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Disoccupazione: perché la definizione non è un complotto Istat

Dall’inizio della crisi gli italiani sono diventati grandi esperti di occupazione e disoccupazione. 

Come fatalmente accade in questi processi di apprendimento con corsi progrediti tenuti sui social network (la famosa università di Twitter che sta affiancandosi e sostituendo quella non meno celebre “della vita”), i discenti sviluppano anche un robusto cospirazionismo, che li porta a vedere manipolazioni ovunque, dalle rilevazioni statistiche alle definizioni che ne sono alla base. Ecco perché s’impone un piccolo momento pedagogico-didascalico, di quelli del tutto inutili e che scivoleranno sul teflon di cui la vostra conoscenza è fatta. Ma non c’è problema, notoriamente vado pazzo per le cause perse.

Una premessa: le definizioni di disoccupazione sono tratte dall’International Labour Organization (ILO), che è un’agenzia delle Nazioni Unite il cui ruolo principale è quello di

«[…] formulare le norme minime internazionali delle condizioni di lavoro e dei diritti fondamentali del lavoratore, tra cui: libertà di associazione, diritto di organizzazione, negoziazione collettiva, abolizione del lavoro forzato, parità di opportunità e trattamento e altre norme che regolano l’intero spettro dei diritti del lavoro. L’ILO fornisce inoltre assistenza tecnica principalmente nelle seguenti aree: formazione e riabilitazione professionale, politiche per l’occupazione, amministrazione del lavoro, diritto del lavoro e relazioni industriali, condizioni di impiego, gestione dello sviluppo, sviluppo di cooperative, sicurezza sociale, statistiche del lavoro, sicurezza e salute sul posto di lavoro»

Quindi, la “fonte” dei criteri metodologici per definire la disoccupazione è questa agenzia dell’Onu e non il Bilderberg, la Trilateral o i venusiani. E men che mai tali criteri sono stati inventati da Istat per compiacere l’esecutivo italiano di turno. Ci siamo, sin qui? Bene. Ed ecco quindi i criteri che definiscono una persona come “disoccupata”, sempre secondo l’ILO:

  1. Non aver lavorato affatto nella settimana di riferimento della rilevazione;
  2. Essere disponibile a lavorare entro le successive due settimane;
  3. Avere attivamente cercato lavoro nelle ultime quattro settimane o avere già trovato un lavoro che inizia nei successivi tre mesi.

Cosa riuscite (o dovreste riuscire) a cogliere, dalla lettera del primo criterio? Una cosa molto semplice: che chi nella settimana di riferimento ha lavorato “almeno un’ora”, non è disoccupato. Questa, da qualche tempo, è divenuta la pietra dello scandalo in Italia, scagliata contro il povero Istat. Ma Istat non fa altro che utilizzare, nelle proprie rilevazioni, i criteri internazionalmente accettati ed adottati, formulati da un’agenzia Onu. Non è che l’Istat, per aiutare il governo italiano a gonfiare le statistiche, si è inventata che è occupato chi lavora un’ora nella settimana: sia chiaro una volta per tutte.

Poiché però delle statistiche non si butta nulla, è possibile usare il primo criterio per avere preziose indicazioni sul concetto di sotto-occupazione. Ad esempio, è possibile chiedere a chi nella settimana di riferimento ha lavorato un’ora o poco più ma sempre meno del “tempo pieno” se sarebbe disposto ed interessato a lavorare più ore. Se la risposta è affermativa, possiamo identificare e dimensionare il gruppo di quelli che hanno un part-time involontario, che rappresenta uno degli indicatori della sotto-occupazione. Un allentamento degli altri due criteri dell’ILO permette di identificare quelli che, pur non essendo occupati, stanno cercando un lavoro ma non sono immediatamente disponibili o che sono disponibili ma non stanno cercando attivamente lavoro. Queste sono due categorie che suscitano abitualmente i lazzi dei commentatori social e a volte anche dei politici. In realtà non c’è molto da ridere, perché si tratta di categorie realmente esistenti, non di ircocervi. Alla prima appartiene ad esempio lo studente che non ha ancora terminato gli studi; alla seconda, chi non è in grado di cercare un lavoro per motivi personali o familiari. Questo gruppo include i cosiddetti scoraggiati.

Di conseguenza, queste due categorie di persone non possono essere ricondotte alle tradizionali definizioni di “occupati” o “disoccupati” né sono parte della forza lavoro, cioè della popolazione attiva, bensì dei cosiddetti “inattivi”.Tuttavia, poiché si tratta di persone che hanno maggiore prossimità alla forza lavoro rispetto ad altri inattivi (come i pensionati), ad essi ci si riferisce di solito come forze di lavoro potenziali.

In breve, il messaggio che sarebbe carino questo pedante post vi veicolasse, è che lavorare un’ora nella settimana di riferimento non è un complotto governativo; che ci sono metodi per identificare e misurare la sotto-occupazione; e che conta anche la “distanza” degli inattivi dal mercato del lavoro. Perché il mondo è sempre un po’ più complesso di come appare visto dai social network. E di solito ci sono meno complotti di quelli che la nostra (vostra) psiche tende a percepire.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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