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Dal Guercino a Caravaggio

La mostra a Palazzo Barberini è stata prorogata di una settimana. Doveva concludersi l’otto febbraio. Alcune opere hanno fatto ritorno nelle collezioni e nei musei presi in prestito. Comunque sono molti i quadri rimasti: capolavori imprescindibili dell’arte del XVII sec, che grazie ad un personaggio di spiccate qualità da collezionista e critico d’arte come Sir Denis Mahon hanno potuto rifiorire nel loro splendore.

La mostra è stata affrontata partendo dal punto di vista di quest’uomo, che avrebbe voluto vedere con i propri occhi la mostra, da lui in teoria creata, ma che di fatto per la sua scomparsa non ha potuto vedere realizzata. Sir Denis Mahon è stato uno studioso di arte e soprattutto d’arte seicentesca. Quando quasi tutti i critici disprezzavano questo secolo, declassandolo come un periodo infelice per l’arte, lui si batté per ridare dignità a maestri quali il Guercino, Domenichino, Poussin, Guido Reni e non da ultimo il Caravaggio. Il giudizio impietoso di Ruskin, critico eminente, sintetizza il pensiero: «l’arte del XVII sec si era chiuso come una tomba sull’arte del mondo».

La mostra si apre sulla tela del Guercino “Venere, Marte e Amore”, dipinto che mostra con tutta la sua eloquenza la maestria con la quale il pittore centese si presta a dare vita ad una scena ben orchestrata. La figura del bambino che sta scoccando una freccia, guarda di fronte all’interlocutore ossia Francesco I Duca di Modena, committente dell’opera, mentre Marte compare da una tenda color scarlatto e Venere indica con la mano proprio il destinatario dell’amore che sta per essere acceso. Entrando nel vivo della mostra si possono ammirare “Incredulità di San Tommaso”: scena impregnata di realismo. San Tommaso si avvicina a Gesù risorto con gli occhi spalancati, mentre tende la mano per toccare la ferite al costato di Gesù che con una espressione paziente, un braccio spalancato e l’altro che tiene una bandiera bianca, sembra voglia conferire con il Santo. Merita particolare attenzione la “Madonna del passero”, in questa immagine il salvatore viene dipinto come un bambino comune mentre è in braccio alla giovane madre Maria, che non ha nulla dell’iconografia classica. Questa gioca con il figlio tenendo sulla mano un passero legato ad un filo quasi invisibile che porta alla mano del bimbo. I colori tenui e l’atmosfera calda, il restringimento del campo visivo che si focalizza sulla coppia danno il senso dell’intimità dei due che come in una normale scena quotidiana trascorrono il giorno. I due modelli della “Sibilla” esposti nella mostra, sempre del Guercino differiscono tra loro per rappresentazione. La prima ripresa a figura quasi intera, una bellissima donna adornata di stoffe pregiate dove i colori spiccano e danno alla tela una brillantezza unica; la seconda Sibilla è impregnata di toni decisamente più cupi, non lasciando spazio alla bellezza ma alla saggezza della profetessa colta nella meditazione.

Le opere di Guido Reni si aprono a richiami orientali con «Salomè con la testa del Battista», cui fa da contrappunto l’estremo verismo di “San Pietro penitente” ripreso in primo piano mentre piange disperato creando un legame di empatia con lo spettatore. E’ una tela ridotta cui il primo piano del santo ripreso nella commozione con i particolari del viso mostrano la sensibilità e il virtuosismo dell’artista. Occupa un’intera parete di fondo “Atalanta e Ippomene”, sempre di Guido Reni. La scena raffigura la ninfa chinata a raccogliere i pomi d’oro, mentre Ippomene si volta a guardarla. Le pose sono quasi teatrali e formano un gioco di corpi che danzano, i colori freddi su cui trionfa un azzurro ghiaccio danno un tocco in più di eleganza all’opera. La mostra continua omaggiando Sir Francis Mahon che con estrema lucidità ha salvato molte tele, a cui altrimenti sarebbe riservato loro un ruolo di secondo piano. E’ il citato caso del “San Giovanni Battista”, che Mahon riconobbe come opera del maestro lombardo Caravaggio. Era appeso nella sala del Campidoglio sporco e malmesso e oggi grazie al suo intervento è conservato ai musei Capitolini. La Sibilla del Domenichino o meglio “Sibilla cumana”, un soggetto molto ricorrente nella pittura dell’epoca, è ripresa in primo piano con uno spartito che richiama la musica, e uno sguardo concentrato della Sibilla mentre sente il canto delle altre Sibille. Dal museo di San Pietroburgo arriva “L’assunzione di Maria Maddalena in cielo” come anche l’opera di Poussin “La battaglia tra Israeliti e gli Amaleciti”. Le ultime tele in mostra si concentrano sulla figura di Caravaggio con il capolavoro “Giuditta e Oloferne”, splendida e spietata ricostruzione dell’omicidio compiuto da Oloferne per salvare il suo popolo. Giuditta è intenta a decapitare con una lama la testa di Oloferne.

La crudezza della scena è resa al meglio con l’espressione del morente a cui viene conficcata la lama nel collo da cui esce un fiotto di sangue, che indica quasi il trapasso all’altro mondo ma che ancora nel sussulto del dolore è per metà ancora in vita. L’avvenenza di Giuditta è contrapposta al viso rugoso della sua serva che aspetta col sacco in mano per gettarci dentro la testa decapitata. Allo scadere della mostra manca “Il suonatore di liuto” del Caravaggio ritornato all’Ermitage, dipinto in giovane età dal maestro Michelangelo Merisi, come nel caso di “Bacco malato”, qui visibile invece, che raffigura Caravaggio stesso. Malato con un colorito emaciato nei suoi primi anni a Roma, quando ancora non conosceva la fama, che sarebbe arrivata a breve.

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