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Dopo le elezioni francesi comincerà finalmente per l’Europa la fase della crescita?

E' certamente inusuale che nel nostro Paese il candidato socialista all'Eliseo Hollande stia riscuotendo consensi trasversali. Si tratta però di una circostanza che risponde a logiche nazionali del tutto legittime, legate alla necessità di accelerare il processo di fuoriuscita dalla grave crisi economica ancora in atto, nel nome di un concetto divenuto ormai quasi mitologico: la crescita.

In effetti, dall'affermazione alle elezioni francesi dello sfidante al presidente uscente Sarkozy, troppo appiattito in questi anni sulle politiche di estremo rigore imposte dal sistema finanziario tedesco, potrebbe derivare un netto e benefico cambio di rotta nel Vecchio Continente a livello di misure economiche, in particolare nei Paesi più esposti agli effetti della crisi stessa, compresa l'Italia, dopo anni di lacrime e sangue.

Che il clima stia cambiando, del resto, lo conferma il fatto che proprio gli emissari della Cancelliera Merkel, fiutato il rischio di isolamento per la Germania a causa della più che probabile sconfitta del grande alleato Sarkozy, si siano recentemente incontrati con alcuni rappresentanti del governo italiano alla ricerca di un nuovo gioco di sponda auterovele, stavolta nel nome appunto dello sviluppo.

E non è nemmeno casuale che, quasi in contemporanea, il numero uno della Federale Reserve statunitense Ben Bernanke abbia chiesto all'Europa di fare di più nel segno delle politiche per la ripresa ridisegnando un fiscal compact più sostenibile, ed il governatore della Bce Mario Draghi si sia spinto a richiamare i governi europei affinché abbandonino il sentiero della rigidità impositiva, che rischia di trascinare l'Europa stessa in una condizione irreversibile di recessione, per dedicarsi con maggiore vigore alle necessarie riforme strutturali in campo economico e a provvedimenti capaci di ridare ossigeno ai cittadini e alle imprese. Magari ricorrendo alla concessione dell'accesso diretto al fondo permanente di salvataggio alle banche in difficoltà (soprattutto spagnole e greche), per allentare così la morsa del credit crunch e rendere più agevoli i prestiti alle tante aziende e ai lavoratori e pensionati in stato di sofferenza.

In tal caso, tuttavia, bisognerebbe di nuovo vincere la forte contrarietà di Berlino che in un mutato quadro politico e sociale continentale potrebbe finalmente allentare i cordoni della propria borsa in favore del circuito finanziario (attraverso gli Eurobond?), ma non ancora al prezzo di soccorrere direttamente i sistemi creditizi che hanno contribuito ad aggravare la crisi attraverso la diffusione di titoli tossici.

E chissà che non possa essere proprio il nostro Premier Monti, da una posizione di maggiore forza contrattuale dopo il voto francese, a risolvere questa contraddizione facendo capire alla Merkel che se non si ammorbidisce la linea dell'austerity i popoli degli stati dell'area Euro si lasceranno più facilmente sedurre dai vecchi e nuovi populismi antieuropei dell'estrema destra e dell'estrema sinistra. In fondo, meglio tassare le transazioni finanziarie e alleggerire il peso dei debiti pubblici nazionali sui cittadini piuttosto che ritrovarsi in futuro con una Le Pen o un Grillo al potere.

Pur in uno scenario generale apparentemente più confortante, dovuto sia all'allontanamento di Berlusconi a novembre scorso sia alla possibile caduta di Sarkozy, non si deve allentare la prioritaria attenzione per le sorti italiane. Nuove rilevazioni e indagini statistiche confermano, infatti, che nonostante la buona volontà del governo Monti, troppo spesso resa vana dalle continue resistenze di partiti, sindacati e lobby, la nostra economia rimane debole in particolare per la difficoltà delle imprese di accedere al credito e, pertanto, di investire e produrre.

Confcommercio informa che nel primo trimestre del 2012 sono calate le aziende in grado di fronteggiare il proprio fabbisogno finanziario senza alcuna difficoltà (36,1%) mentre, per la prima volta dal 2008, sono cresciute quelle che ottengono meno credito di quanto richiesto o non lo ottengono affatto (quasi 37%).

I dati evidenziano che le imprese che ancora riescono a far fronte al proprio fabbisogno sono ubicate prevalentemente nel Nord-Ovest, resta invece molto grave la situazione che riguarda quelle del Mezzogiorno dove si registrano maggiori difficoltà di liquidità. Le più colpite dalla crisi sono in genere le microimprese e le piccole imprese, nonché quelle che operano nel settore del turismo. Sempre nel Mezzogiorno, è molto ampia l'area di irrigidimento del credito (44%) che induce molte aziende a rivolgersi a sistemi di finanziamento illegale gestiti dalla criminalità organizzata.

Vastissima (19,3%) anche la fascia di imprese del terziario in attesa di conoscere l'esito della propria domanda di prestito per l'eccessiva cautela delle banche. Infine, dal rapporto di Confcommercio emerge un giudizio assolutamente negativo da parte del sistema imprenditoriale sul costo dei finanziamenti, sulla durata temporale del credito e sulle garanzie richieste dalle banche stesse.

Cosa significano questi numeri nel concreto possono purtroppo spiegarlo i tanti casi di suicidio fra gli imprenditori, i disoccupati e i pensionati. Ma per dirla con l'economista bocconiano Tito Boeri oggi l'economia italiana, nella fase di passaggio dall'eccessivo rigore alla crescita, è come se si trovasse sospesa fra azione e attesa. Perché è vero che lo sviluppo è legato alla produzione, al reddito e ai consumi, ma proprio per questo non può fare a meno dell'intervento delle banche che non vanno demonizzate ma aiutate, in quanto componente essenziale del processo economico di un Paese, al pari di lavoratori e imprenditori.

Il punto di svolta per rilanciare l'economia italiana, quindi, secondo Boeri ed altri economisti passa per le banche stesse e concide, da un lato, con la possibilità che i governi e la Banca centrale sostengano maggiormente gli istituti in difficoltà e, dall'altro, con il superamento dei ritardi da parte di quest'ultimi nella concessione di credito a famiglie e imprese.

Se si utilizzano i fondi elargiti dalla Bce solo per l'acquisto di titoli di Stato e non, invece, per finanziare i giovani che intendono avviare un'attività o gli anziani con forti problemi di liquidità o le aziende strozzate dai debiti il costo sociale da pagare diventa sempre più alto e si finisce per dare fiato a sentimenti di ribellione manipolabili dai tanti demagoghi che imperversano sulla scena pubblica.

Le banche, insomma, devono invece essere messe in condizione di assolvere a una funzione di ammortizzatore sociale integrativo in questa fase di crisi, concedendo prestiti a chi ne ha effettivamente bisogno per condurre una vità più dignitosa, in attesa che il peggio passi e riprendano i consumi.

In questo senso il nostro governo, che certamente non può interferire nelle politiche societarie degli istituti di credito né, si spera, proporre interventi di statalizzazione tout court, deve proseguire in modo ancor più incisivo lungo la strada intrapresa con il pacchetto di liberalizzazioni appena varate, aumentando gli spazi di concorrenza e spezzando gli intrecci azionari delle banche con le grandi imprese che hanno fino ad oggi prodotto una evidente disparità di trattamento nella concessione di credito a danno delle Pmi e delle famiglie.

Se in Francia, dunque, si consumerà davvero il cambiamento e la Germania sarà di conseguenza costretta a scendere a più miti consigli, il piglio decisionista e le competenze di Mario Monti, assieme all'esigenza tutta italiana di evitare il riproporsi dell'instabilità politica e sociale, potranno rivelarsi fattori decisivi nella riforma complessiva del sistema finanziario europeo in direzione della crescita e di una maggiore equità. Con buona pace dei rumorosi complottardi mitomani che continuano a guardare al governo italiano come alla quintessenza del male al servizio di una Spectre plutocratica internazionale. 

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