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Distanziamento sociale: un nuovo fattore di disuguaglianza?

Dalla quarantena alla “Fase 2”, dal lockdown alle prime avvisaglie di rilancio l’Italia e gli altri Paesi europei gradualmente provano a riprendere la strada della normalità dopo la fase più grave della pandemia di coronavirus. Siamo al momento della verità: non solo per la necessità di dover far convivere la ripresa dell’attività umana, sociale ed economica con la permanenza del virus non ancora debellato, ma anche per le innegabili conseguenze che ciò avrà su abitudini, costumi e equilibri sociali.

Misure di vario tenore, in alcuni casi addirittura barocche, sono immaginate per celebrazioni religiose, attività commerciali, ristorazione, rapporti sociali e via dicendo. In Italia, in particolare, dopo le Faq sono i vademecum nazionali o regionali ad assurgere a nuova, eccezionale fonte di diritto. Scorrendo avvertimenti, prescrizioni e regolamenti ci si accorge che la gestione del distanziamento sociale sta diventando come l’uovo di Colombo del proverbiale aneddoto: le garanzie di ottenerlo sono la premessa alla riapertura graduale o la riapertura graduale crea la necessità di potenziare le misure volte a farlo rispettare? Tra le numerose lacune nella composizione del celebre Comitato tecnico-scientifico, tra cui segnaliamo ad esempio la mancanza di esperti di statistica, di psicologi e di una squadra nutrita di medici del lavoro, sembra farsi sentire ora più che mai pressante l’assenza di un designer di interni: tra regole astruse, plexiglass e via dicendo la strada perché numerose attività possano garantire il distanziamento necessario sta diventando sempre più tortuosa.

Ma legato al distanziamento sociale vi è anche il timore che esso possa avere un costo capace di costituire un moltiplicatore di disuguaglianze. La quarantena e il confinamento tra le mura domestiche di milioni di persone hanno già creato una serie di linee di faglia gradualmente emerse all’attenzione: quella tra lavoratori precari e cassintegrati da un lato e lavoratori capaci di continuare a svolgere il proprio mestiere tramite lo smart working; quello tra studenti di famiglie a reddito medio o alto e ragazzi in età scolare provenienti da famiglie non dotate dei dispositivi tali da garantire la didattica a distanza; sul tema del digital divide, tra un Nord maggiormente pronto e un Sud che sconta un livello insufficiente di investimenti; nei centri urbani, quello tra gli abitanti dei quartieri popolari e tra i residenti in aree con maggiore accessibilità ai servizi. “Essere tutti nella stessa barca” è evidentemente un concetto relativo alla dimensione del vascello (leggasi luogo di residenza).

Gli spazi e la loro gestione nel periodo di quarantena hanno preso a farsi meno relativi e a diventare fattori sempre più centrali; ora nel periodo della riapertura diventano il tema centrale a causa del discorso sul distanziamento sociale che, come detto, potrebbe creare nuove e problematiche disuguaglianze. L’accessibilità economica delle misure potrebbero far sì, scrive Wired,che il distanziamento sociale “diventi una sorta di nuovo lusso, una corsia preferenziale per chi vuole (e può) recuperare prima degli altri le abitudini di prima. Chi vorrà tornare a viaggiare, mangiare fuori, andarsene in palestra potrà probabilmente farlo, e a breve, sborsando di più. Chi non può si arrangerà, scivolando ancora più indietro nella scala sociale faticosamente percorsa”.

Nella spinta alla ricerca del valore aggiunto e a causa dell’oggettiva difficoltà di molti settori di tornare ai vecchi livelli di redditività e fatturato c’è la possibilità di vedere il distanziamento sociale come una nuova soglia di accessibilità e come un fattore di polarizzazione tra chi potrà permettersi le spese per averlo garantito e chi si troverà più in difficoltà. Il sistema capitalista contemporaneo è riuscito a trasformarsi già in creatura “cronofaga”, ovvero in grado di piegare le esigenze naturali dell’alternanza delle ore alle ragioni della produzione e del consumo e alle logiche della creazione di valore aggiunto. Nel post-pandemia, la possibilità che tale logica di mercificazione si allunghi anche al settore della gestione degli spazi non è da escludere. Dal prezzo dei menù nei ristoranti ai voli aerei, dai servizi alla persona ai prezzi di immobili e affitti, che premieranno più che proporzionalmente i lotti di dimensione maggiore, le conseguenze potrebbero essere sistemiche. Aggiungiamoci i costi sociali legati al declino psicologico e fisiologico di chi soffre di disturbi legati alla quarantena e all’isolamento domiciliare, le problematiche che potrebbero insorgere per le fasce più deboli della società (Neet, anziani, disoccupati). Si crea un sostanziale sovvertimento dei termini rispetto alla fase del lockdown: se, come ha rilevato il National Bureau for Economic Research,nella fase della chiusura i redditi elevati, nei Paesi occidentali, erano correlati positivamente con la possibilità di restare in sicurezza nelle proprie abitazioni (per fattori come la sostenibilità dello smart working, la maggiore agiatezza delle abitazioni, la connessione a Internet più veloce e sicura, l’accessibilità a servizi come la spesa da remoto), ora i redditi elevati consentono una maggiore sicurezza di poter aver garantito il distanziamento sociale nel ritorno graduale alla vita quotidiana.

Dal mondo politico a quello mediatico, è importante interrogarsi per capire la sostenibilità delle misure attualmente in atto e vigilare per evitare che nella loro cornice si creino situazioni portatrici di diseguaglianza sociale o esclusione: fare anche dello spazio e della socialità un bene escludibile sarebbe un errore imperdonabile. Nelle misura di risposta economica e politica alla crisi un calcolo dei sovra-costi del distanziamento per attività e cittadini non può non rientrare come una delle prime priorità.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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