“E Dio creò i media. Televisione, videogame, internet e religione”: intervista a Dario Morelli
Dario Morelli, dottorato di ricerca in Diritto Ecclesiastico e Canonico presso l’Università Statale di Milano, si occupa di diritto dei media ed ecclesiastico ed è associato di uno studio legale internazionale. Ha pubblicato E Dio creò i media. Televisione, videogame, internet e religione (Baldini & Castoldi).
E Dio creò i media comincia parlando delle richieste di effettuare pubblicità atea negli Usa e in Italia, e si chiede come si possa “accettare che l’esercizio di un diritto così importante dipenda dalla volontà degli imprenditori che operano nel mercato pubblicitario”. L’Uaar è stata recentemente censurata anche dalla giunta comunale di Verona: la vie delle critiche al Signore sono dunque finite?
La libertà degli atei non è diversa da quella dei credenti, perché laddove non si è liberi di non credere non si è davvero liberi neanche di credere (in ciò che si vuole). Nei paesi in cui mancano adeguate tutele del pluralismo religioso nelle comunicazioni — e, come provo a raccontare nel libro, gli USA sono tra questi — il problema è di tutta la collettività, e come tale va affrontato.
La pubblicità per l’Otto per Mille ha spesso suscitato critiche, a partire da Curzio Maltese con il suo libro La questua, ed è stata anche denunciata come “ingannevole” in alcuni esposti presentati all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), che li ha peraltro sempre respinti. Come giudica questa forma di comunicazione e le decisioni dell’authority?
È successo che l’AGCM abbia archiviato esposti presentati da associazioni di consumatori contro pubblicità dell’8×1000, in quanto tali messaggi non sono pubblicità commerciali e dunque non possono costituire pratiche commerciali scorrette. Da un punto di vista giuridico trovo corretta la conclusione: la propaganda di una Chiesa o di una formazione come l’UAAR non è uno spot di un bene di consumo; le Chiese o le associazioni di pensiero, anche quando sollecitano donazioni o devoluzioni, non vendono nulla e non offrono servizi in senso commerciale.
Le stesse considerazioni confermano però l’importanza di varare una disciplina apposita a tutela sia della libertà di propaganda delle formazioni sociali a carattere religioso, sia dei diritti dei cittadini rispetto a tali propagande.
Lei sostiene che, mentre “su altri tipi di propaganda, come ad esempio quella politica in radio e TV, le norme e le regole, dalla “par condicio” in giù, a dir poco si sprecano”, il legislatore si è invece “convinto che gli obblighi di pluralismo religioso interno della Rai e la datata disciplina dell’accesso bastino da soli a garantire il pluralismo nella diffusione, acquisizione e scambio di opinioni in tema religioso”. Eppure lo spazio dedicato alla confessione cattolica dalla Rai è prossimo al 100%. È realmente giustificabile, dal punto di vista del diritto, un simile monopolio?
Parlare di 100% di spazio dedicato dalla RAI alla confessione cattolica è ingeneroso, perché significa dimenticare programmi storici come “Protestantesimo”, curato dalla RAI e dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, e “Sorgente di vita”, realizzato in collaborazione con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
Tuttavia, è vero che lo strumento dell’accesso — di cui pure l’UAAR ha beneficiato — è nato morto. Basti pensare che i primi programmi dell’accesso andarono in onda il 14 febbraio 1977, quando ormai l’etere era già stato invaso dalle emittenti locali e in Italia si stava materializzando un modello totalmente diverso di “accesso” all’emittenza televisiva. Da allora nessuno si è più preoccupato di modificare quella disciplina e di introdurre forme nuove di garanzia del pluralismo religioso in TV. Personalmente, penso sia arrivato il momento di ripensare la RAI anche da questo punto di vista.
Lei ricorda che le confessioni religiose diverse dalla cattolica non sono affatto disinteressate alla comunicazione televisiva, che spesso prende anche vie alternative rispetto agli spazi “canonici”. Il volume tratta anche dell’evangelizzazione via internet, e addirittura dell’uso dei videogames. È la fede che aiuta a individuare forme creative di diffusione del Verbo, o le comunità religiose di minoranza sono in qualche modo obbligate a farlo dall’assenza di spazi a disposizione?
Internet è un mezzo sicuramente più libero dei c.d. old media perché è privo di intermediari, salvo quelli meramente tecnici (cioè gli internet service provider). Perciò anche gli spazi per eventuali discriminazioni, di qualunque tipo siano, sono più ridotti rispetto alla stampa, alla radio e alla TV. Ciò posto, non saprei dire se le formazioni sociali a carattere religioso scelgano la comunicazione multi-piattaforma per aggirare limiti esterni o per volontà e convinzione. Credo che un esperto di marketing opterebbe per questa seconda opzione, perché i new media sono oggi il terreno privilegiato per comunicare messaggi in maniera efficace, qualunque essi siano.
La Chiesa cattolica non si caratterizza per cambiamenti repentini. Nell’approccio a internet sembra per una volta essere stata più rapida: già Benedetto XVI sbarcò su Twitter, e una blogger, Francesca Immacolata Chaouqui, è stata scelta da papa Francesco per far parte della commissione sulla riforma finanziaria. I new media, in quanto più immediati, sono forse più adatti alla comunicazione religiosa? O è il frutto di una scelta spregiudicata da parte di Greg Burke, l’influente advisor vaticano per le comunicazioni, prelevato da Fox News e appartenente all’Opus Dei?
Immagino che la Chaouqui sia stata scelta più per l’expertise maturata in Ernst & Young che per quella come blogger, e ho difficoltà ad attribuire le scelte di comunicazione della Chiesa cattolica a un solo uomo (escluso il Papa). È vero però che c’è stata una forte accelerazione della comunicazione cattolica sui new media, e nel libro ne parlo diffusamente. In sintesi, non mi sembra comunque un approccio spregiudicato né, a ben vedere, differente da quanto la Chiesa cattolica ha sempre affermato di voler fare, cioè parlare alle persone lì dove si trovano. Tutti sanno che oggi le persone si trovano sui social network, e lo sa anche la Chiesa.
Come giudica il successo di Suor Cristina a “The Voice of Italy”? La sua vittoria sta forse all’Italia quanto quella della drag queen Conchita Wurst all’Eurovision Song Contest sta al resto del continente?
I fan di lunga data come me sanno bene che l’Eurovision Song Contest è una competizione molto politicizzata. Perciò è lecito pensare che la vittoria di Conchita presenti anche implicazioni politiche intenzionali.
Invece il “fenomeno Suor Cristina” mi sembra dettato soltanto da logiche televisive: la suora-rock è un soggetto obiettivamente insolito, che suscita tenerezza e che piace perciò a molti spettatori in tutto il mondo (lo dimostra il successo internazionale riscosso su YouTube). Questa è una ragione di per sé sufficiente a giustificare la sua vittoria. L’unico significato ulteriore, rispetto a quello spettacolare, è ovviamente il messaggio evangelico che la stessa Suor Cristina ha voluto attribuire alla propria partecipazione (“voglio portare Gesù qui dentro”, ha detto). Considerato però che si tratta di una suora, mi sarei stupito del contrario.
Ciò posto, mi sentirei di scommettere che non vedremo a breve un imam cantare in prime time su Raidue.
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