari della gioventù ribelle e idealista di piazza Tahrir e promettono lauti finanziamenti (10 miliardi di dollari ciascuno) se s’azzera ogni smania rivoluzionaria. Se le dispute fra laici e religiosi verranno placate dall’affarismo globalizzato, l’Occidente accetterà un Islam liberista e l’Islam in salsa egiziana un affarismo pacificatore, e riprenderanno i flussi di denaro dagli States e dalle banche saudite e qatarine. Eppure osservando ciò che accade sul Bosforo anche le soluzioni consolidate possono non dormire sonni tranquilli. La riforma scolastica che dovrebbe aprire maggiori spazi nel ciclo delle superiori all’approfondimento della materia religiosa sta creando qualche problema al governo Erdoğan con proteste di piazza crescenti. Nelle società in evoluzione anche l’Islam moderato non può vivere di certezze.

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