• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cultura > Di ’Inchiostro di reporter’ e del suo autore: intervista a Diego (...)

Di ’Inchiostro di reporter’ e del suo autore: intervista a Diego Cimara

‘Inchiostro di reporter’ di Diego Cimara, viene pubblicato da Il Mondo Digitale Editore nel novembre 2010 (pag.365, euro diciannove).
 
Si tratta di un libro che è molte cose, alternando inquadrature, visioni e approcci.
 
Già il sottotitolo – 1960-2010 cinquant’anni di strategia della tensione – inquadra una delle nervature pulsanti della narrazione. Cimara ha assistito a decenni di evoluzioni storiche da un punto di vista che si può considerare ‘privilegiato’: ha osservato, registrato, fissato tra immagini e parole quanto gli accadeva attorno in un contesto professionale che si è inevitabilmente mescolato al suo privato.
 
Un libro intimo quanto pubblico, dove i fatti si mescolano a partire dalla vita privata dell’autore che ‘pesa’ esattamente come gli accadimenti che hanno segnato cinquant’anni di storia europea, cinquant’anni di giornalismo, cinquant’anni di in apparenza noti, oggi, ma che celano ancora sostanze meno diffuse, meno comprensibili, meno indagate.
 
Il lettore è catapultato sin dal Prologo, in un mondo che ne racchiude molti, in un incedere tra memorie, affetti, tragedie, storie e dinamiche della Storia. La scrittura è immediata, diretta, alterna registri e approcci, resoconta quanto dibatte, ricorda poi tratteggia quelli che per l’autore sono diventati insegnamenti, considerazioni più generali su questo vivere dai contorni sfocati, mutevole a seconda degli spazi, i tempi e momenti in cui accade.
 
Cimara si espone forse nel modo più intimo e intenso possibile, tra imperfezioni, cadute, drammi (personali quanto sociali). Le emozioni fanno capolino, le cronologie scandiscono, le esperienze dirette filtrano.
 
Pasolini dice che Cefis ha fondato la loggia P2 per poi passarla al duo Gelli-Ortolani, dopo lo scandalo dei petroli, tra il 1982 e il 1983. Troppi segreti incoffessabili per un poeta, non solo sul delitto Mattei ma anche delle stragi di Stato, di cui quel delitto è la prima pietra. Pasolini viene ucciso dai servizi segreti. Incoscientemente sta per dire una verità che nessuno vuole che venga a galla: e cioè che con l’uccisione di Mattei prende il via un’altra storia d’Italia, un intreccio perverso e di fatto eversivo che si trascina per decenni. Pasolini è stato ucciso perché intellettuale “scomodo”. Certo, e non solo per via delle sue critiche al sistema, bensì per le sue accuse. Fondate, precise, documentate da prove reali di cui viene in possesso.Come scrive sul Corriere della Sera un anno prima di morire, sa. I mandanti dell’omicidio politico se ne stanno molto in alto, e di essi parla Pasolini in Petrolio. Il poeta è barbaramente massacrato quella notte all’idroscalo di Ostia,con due auto gemelle per questo: perché sa la verità sulla morte di Enrico Mattei. Sa chi sono i mandanti di quello che si rivela abbattimento in volo: nell’aereo è stata inserita una bomba di150 grammi di tritolo, che si attiva durante la fase iniziale di atterraggio. L’aereo esplode in volo. Il testimone principale, il contadino Mario Ronchi, rilasciò alcune interviste agli organi di stampa e a noi della RAI (che ne censurò le affermazioni), ma in seguito ritrattò la sua testimonianza. Nel 1972 Pasolini scrive quello che è il “romanzo-denuncia delle stragi”: Petrolio, incompiuto e pubblicato postumo.
(pag.164)
 
La mattina di giovedì 9 marzo 1978, Aldo Moro riceve un’offerta da Giovanni Leone: sono pronto a lasciare fin da ora il Quirinale purché abbia la certezza che tu mi sostituirai. È un passaggio di consegne: Moro è il candidato dei cattocomunisti. Allo scadere dei 7 anni il primo cittadino della Repubblica sarà lui. Lo sanno tutti. Lo sanno anche le Brigate Rosse.Quanto più si sa, tanto più bisogna ancora imparare. Con il sapere cresce l’ignoranza del non sapere, o meglio la coscienza del non sapere tante cose che si dovrebbero conoscere. La provvisorietà è una condizione esclusiva dell’uomo del ventesimo secolo.
Venerdì 16 Marzo. Via Fani. 16 marzo ore 9,15 a Roma. All’incrocio di via Fani con via Stresa, l’auto del presidente della Dc Moro e l’auto della scorta sono prese d’assalto da un commando di terroristi, alcuni dei quali travestiti da aviatori. Le guardie del corpo cadono per una ottantina di proiettili sparati in meno di un minuto: 4 uomini restano uccisi all’istante, un quinto morirà tre ore dopo all’ospedale. Il leader politico,trascinato fuori dalla sua macchina,viene caricato su una 132 nera deiterroristi e portato via. Alle 10,10 arriva all’Ansa di Roma la prima telefonata delle Brigate rosse che rivendicano la paternità della strage e del rapimento: è l’inizio di una lunga serie di telefonate e messaggi dei rapitori fino al tragico epilogo.
 
Mi trovo per caso a Vigna Clara per una improbabile mostra su orologi antichi. Con me l’operatore Alessandro Bianchi con il quale stiamo decidendo a quale bar andare per trovare dei cornetti caldi. Dal baracchino che capta le onde delle forze dell’ordine, che ho sempre con me, sento prima una ambulanza in via Fani, poi una seconda, una terza. Dico alla troupe di correre come pazzi sul posto dove arriviamo e filmiamo per primi, praticamente non c’è nessuno, il defecatio mortis di quei poveri cadaveri ancora non coperti da lenzuola come poi farà vedere Frajese che arriverà con una macchina da ripresa elettronica, realizzando una differita, mentre noi siamo con la pellicola che ha i suoi tempi tecnici. Via Fani è il passaggio di una informazione da vecchia pellicola a nuova
elettronica. Nel mio pezzo per il tg delle 13 e 30 dico: “Via Mario Fani, angolo via Stresa. Qui, sotto un’insegna Snack Bar, in una strada medio-signorile che si affaccia ancora su accenni di campagna, è stato rapito alle 9,15 l’on. Aldo Moro.Il commando è composto da 12 terroristi tra cui una donna. L’autista e la scorta di Moro, in tutto 5 uomini, sono stati massacrati senza pietà, a raffiche di mitra. […]
(pag.194-195)
 
Al di là delle ricostruzioni storiche, il libro è corredato da oltre otto pagine di bibliografia ed è stato realizzato grazie alla collaborazione della cineteca, dell’archivio centrale RAI, delle teche RAI e di RAInet. Cimara non lascia nulla al caso.
 
 
Rivolgo all’autore alcune domande.
 
 
1.
Chi è oggi un reporter? Nei cinquant’anni che affronti nel tuo libro, è cambiato il lavoro del reporter? È cambiato il modo in cui viene considerato il mestiere?
 
È cambiato tutto dall’avvento del computer, soprattutto quello portatile che ti consente in qualsiasi momento di avere le agenzie sotto mano, skype e satellitari gps. Il lavoro ormai è facilissimo, per chi non è embedded, se ne sta in albergo e manda avanti i reporter di’immagine che sono quelli che rischiano davvero, evidentemente nel quadro dei vari conflitti. Se andiamo a vedere alcuni film, come l’anno vissuto pericolosamente o Salvador, quel tipo di inviato esiste ancora, è quello che, spacciandosi per turista, con microtelecamere, e amicizie all’interno dei vari servizi segreti, torna a fare del vero giornalismo alla Barzini, Ettore Mo, Marcello Alessandri o Tiziano Terzani. Oggi il vero reporter è un illustre sconosciuto al soldo delle major televisive, che ogni giorno riversano tramite l’evelina internazionale chilometri di immagini, che se ne va in giro con un zaino, alcune microtelecamere, tanta salute, coraggio, faccia tosta, conoscenza di dialetti arabi o indonesiani e vende a caro prezzo gli scoop che riesce a realizzare rimanendo sempre nell’ombra. Altri, spacciando come proprie, le sue immagini, mettendosi in vetrina negli stund up di veri e propri set dove sembra che si stia sparando, invece è tutta una farsa, diventeranno noti perché hanno le amicizie giuste per entrare nelle case di tutti noi con una vera truffa.
 

2.
Il prologo inizia con: “Se questo libro è troppo lungo, è perché non ho avuto il tempo di farlo breve”.
Poi, nel libro – che in chiusura definisci ‘confidenze’ – ti esprimi su diverse tematiche, accanto a fatti storici precisi e contestualizzati, alterni registrazioni del tuo vissuto ad annotazioni che hai maturato nel corso del tuo lavoro, di ciò che hai visto e vissuto. Ad esempio, sempre a proposito dello scrivere e del pubblicare: “Quello che non funziona più è il mito illuministico di scrivere per la società. L’Organizzazione ha cambiato le carte in tavola. Oggi scrivere per la società vuol dire far navigare la tua opera in un mare di merda, la quale rende tutto omogeneo. […] Allora non te la prendere se non pubblichi, se l’editore o la rivista ti dice che non sei in linea col programma, col mercato, con la moda, che il tuo linguaggio non è abbastanza distensivo e bastardo. Metti nel cassetto e non pensarci più.”
Qual è stato il tuo approccio, dunque, rispetto a questo lavoro di scrittura e memorie, di recupero, registrazioni, dichiarazioni e annotazioni libere? Perché hai scelta questa modalità narrativa?
 
Perché quando non si ha niente non si ha niente da perdere e qualche sassolino dalle scarpe è giusto,rispetto a se stessi, toglierselo. Quello che racconto in Inchiostro di reporter è tutto accaduto, è tutto vero ed è il seguito del grande successo di Stragi di stato che dopo 6 anni di vendite non ha subito nessuna denuncia per diffamazione a mezzo stampa.
 

3.
Nel libro tratti da diverse angolazioni della c.d. figura dell’intellettuale.
Alla luce delle tue esperienze personali e professionali, che succede oggi in Italia? Quale ruolo, quali competenze, mestieri e ascolti trovano (o possono trovare) gli intellettuali? Pensi ci siano altre dinamiche, fuori i confini italiani?
Non c’è stato scrittore prestigioso o mo­desto che non si sia fatto affascinare dall’esercizio dell’impegno lette­rario: genesi dell’intellettuale “di sinistra”. Stimolante per chi lo mostra; poco impegnativo, per chi lo usa, l’intellettuale, nel menù letterario, è fast-food perché la tristezza ce l’hanno messa i cioccolatini che offrono, a caso defini­zioni, massime e proverbi da Cicerone a Talleyrand, da Sant’ Ago­stino a George Bernard Shaw.
Ma gli intellettuali non sono mai riusciti a nascondere il pavoneggiamento semantico nell’intento di ostentare la patente di saggio, di psicologo del doposcuola, di filosofo da salotti mondani.
Io sono un intellettuale anticomunista pret-à-porter, i miei scritti, o le conferenze o i dibattiti sono destinati ai fans dell’effime­ro, in quel condominio dove co­abitano senza litigare le cose, le persone, il costume.
Il mondo è diviso in due categorie: chi scrive e chi li legge. I primi scrivono cose ovvie pensando che siano ironiche saggezze, i secondi leggono ironiche saggezze pensando che siano ovvie. L’intellettuale dice spesso una mezza verità ma non coincide mai con la verità: o è una mezza verità, o è una verità e mezza.
È un vecchio artificio quello di spacciare il «potrebbe-essere-stato» dimostrabile per un «è stato» non trattabile in via sperimentale: così si finisce col chiamare «vita» ciò che vita non è, e «comunicazione» ciò che non è lingua. Bisogna leggere secondo le proprie inclinazioni, perché quando si legge per dovere non serve a niente perché è la cultura che ci fa crescere e l’esperienza ci fa saggi. Scrivere è come librarsi sopra l’abisso trattenuti soltanto dalla grammatica di un lavoro di cesello: temendo sempre che scappi la punta dello stile perché l’ideale in fatto di stile è non averlo. I mediocri non smettono di esserlo solo perché sanno scrivere. Scrivere una storia accaduta veramente, per chi lo sa fare, è spesso difficile. Il tentativo di definire l’indefinibile, di risalire all’ori­gine porta alla constatazione che i cronisti si contraddicono: in questo si nasconde la loro saggezza nascosta nelle regio­ni dell’esperienza. I miei resoconti vanno letti mentalmente, non recitati ad alta voce: nascono nel silenzio, e non voglio che muoiano nel rumore. Il pensiero vola e le cose scritte se ne stanno a terra, volano basso. Ecco il dramma dello scrittore. Leggere ciò che si è vissuto ha sulla saggezza lo stesso effetto dei capitoli di storia. Immagini verbali rivelatrici del bisogno e della capacità di vesti­re l’esistenza, il vissuto, il quotidiano d’un manto di sogno. Per scrivere bene, bisogna essere molto cattivi. Bisogna smontare il mondo, per ricostruirlo pezzo per pezzo, con infinita pazienza. Il reporter, il cronista non vuole essere letto, ma imparato a memoria.
Ormai è come se ci si dovesse vergognare di es­sere pensatori. Scrivere per le news tv fa parte della cultura telegrafica del “pensiero corto”. Nella filosofia del pensiero corto, pensare è ritardare il rapporto con le cose. Il pensiero lun­go è una somma di pen­sieri corti. “Nel mezzo dél cammin di nostra vita”, “Quel ramo del lago di Co­mo”, “E la sventura rispose”, “Cantami o diva del pelide Achille” sono certamente pensieri concentrati. E la poesia sibilante e dentale di Eliot,“Steel, stone; steel, stone; steel stone...” vuol dire acciaio e pietra ma è anche il pas­so chiodato e cadenzato di un esercito in marcia, il più terrificante e il più lungo dei pensieri corti.
Ci ha spie­gato Michaud: “ noi viviamo in un mondo sin­copato, dove, aggiungiamo noi, la scrittu­ra robotica che tanto concede alla punteggiatu­ra, può essere anche profonda e intensa, ica­stica e acutissima dove il pensiero corto riesce ad avere un respi­ro lungo. E può risultare bel­lo il mondo senza avvenire ma con mille futuri, un mon­do esponenziale in un in­finito di possibili dove si rico­mincia sempre, ma senza il pesante masso di Sisifo. Il linguaggio è lo strumento che l’uomo usa più frequentemente: niente di strano, quindi, che il reporter diverta: se non altro perché mette alla berlina qualcosa di perfetto e di cui ci rincresce non poter fare a meno. Le fi­gure e le maschere del pen­siero corto sono il telefono portatile, l’sms, l’Ipod, il video clip, l’e-mail, il rap, gli slogan pubblicitari, il blob, la cartellonistica, lo zapping, i sondaggi, la tv digi­tale e interattiva, il chat tele­matico, gli spot, i frontespizi d’autore, le retrocopertine, l’incontro di due sguardi in una vetrina ve­getale. Non è possibile descrivere il mondo sempre realmente perché il limite del linguaggio rappresenta anche il limite della perce­zione del mondo così come appare nel campo della coscienza. Il Pen­siero corto economizza, non paga il biglietto del­la comples­sità, sempli­fica e imbro­glia perché soddisfa l’avarizia del padre ma delude il desiderio del figlio. La fantasia inganna la realtà. Infat­ti il pensiero corto è la disso­luzione del pensiero siste­matico, è il mondo a mille dimensioni”.
Se Karl Kraus avesse scritto il Capita­le, lo avrebbe fatto in due capitoli. E l’illusione comunista non avrebbe avuto la durata di un secolo, sia pure breve.
Nel mondo del pensiero corto anche l’Apocalisse è corta. Leggendo i reporter si ha l’impressione che si conoscano tutti bene fra loro. Un inviato, per essere detto da uno, deve essere fecondato da molti.
Passa dalla muccapazza allo tsunami, dall’ Aids all’in­fluenza aviaria, transitando per l’obesità dei bambini e per il terrorismo islamista, dalla siccità alla bomba ato­mica coreana... E sempre correndo da un’emozione a un’immagine, da un bacio di cioccolata a una catastrofe,dall’io minimo alla rivolta delle periferie, la vita diventa un viaggio velocissimo nella illogicità dell’ a­sprezza sonora,un pensoso galleggiare nel nulla. L’illu­sione è quella dei frattali, con il pensiero corto che riprodu­ce intensamente ma mini­mamente quello lungo, co­me in un gra­nello lavico c’è già intera la forma del­la rovina da cui si è stac­cato. E’ l’idea (ingenua?) che un gi­gante sia un nano molti­plicato per cinque, che un bonsai sia il riassunto.
Merce rara il sogno: se non in una serie d’esibizioni cinematografiche o televisive che ne fanno un grandguignolesco incubo al quale nessuno vuole indulgere. Non ci sono tracce allucinatorie, infatti, nell’interpretazione poetica dell’esistenza contenuta nelle massime. È come se il mondo della violenza, della sopraffazione e dell’orrore, vuoi quello reale che quello in versione fiction, sia, per quanto dura l’attimo di creatività, bandito dalla mente ed estromesso dal cuore.
 

4.
Nel corso della narrazione, non celi il tuo vissuto, ciò che ti accade anche dal punto di vista professionale. “Adesso gironzolo per i corridoi del TG1, disoccupato, con aria misteriosa”, scrivi iniziando l’anno 2006, ma anche, poco dopo: “Penso che se dovessi scegliere fra tradire il mio giornale e tradire un amico, tradirei subito il mio amico”.
La grande passione-ossessione per il tuo lavoro, mi sembra percorra tutto il libro, attraversando poi grandi delusioni e tradimenti. Cambieresti qualcosa, di ciò che hai fatto, delle scelte professionali che hai preso? Pensi non esistano compromessi che possono permettere alle passioni-ossessioni come la tua, di non finire risucchiate nel vortice? 
 
Non esistono, e non devono esistere compromessi nella professione con la P maiuscola. Vengo dalla scuola di Aldo Salvo del 1965 che partorì Vespa, Frajese, Michelini, Angelini, Morace, Icardi, Ferretti e tanti altri che tanto hanno amato il loro mestiere per sacrificare la loro vita e la famiglia. Per più di 40 anni non ho fatto carriera, non avevo né voglia, né sensibilità, né tempo per frequentare i potenti, o le loro mogli, il giorno dopo che sono andato in pensione, sono stato riassunto, con un grado che non avrei mai sognato. Chissà quante pene dovevano espiare, loro che hanno i cadaveri negli armadi ed io non lo so.


5.
Scorrendo fatti, memorie e riflessioni, ho avuto l’impressione che tutto ciò che scrivi sia una sorta di ‘liberazione’, come se tu, rispetto a tutto questo, non avessi più nulla da perdere. Anche perché non mancano le frasi inequivocabili rispetto a precisi contesti che anche il lettore meno vicino al tuo lavoro e al tuo vissuto, può intuire (Un esempio tra i tantissimi, l’inizio del 2004: “Ogni volta che guardo il mio direttore mi convinco sempre più che Dio ha un ottimo senso dell’umorismo”.). 
È così?
Dopo ciò che hai messo in questo flusso narrativo, dove sta andando Diego Cimara?
 
Non è il riposo del guerriero,ma è la saggezza che il guerriero ha maturato per guardare con un occhio e vedere con l’altro. Il mio lavoro di consulente nel frontisterion Rai per il Parlamento richiede esperienza e pazienza,non ci si nasce…
Il saltimbanco ha posato il suo sguardo sulla pianura e il suo violino lungo il ponte della nebbia.
 
 
 
Ringrazio Diego Cimara.
 
 
 
 
Link
La scheda del libro dal sito dell’editore.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares