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Di Pietro: "Sì, volevano uccidermi insieme a Borsellino". Intervista all’ex pm di Mani Pulite

L’ex pm di Mani Pulite racconta ad AgoraVox quando, nel ’92, il Ros informò che sia lui che Borsellino erano in pericolo. Ma l’informativa arrivò troppo tardi per il magistrato siciliano. Secondo Vito Ciancimino Di Pietro si sarebbe forse salvato per volontà di qualcuno cui sarebbe “servito”. I due stavano collaborando su indagini distanti mille chilometri che in comune avevano le tangenti, la mafia, gli imprenditori e un nome che pesa: Salvo Lima. Leggi l'articolo..

«Il piano folle messo a punto per la destabilizzazione del nostro sistema politico-affaristico ha avuto inizio con l’inchiesta di tangentopoli. Oggi è stato irreparabilmente compromesso tutto il sistema». Così avrebbe scritto, qualora il documento depositato al processo Mori risultasse autentico, Don Vito Ciancimino. Nel dattiloscritto, redatto dopo l’agosto del 1992, l’ex sindaco mafioso si sarebbe anche chiesto per quale motivo ad Antonio Di Pietro, allora pm a Milano, condannato da Cosa nostra come Borsellino, fosse stato concesso di salvarsi. AgoraVox ha intervistato nel merito lo stesso Di Pietro, oggi leader dell’Italia dei Valori. 

Quando iniziamo l’intervista le agenzie hanno da poco lanciato le ultime notizie sul processo di Firenze per le stragi del ‘93. I fratelli Graviano hanno ripetuto lo stesso copione del processo Dell’Utri: Filippo, che mai si è occupato di politica, ha risposto alle domande dei magistrati; Giuseppe, che secondo investigatori e pentiti sarebbe stato una delle menti politiche di quel periodo, ha tenuto la bocca cucita, e quando il pm gli ha chiesto di Dell’Utri e della Fininvest si è avvalso della facoltà di non rispondere. «Allo stato. Si è avvalso della facoltà di non rispondere allo stato», precisa Di Pietro, riferendosi a quando, interrogato al processo Dell’Utri, il boss di Brancaccio si rifiutò di rispondere opponendo il suo “stato di salute” e lasciando intendere di poterlo fare in futuro. «Giuseppe Graviano è come l'asso di bastoni che aspetta di capire qual è il ritorno che ne può venire accapo».

Onorevole Di Pietro, lei conosce il contenuto del nuovo documento depositato al processo Mori che la riguarda?

«Ho letto sulla stampa che sono stati depositati questi documenti, conosco la storia, ma non ho li ho visti. Non so se voi li avete. Mi pare che ci sia un passaggio che dice che dovevano far fuori anche me».

Dicono anche di più, ammesso che siano autentici. Secondo Ciancimino Mani Pulite fu “un piano folle per la destabilizzazione” del “sistema politico-affaristico” di Cosa nostra, tanto che anche lei avrebbe dovuto fare la stessa fine di Falcone e Borsellino.


«Guardi, io ricevetti un mare di avvisi sia formali – cioè dall'autorità d’investigazione che mi avvertivano che ero in pericolo – sia dalle autorità informali nel senso che mi arrivavano minacce, lettere anonime, proiettili e quant’altro. Ricevetti anche alcune segnalazioni da parte dei carabinieri, tra cui un’informativa del Ros che avvertiva di un pericolo concreto sia per Borsellino che per me. Adesso io non ricordo esattamente il periodo in cui avvenne ma certamente io... io mi assentai per un periodo di tempo e l'autorità di pubblica sicurezza ritenne di darmi una copertura con documenti di copertura».

Questo successe prima o dopo la strage di Via D’Amelio?

«No, dopo: quando ho visto l'enorme pericolo incombente, preferii andarmene per un mesetto con mia moglie fuori dall’Italia, in Costa Rica, per vedere un attimo cosa stava succedendo. In quel frangente le autorità di polizia, di pubblica sicurezza, mi fornirono i documenti di copertura per proteggermi meglio».

Nel documento Don Vito si chiederebbe perché lei sia stato avvisato e messo in salvo, al contrario di Borsellino: “Anche lui come Di Pietro era messo in conto. Perché Di Pietro è stato avvisato, a chi serve che vada avanti? In questa logica si sta consumando il tutto”. Lei che interpretazione attribuisce a questi interrogativi di Ciancimino?

«Quando arrivò quell’informativa del Ros Borsellino era già morto: io venni maggiormente tutelato proprio perché ero tra i possibili altri obiettivi. E siccome ne erano già caduti due..»

Ciancimino in quel dattiloscritto si domanda perché Borsellino sarebbe stato ucciso prima dando modo a lei di proteggersi, “a chi serve”.

«Io non posso decifrare il retro pensiero di Ciancimino: non saprei proprio cosa dire, non ho idea di cosa avesse in testa. Posso provare a fotografare la situazione».

Prego.


«In quegli anni io feci tutta una serie di investigazioni che poi trasmisi all'autorità giudiziaria di Palermo perché ci sono una miriade di elementi che collegano le indagini di Mani pulite con quelle che stava facendo Borsellino a Palermo. Gli elementi di collegamento erano rappresentati da una parte da quel che andava raccontando Siino (Angelo Siino, il pentito di mafia imparentato con Di Maggio, nonché massone e amico di Brusca, Bontate, Salvo Lima e Totò Cuffaro, ideatore, per Tòtò Riina, della tangentopoli siciliana organizzata da Cosa nostra, ndr), che interrogai anch'io, e soprattutto da quello che avevamo accertato con riferimento a quello che pareva aver preso il posto di Siino: Filippo Salamone. Nell'inchiesta Mani Pulite vennero più volte fuori attività imprenditoriali sospette relative ad imprese del nord tra cui principalmente la Calcestruzzi di Gardini (una filiale della Ferruzzi S.p.A., che in Sicilia sedeva regolarmente al cosiddetto “tavolino” degli appalti di Cosa nostra, ndr) e tante altre situazioni che facevano rifermento anche a tangenti in Sicilia, dove c’era l’ intermediazione mafiosa. Mentre al nord l'intermediazione era a due, tra affari e politica, al sud c'era l'intermediazione di un terzo soggetto: Cosa nostra».

La stessa Corte d’Appello di Caltanissetta, nella sentenza del processo Borsellino Bis, poi divenuta definitiva, nel capitolo dedicato alle ragioni che hanno portato all’accelerazione della strage di Via D’Amelio, ha considerato “imprudente” la scelta di Borsellino di dichiarare senza sottintesi “di volersi impegnare a fondo, nello stesso momento in cui tangentopoli cominciava a profilarsi all’orizzonte” nell’indagine mafia-appalti.

«Credo che sia così, anche se diversi collaboratori di giustizia hanno spiegato che la ragione dell'attentato nei confronti di borsellino non era legata a chissà quale specifica investigazione ma a creare casino».

Destabilizzare e togliersi da torno un magistrato che “mostrava soprattutto di non avere alcuna ritrosia a parlare dei rapporti tra mafia e grande imprenditoria del nord” e che “considerava normale che le indagini dovessero volgere in quella direzione”.

«Su mafia e tangenti. Io con Borsellino m'incontrai un paio di volte dopo la morte di Falcone proprio perché appunto bisognava fare questo scambio d'informazioni sulle indagini. Dopodiché io questo scambio d'informazioni, quest’attività investigativa venne portata avanti da Caselli. Ci incontrammo un paio di volte con i sostituti del pool Caselli e anche con il procuratore della Repubblica di Milano, Borrelli, e fornii tutta una serie di documenti. A Palermo gli imprenditori non parlavano perché avevano paura. Io riuscii a fare un protocollo di lavoro insieme a Caselli con cui si stabilì che gli imprenditori parlavano con me e con la Procura di Milano e noi, per connessione probatoria, ci saremmo tenuti gli imprenditori e le loro dichiarazioni rilasciate ai processi di Milano, in modo da farli processare direttamente lì e non a Palermo perché appunto le indagini di Milano avevano permesso di aprire un varco sull'altro fronte, quello imprenditoriale e politico, che in Sicilia era un po' ermeticamente chiuso».

Perciò la necessità di Cosa nostra di eliminare entrambi..

«A Milano pervenimmo alla stessa analisi di Falconi e Borsellino nel momento in cui arrivammo a Salvo Lima. Noi arrivammo prima a Salvo Lima e da lui scendemmo a valle, perché noi arrivammo ai soldi che partivano dalla tangente Enimont per arrivare a Lima attraverso lo Ior. Il canale investigativo riguardava la Democrazia Cristiana, Salvo Lima curava gli interessi di Andreotti in Sicilia. Poi si accerterà che erano i soldi che finirono nel conto corrente dello Ior. Ci hanno scritto un libro, mi pare di Nuzzi (Gianluigi Nuzzi, Vaticano S.p.A., Chiarelettere, 2009, ndr)».




LEGGI: Trattativa. Le carte di Don Vito: "Fu deciso di salvare Di Pietro e non Borsellino"


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