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Della morte del tecno-utopismo, e di un suo effetto indesiderato

E se in Italia insieme al tecno-utopismo stesse morendo anche il tentativo di usare Internet per promuovere il cambiamento?

Mi spiego. L’attuale fase politica è forse la più confusa e magmatica dal 1994. Partiti e alleanze tentano di ridisegnarsi e sopravvivere, ma non incontrano la fiducia degli elettori. Si discutono e vengono approntate riforme che mettono in discussione concetti dati per acquisiti sul lavoro, la previdenza sociale, il rapporto tra pubblico e privato – per non parlare dell’architettura stessa delle Istituzioni. Riemergono critiche strutturali al sistema economico e finanziario. Insomma, un quadro magmatico, di crisi ma anche di opportunità. Perché, finalmente, sono le fondamenta a essere in discussione.

Soprattutto, un quadro in cui sembra ragionevole aspettarsi che uno strumento come Internet possa giocare un ruolo tutt’altro che di secondo piano. In particolar modo ora che la richiesta di partecipazione è assoggettata, a sua volta, all’ennesima contrapposizione tra retoriche: da un lato quella dei populisti che vorrebbero disintregrare la politica, dall’altro quella dei tecnocrati che vorrebbero disintegrare i cittadini. Internet potrebbe costituire un potente strumento di costrizione alla realtà, da questo punto di vista. Perché non impone alla classe dirigente di abdicare interamente al suo ruolo, e allo stesso tempo le fornisce un mezzo versatile e pervasivo per coinvolgere qualunque netizen nei processi decisionali (anche qui, a vario titolo) – non ultimi, quelli che riguardano proprio la governance della Rete.

E invece, passata la sbornia dell’opposizione dal basso al berlusconismo (dal Popolo Viola alle amministrative milanesi) – e passata di conseguenza la retorica dei giovani attivisti su Facebook ‘Italia migliore’ – siamo ripiombati nel nulla. Anzi, è andata peggio. Ai richiami alle piazze (inesistenti contro ACTA, per esempio) siamo passati all’indignazione per noia: quella contro l’ultima uscita di Stracquadanio e Giovanardi o per Sara Tommasi senza mutande. I tentativi di replicare modalità di protesta alla Occupy Wall Street hanno lasciato il posto all’ubriacatura per l’insana bellezza di Pinterest e alla caccia per l’ultimo scambio infuocato tra celebrità su Twitter. E quando la protesta c’è stata davvero, come per il movimento No Tav, è stato tutto uno scambio di insulti reciproci, come si trattasse di una partita di pallone e non di un’opera da miliardi – oltre che di un cortocircuito della nostra democrazia.

E’ come se il silenzio attonito di cittadini sempre meno rappresentati e sempre più impotenti si fosse trasferito sulla retorica della Rete, uccidendola. Il che non sarebbe un male, se facendolo non avesse praticamente ucciso anche le velleità di chi – magari con obiettivi e modalità opinabili – almeno ci stava provando.

Naturalmente nulla di tutto ciò è scienza, ma sensazione. Però la domanda resta: perché proprio ora che la storia ci consegna un’opportunità forse irripetibile per far sentire la nostra voce nel cambiamento del Paese, e ci dona uno strumento potentissimo per spargerla ai quattro venti, abbiamo deciso di tacere?

Io temo ci sia una risposta: perché il mezzo non è il messaggio. Perché manca un’idea di società, di convivenza, di politica per cui batterci. Perché forse non abbiamo capito che se non è questo il tempo dei sogni, domani – quando i rapporti di potere si saranno riassestati – sarà molto più difficile realizzarli. E sarebbe davvero un peccato se, fallita l’indignazione, ritenessimo fallita anche la speranza.

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