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Edilizia scolastica: dai sindaci ai sindaci commissari

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

Il decreto scuola ci regala nuovi commissari straordinari: i sindaci ed i presidenti delle province assumeranno, infatti, i poteri appunto commissariali per gli appalti di ristrutturazione degli edifici scolastici (che, contrariamente a quanto generalmente si pensa, non rientrano nella competenza del Ministero dell’istruzione, ma degli enti locali).

La cosa di per sé appare già piuttosto paradossale: la legge attribuisce poteri di per sé straordinari per uno degli scopi tra i più ordinari che esistano, cioè la manutenzione degli edifici scolastici.

Come dice, Titolare? Siamo in Italia e quindi anche le cose normali divengono eccezionali? Vero. E le condizioni in cui versano gli edifici ove vanno a scuola milioni di bambini e ragazzi, in effetti lo dimostrano.

Il metodo commissariale scelto dimostra almeno due fatti. Il primo: l’inadeguatezza del codice dei contratti. Seguendo il “metodo Genova”, il Governo ed il Parlamento hanno attribuito ai commissari ampi poteri di deroga al “famigerato” codice. Confermando così che la famosa “lotta alla burocrazia” risulterebbe un tantino più semplice se si comprendesse che molti dei problemi operativi nella gestione delle attività dipendono dalle norme. Il codice dei contratti è l’archetipo delle regole complesse, involute, capaci di generale al tempo stesso procedimenti lenti e un contenzioso estesissimo.

Il secondo elemento che emerge da questo diffuso commissariamento è la necessità di rivedere a fondo e profondamente il modo col quale le amministrazioni locali gestiscono i loro bilanci e le loro competenze.

È noto, Titolare, che alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, varie riforme, tra le quali quella micidiale del Titolo Vi della Costituzione, hanno cercato di affermare una vastissima competenza generale degli enti locali.

Tanto che ai sensi dell’articolo 118, comma 1, della Costituzione

Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

Sono, dunque, i comuni e le province e città metropolitane (queste ultime devastate dalla sciagurata riforma Delrio) i titolari delle funzioni amministrative “di base”, quelle connesse ai servizi maggiormente vicini alle comunità. Per questo, nel 1996 un’altra riforma attribuì appunto a comuni e province la responsabilità “logistica” delle scuole: la loro costruzione e manutenzione, con dotazioni di arredi, palestre e quanto necessario.

C’è, però, un problema. In particolare i comuni, a seguito delle riforme partite un trentennio fa, sono qualificati come “enti a fini generali”. Questo fa sì che siano molto tentati dallo spandere le proprie risorse, funzioni, energie in mille e mille rivoli, ritenendo di poter esercitare le proprie competenze praticamente su ogni materia dell’orbe terraqueo.

Il che porta ad alcuni inconvenienti: la dispersione di risorse ed energie implica la trascuratezza delle funzioni fondamentali.

Lo stato delle scuole lo conferma. Comuni e province hanno dirottato investimenti e progetti verso molte altre destinazioni, a costo di lasciare gli edifici scolastici e le loro dotazioni in situazioni di forte criticità, tanto da richiedere, adesso il rimedio del commissariamento.

Non sfuggirà che vengono nominati commissari i vertici di quegli stessi enti che in un quarto di secolo circa hanno permesso, di fatto (ed ovviamente con le dovute eccezioni) che gli edifici si ammalorassero così tanto da dover imporre misure straordinarie per funzioni ordinarie, come le manutenzioni.

Naturalmente, che dopo tutto questo tempo ci si renda conto della necessità improrogabile di interventi di ampliamento, miglioramento funzionale e ristrutturazione è cosa largamente positiva.

Si deve sperare, però, che non si tratti di un fuoco di paglia. Il commissariamento appare una scelta d’emergenza e, per sua natura, transeunte. Sarebbe inaccettabile lasciar passare un altro quarto di secolo, successivamente agli interventi che si auspica i commissariamenti consentano si realizzare, lasciando nuovamente le scuole nel sostanziale abbandono.

Non siamo ancora nella “Fase 3” del post-pandemia. Si dovrebbe sperare, però, che sia già chiara l’esigenza di modificare radicalmente l’assetto istituzionale dello Stato e dei rapporti con gli enti territoriali.

In realtà, qualche dubbio viene. I comuni da giorni chiedono a gran voce allo Stato aiuti economici, evidenziando minori entrate per circa 8 miliardi complessivamente. Lo Stato ne ha previsti a malapena circa 4 miliardi. Ma, contestualmente, il “decreto rilancio” assegna ai comuni anche la possibilità di erogare aiuti economici (tramite sgravi, sussidi o sgravi) alle imprese.

Aiutare l’economia con interventi per le imprese va benissimo. Quel che non si capisce è perché, però, il decreto rilancio debba creare l’ennesima confusione e duplicazione di competenze, estendendo ai comuni attribuzioni proprie del Ministero dello Sviluppo economico e, in parte, delle regioni, proprio a quei comuni che lamentano buchi di bilancio estesissimi, chiamati ora all’opera urgente dell’intervento sulle scuole.

Per evitare i “vasti programmi”, senza soldi e con caos attuativi, forse tornare almeno in parte al passato non guasterebbe.

Un tempo, la legge comunale e provinciale, la 2248/1865 agli articoli 116 e 117 divideva le spese dei comuni e delle province in “obbligatorie” e “facoltative”. Le prime erano comprese in un elenco tassativo, che vincolava i comuni e le province ad impiegare le risorse delle proprie entrate in via primaria verso di esse; tutte le altre spese non qualificate come obbligatorie erano facoltative: non vietate, ma possibili solo laddove si dimostrasse che l’ente avesse preliminarmente soddisfatto le competenze primarie e principali.

Certo, si trattava di un sistema delle competenze che circoscriveva gli enti locali in una visione angusta, del tutto incompatibile con la qualificazione dei comuni e delle province come elementi necessari, che con città metropolitane, regioni e Stato costituiscono la Repubblica con pari dignità.

Tornare, quindi, ad un’elencazione fissa di spese “obbligatorie” appare oggi incompatibile col disegno discendente dal Titolo V.

Proprio questa constatazione convince, però, della necessità di rivedere il Titolo V, anche allo scopo di introdurre elementi quanto meno finanziari capaci di evidenziare le priorità che i comuni e gli enti locali debbono rispettare.

La qualificazione come enti a finalità generali non può determinare l’effetto di far dimenticare le funzioni fondamentali, come la manutenzione delle scuole, cui porre rimedio poi con la stagione dei commissari straordinari. Sindaci e presidenti delle province invece di puntare ai “super poteri” dovrebbero essere consapevoli che i poteri normali, durevoli nel tempo, continuativi, magari non eclatanti, sono proprio quelli che fanno la differenza.

Foto di Wokandapix da Pixabay

 

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