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Don Marco in direzione ostinata e contraria a Bagnasco

Di Marco di Benedetto

Vorrei premettere qual è l’obiettivo di questi pensieri “ad alta voce”, a scanso di equivoci. Non esprimerò nel dettaglio un mio parere sull’opportunità o sulla modalità di soluzioni legislative circa il matrimonio tra persone omosessuali o l’adozione dei bambini da parte di coppie gay. Ritengo che sia un terreno molto complesso e molto delicato, per affrontare il quale servono competenze che io non ritengo di avere (forse è la deformazione professionale di un ricercatore universitario…). La mia riflessione è piuttosto su un metodo e su uno stile da ricreare nel dibattito, anche interno alla stessa Chiesa e poi tra cattolici e laici. Un lavoro di zappatura, insomma, un po’ come fa il contadino che prepara la terra prima di seminare. Temo, invece, che voler seminare senza preoccuparsi della qualità del terreno e della sua disponibilità ad accogliere il seme non porti frutti particolarmente abbondanti e buoni... per questo, alla luce dell’esperienza personale e di qualche riflessione sull’argomento, queste righe nascono dalla mia preoccupazione di cattolico che vorrebbe rendere ragione della speranza che lo abita: della speranza, appunto, non della paura, che spesso invece sembra impregnare le parole e le azioni dei “cattolici” di questo benedetto Paese.

Qualche anno fa, mentre preparavo la tavola dopo aver pranzato insieme ad un prete che viveva nella stessa casa dove vivevo io – un prete addidato da molti come “comunista” perché… si occupava con passione, come fa ancora oggi, delle persone affette da disagio e malattia psichica e perché cercava di pensare con la propria testa alla luce del Vangelo e dei fatti della storia – con quel prete ascoltammo un servizio al TG2 in cui veniva fatto il resoconto di una manifestazione “cattolica” contro la prospettiva di una legittimazione civile delle unioni omosessuali. Finito il servizio, quell’amico prete “pericoloso”, dopo aver scosso la testa, se ne uscì con questa affermazione perentoria: «La cosa assurda è che questi cattolici che manifestano contro i gay non si rendono conto che la Chiesa si salverà dall’estinzione proprio grazie ai credenti omosessuali!».

Lì per lì la presi con un sorriso e bollai quell’espressione come appartenente al genere letterario della provocazione. Avevo già avuto la fortuna di conoscere persone omosessuali e ne ho conosciute molte altre anche dopo quel fatto. Con alcuni c’è un’amicizia stupenda. Dagli incontri fatti nella mia vita ho imparato che ogni storia, ogni vita, ha una sua originalità che nessuno può semplicemente catalogare in base alle sue espressioni esteriori e visibili. L’orientamento sessuale di ognuno di noi ha radici e sviluppi a cui non è possibile risalire in maniera troppo semplificatoria. L’impasto di natura, di cultura e di storia di cui ognuno di noi è fatto non si può ridurre in “cataloghi”. Io non ho competenze particolari per esprimermi su una questione del genere nei suoi profili biologici, psicologici, educativi, giuridici… l’unica “competenza” che ho acquisito in questi anni, anche e soprattutto grazie al mio servizio volontario in carcere, è quella dell’“a tu per tu” con le persone sempre più libera dal pregiudizio (anche se liberarsi davvero del pregiudizio è l’impresa della vita!).

Mi hanno sempre infastidito le etichette. Come quel giorno che, camminando insieme ad altri tre preti su via Nazionale, a Roma, riconosciuti per il colletto, venimmo indicati da un gruppetto di adulti così: “guarda che bel gruppo di pedofili a piede libero”. Quando patisci il dito puntato altrui solo perché risulti appartenente ad una “categoria”, senti la ferita di un’ingiustizia profonda, perché nessuno coincide con alcuna categoria. Ogni storia, ogni nome, ha un valore sacro, che tantomeno l’appartenenza ad una “categoria”, sia essa sociale, professionale, religiosa o legata a un orientamento sessuale, può diminuire.

Il giorno in cui potremo dire di aver “scontato” (si potrà mai arrivare davvero a farlo?) tutta la sofferenza che abbiamo creato per aver puntato il dito contro gli altri, per le discriminazioni alle quali, in nome di “valori non negoziabili” (!!!), abbiamo condannato le persone per una loro condizione di vita, allora – forse – quel giorno potremo tornare a dialogare con maggior credibilità e rispetto sulle questioni che ci stanno a cuore e che riteniamo importanti per il bene di una comunità. Ma c’è metodo e metodo, c’è stile e stile nell’affrontare la questione dei diritti. Sia nel chiederli, sia nell’accogliere o respingere la richiesta.
Ho l’impressione che il delicato tema dei diritti civili per le persone e coppie omosessuali (tutele sulla convivenza, forma giuridica della loro unione, adozione dei figli…) non possa essere affrontato a prescindere da un metodo che è ancora tutto da recuperare. Penso, da cattolico, che su questo punto la pedagogia di Gesù di Nazareth abbia molto da insegnare ai cristiani benpensanti, tra i quali – e mi ci metto anch’io – si può annidare la versione contemporanea di quella farisaica presunzione di essere dalla parte giusta, che faceva perdere la pazienza allo stesso Gesù. 

Gesù cercava le persone, non i loro orientamenti, non le loro idee, non le loro convinzioni. Ricordo soprattutto quell’incontro con la donna samaritana, che gli ebrei discriminavano e chiamavano “cane” e che lo stesso Gesù sembrò inizialmente trattare male, con pregiudizio. Ma lei fece il suo bel “SamaritanPride” (mi si perdoni l’ironico accostamento, ma si rilegga la faccia tosta di questa donna nell’ostentare il suo diritto a essere ascoltata in Mt 15, 21-28!!) e Gesù si lasciò cambiare da questa donna “diversa” e “spudorata”, e di fatto diventò diverso pure lui. È stato abbattuto un muro nel cuore di entrambi.
Perché dall’incontro con l’altro si cambia in due, non uno solo dei due. Credo fosse questo quello che intendeva dire quel mio amico prete quando sostenne che la Chiesa sarà “salvata” dai gay: solo dall’incontro autentico e non pregiudiziale nasce la possibilità di esistere. Solamente il cercare, l’incontrare e lo stare con le persone, apre la via di accesso alla cosiddetta “verità”. Una Chiesa che pretendesse di voler incontrare gli altri solo per cambiarli, sarebbe una Chiesa che tradisce la sua stessa storia, la sua stessa natura. Una Chiesa che invece incontra gli altri per ri-formare prima di tutto se stessa sarà invece una Chiesa che comunicherà la verità dell’Amore che le è stato affidato con sempre meno ipocrisia ed arroganza. Questo non vuol dire affatto “piegarsi all’andazzo della cultura”, non è uno scendere a compromessi. È sentirsi mai arrivati. È sapersi in crescita continua, «fino alla misura della pienezza di Cristo» (Ef 4, 16). Confidando che sia proprio il chicco di grano che, caduto in terra, sa morire alla propria presunzione di essere già spiga, a farlo effettivamente maturare ed essere ciò per cui è stato seminato.

È la stessa fede cristiana che consegna ai cattolici il principio stesso della laicità: credono (o dicono di credere..), infatti, in un Dio che, scegliendo di farsi uomo, ha legato definitivamente la sua verità all’affermazione della dignità e del diritto di ogni persona di esistere e di vivere la propria situazione, nel rispetto delle altre situazioni di vita. Anche la passione civile dei cristiani dovrebbe essere quella di portare a pienezza il godimento dei diritti civili personali, pur sempre entro l’orizzonte di un patto comunitario senza il quale la vita sociale sarebbe “una selva oscura”. Solo nella libertà effettiva del diritto può nascere un dialogo costruttivo e anche critico, perché no, circa alcune questioni specifiche, come quella della forma giuridica di un patto di convivenza che sia rispettoso della realtà. “Matrimonio”, ad esempio, ha inscritto nella sua stessa etimologia il riferimento ad una relazione uomo-donna aperta alla generazione. Sarebbe, per questo, un “vestito” fuori misura per una coppia omosessuale, il cui amore e il cui desiderio di impegno reciproco merita invece di vedersi riconosciuto un diritto e una tutela con un istituto proprio, non “meno” importante. Qualcuno dirà che è solo una questione di nomi. No, è una questione di identità, visto che il dare il nome a qualcosa di nuovo significa dargli identità e possibilità di fare storia.

Ma a questo si arriva se c’è stile anche nel pensare. E questa non è una qualità che va facilmente a braccetto con la sola manifestazione di un “Pride” di parte. E lo dico da cattolico, infastidito dei vari “pride” confessionali con cui si dimostrano idee chiare, ma poco stile. E lo stile fa la differenza.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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