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Da Embraco a Whirlpool: l’incubatore degli zombie

Unire due dissestati produttori italiani di compressori per frigoriferi. Questa l'idea del governo, per accorciare la filiera e far nascere "un player europeo". Un incubatore molto peculiare

 

Tra gli oltre cento tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico, ora è il turno di trovare una sistemazione a Embraco, fabbrica di compressori piemontese di Riva di Chieri, da cui la controllante Whirlpool ha deciso di disinvestire. Ora il governo ha deciso di sommare due dissesti per fare una forza. Se dico che sono scettico mi accuserete di disfattismo? Pazienza.

Dopo l’annuncio del disimpegno di Whirlpool dall’impianto torinese, il Mise tentò di trovare una realtà industriale subentrante, come spesso accade in casi del genere. Ora, io non vorrei essere accusato di faciloneria ma credo che, quando una azienda va a gambe all’aria, servirebbe analizzarne approfonditamente il motivo, e non lasciarsi trascinare dalle pur legittime interpretazioni sindacali, che di solito tendono ad essere del tipo “abbiamo il portafoglio ordini che scoppia per i prossimi mille anni, vogliono solo delocalizzare”.

Whirlpool, in termini di “buonuscita”, mise sul piatto venti milioni di euro per reindustrializzazione del sito. Purtroppo, i giornali narrano che metà di quella somma sarebbe finita dissipata nell’avventura della società Ventures, subentrata a Whirlpool, e che ambiva a produrre robot per pannelli fotovoltaici e filtri per la depurazione dell’acqua. Ahimè, la cosa finì male: i dieci milioni a fondo perduto pagati da Whirlpool

[…] sarebbero stati utilizzati per pagare consulenze tecniche da importi spropositati da parte dei vertici di Ventures. Un presunto giro di mazzette su cui indaga anche la procura di Torino.

Nel frattempo, a qualche centinaio di chilometri di distanza, un’altra fabbrica di compressori finiva in dissesto. A Mel, nel bellunese, dopo lunghi anni di peripezie e sacrifici salariali del personale, la società cinese ultima acquirente di quella che oggi si chiama ACC, ha gettato la spugna ed i suoi trecento dipendenti nell’angoscia, ed è tornata in amministrazione straordinaria.

Oggi, come si diceva all’inizio, il Mise ha avuto un’idea: accorpare la ex Embraco e la ACC, in un polo dei compressori veneto-piemontese. L’idea di business la spiega la sottosegretaria Alessandra Todde:

La pandemia ha modificato gli equilibri produttivi nel settore e ha fatto emergere una domanda di componenti da parte dei produttori che vogliono un player europeo, per accorciare le filiere ed emancipare gli operatori dagli unici due big player al mondo, in Cina e Giappone.

Che è interessante, come motivazione, e astrattamente verosimile. Le domande restano le stesse: il dissesto dei due precedenti impianti a cosa è imputabile, esattamente? Solo alla concorrenza dell’Est su manufatti comunque di non elevato valore aggiunto? A incompetenze specifiche del management dei due impianti italiani? Passi per i cinesi ma Embraco era controllata da una multinazionale americana. Quindi, ogni ipotesi di rilancio presuppone un piano industriale realistico, che a sua volta non può prescindere da una analisi spietata di cosa non ha funzionato.

Certo, è suggestiva l’ipotesi del reshoring continentale che si inscrive nello “spirito del tempo” dell’accorciamento delle filiere. Ma che questo rimpatrio europeo assurga a rilevanza strategica nei compressori di elettrodomestici bianchi, quasi fossero, che so, estrazione di terre rare o produzione di celle per batterie per veicoli, mi lascia assai perplesso, per usare un eufemismo. Qualcuno teme che i cinesi o gli americani vogliano lasciare la vecchia Europa senza frigoriferi, ricattandole con l’esclusiva della produzione di compressori?

Andiamo avanti. Ogni piano industriale degno di questo nome necessita di stima di volumi prodotti. Anche venduti, credo. Ecco quello della nascitura ItalComp:

Il piano riguarda oltre 700 addetti tra Torino (400) e Belluno (300), prevede un investimento da 50 milioni entro il 2024 e la produzione a regime di 6 milioni di compressori all’anno destinati ai big del freddo in Europa, da Whirpool a Bosch, con motori realizzati a Riva di Chieri, sede della ex Embraco, e assemblati nella fabbrica di Mel, nel Bellunese.

Dotazione di capitale iniziale: dieci milioni da Invitalia, il braccio pubblico delle reindustrializzazioni, guidata da Domenico Arcuri, ed altri dieci che sono il resto dell’impegno in uscita di Whirlpool. La produzione dovrebbe partire nel 2022, in attesa della quale si utilizzeranno prepensionamento, dimissioni incentivate, immagino cassa integrazione in deroga. Alla fine, potrebbero restare assai pochi lavoratori arruolabili nella nuova avventura.

Difficile sfuggire all’impressione che i livelli occupazionali siano il pivot (o la variabile indipendente) attorno a cui si creano piani di produzione. Alla fine, è il modello Ilva ma anche quello Alitalia e viceversa. Le vendite seguiranno, oppure no.

Invitalia punta ad una iniziativa mista pubblico-privata, col pubblico non oltre il 70% ed exit a cinque anni, come ogni private equity che di rispetti. Segnali di fumo sono partiti anche in direzione delle regioni Piemonte e Veneto, per entrare nel capitale.

Come finirà? Per ora, pare che la Fiom sia entusiasta della formula “mista”, che mista non è, e la presenti come il futuro del nostro paese. Come del resto accade da decenni, in casi simili. Io resto perplesso per questo tentativo di unire due debolezze per ricavarne una forza o quasi. Sempre entro un settore a basso valore aggiunto, la vera maledizione, per nulla casuale, del nostro paese. Con queste soluzioni, il rischio che l’intervento pubblico torni in modalità Gepi è altissimo. Anche se lo si presenta con terminologia e suggestioni da tempi modernissimi, tra turnaround e incubatori. Di zombie, temo.

Foto di MichaelGaida da Pixabay

Questo articolo è stato pubblicato qui

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