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Crocifissione al Festival di Sanremo?

Amadeus esordisce in diretta nella prima serata al Festival di Sanremo con il segno della croce. Un gesto confessionale di parte “poco opportuno” in quel contesto, come ha sottolineato il segretario Uaar Roberto Grendene, contattato da AdnKronos. Un commento pacato che ha scatenato una narrazione tossica, con attacchi di giornali e accuse di estremismo dispensate a piene mani.

Nello sketch durante il nero prima dell’entrata in scena, Amadeus e Fiorello fanno battute sul toccarsi gli “scongiuri” e si parte con un siciliano “u Signuri ti protegga”. Poi si accendono le luci e Amadeus compare in cima alla scalinata: il suo primo gesto in primo piano, plateale e ben studiato, è farsi il segno della croce prima di scendere. All’inizio della seconda serata, Fiorello scherza con Amadeus sulla polemica del giorno prima: è “l’unico uomo al mondo che riesce a fare una polemica facendosi il segno della croce”,

Ma, al di là delle battute, la polemica non l’ha creata l’Uaar. Grendene si era chiesto infatti: “Come sarebbe stata presentata la stessa situazione se anziché fare il segno della croce, Amadeus avesse esposto la nostra tessera in mondovisione?”. “Probabilmente ci sarebbero state delle proteste, dicendo che Amadeus aveva occupato lo spazio pubblico promuovendo la sua concezione del mondo. E questo è ciò che è successo”, aveva aggiunto.

Se stride il paragone con la tessera Uaar, è sufficiente citare un qualsiasi altro gesto rituale di natura religiosa. Una invocazione tipica dell’ebraismo, o della religione islamica, una qualche forma di benedizione o litania sarebbero adatte al contesto? Probabilmente no. Invece i gesti cattolici non sembrano fuori luogo, poiché siamo immersi in un contesto culturale condizionato dalla Chiesa cattolica. Nella scuola, negli uffici, nelle istituzioni, nei comportamenti dei rappresentanti istituzionali fino al massimo grado. È ragionevole pensare che non sia casuale: “Amadeus, che è un professionista, non il primo che capita, e la regia del Festival di Sanremo, hanno voluto inserire quel gesto”, puntualizza il segretario Uaar. Si tratta di precise scelte: “Non è che è un conduttore di una trasmissione o addirittura un giornalista che legge le notizie, può scegliere il tipo di abbigliamento, gli ornamenti, le spille che mette. Per cui è ovvio che c’è una scelta dell’emittente, in questo caso del servizio pubblico”.

Difatti non è di certo la prima volta che la religione cattolica viene esaltata in Rai. Persino per l’Agcom, che ha respinto un ricorso dell’Uaar, è normale l’assoluto predominio clericale. Egemonia certificata anche dalle percentuali bulgare di presenza cattolica o filo-cattolica in tv. In pratica un monopolio: a dimostrarlo anche solo gli innumerevoli servizi dei telegiornali, quando si parla di religione o di ateismo, che hanno una impostazione preconcetta. Tra i casi più eclatanti: Roberto Balducci, già vaticanista del Tg3, rimosso dall’incarico nel 2009 per aver ironizzato sui “quattro gatti” di fronte a papa Ratzinger; o un servizio del Tg1 dedicato a Bergoglio, da poco intronizzato, nel 2013 in cui un fedele etichettava gli atei come “disabili del cuore”. Ma anche episodi più folcloristici, come una suora cantante che fa recitare il “Padre nostro” durante un contest musicale. Da questo scenario atei e agnostici sono di fatto esclusi. Di solito, non sono presi sul serio o trattati da macchiette. Nei rari casi in cui sono interpellati, per “par condicio” vengono spesso soverchiati da rassicuranti difensori dello status quo. Rimangono figure di sfondo o sono ridotti a punching ball per il circo mediatico. Sebbene rappresentino una porzione non trascurabile della popolazione, e tra quella più dinamica.

Ormai l’abbraccio tra Rai e Rai Vaticano – proprio una struttura pagata dai contribuenti che da oltre 25 anni si occupa di promuovere la fede – è sempre più stretto, con conseguenze immaginabili sul confezionamento di notizie riguardanti il papa e la Chiesa (e l’eventuale censura di quelle sgradite).

Non solo con le canoniche messe e ritualità varie. Basti citare le fiction che celebrano la religione (cattolica) e dipingono i non credenti con stereotipi negativi. Nell’informazione non va meglio. In questi ultimi anni tiene banco per esempio una conduttrice del Tg2, Marina Nalesso, abituata a indossare rosari in bella evidenza durante le trasmissioni. Diventata una eroina tra populisti e clericali, confessa di aver rinnovato il suo fervore religioso per l’opera di un prete che sciamava nella sede Rai di Saxa Rubra. A proposito di invadenze confessionali sul posto di lavoro. Possiamo anche ritenere un gesto come quello di Amadeus innocuo, fugace o derubricarlo a scaramanzia. Il fatto è che rappresenta solo la punta dell’iceberg del clericalismo televisivo all’italiana. Altrimenti si rischia di incaponirsi sul dito dell’ateo e perdere di vista la luna clericale.

Sembra esagerato, come fanno pure taluni laici, invocare concetti come tolleranza o libertà personale contro presunti censori cattivi. Può diventare una comoda astrazione che però non va a soppesare contesto e fatti concreti. Non si vieta affatto a una persona di professare la propria fede, come garantisce tra l’altro già la nostra Costituzione. In Italia tale pericolo è alquanto remoto. E nemmeno auspicabile per chi sostiene i diritti civili. In analogia con quanto si può dire sul velo integrale – feticcio identitario sostenuto dalle frange più integraliste e di certo non obbligatorio per la dottrina islamica – può essere sensato discutere di policy o abitudini che limitino l’ostentazione di simboli religiosi in precisi ambienti, ad esempio per garantire la neutralità di un servizio. Soprattutto se quel servizio è pubblico, pagato col canone da tutti i cittadini (credenti di varie confessioni, atei, agnostici, e altri). E pure da chi contesta stavolta l’Uaar. E che magari in altre occasioni si lamenta – talvolta proprio con l’Uaar – per il martellante confessionalismo fuori e dentro i media.

Istruttivo notare come le dichiarazioni tutt’altro che incendiarie del segretario Uaar siano state tacciate di estremismo… tendenzialmente da media non certo noti per toni moderati, o da commentatori esagitati sui social. Complice anche il giro di dichiarazioni raccolte tra esponenti musulmani per creare il caso. Si è delineato quindi un presunto schieramento di minoranze malviste che si sentirebbero “offese” e attaccherebbero la religione maggioritaria. Cosa avvenuta solo nella proiezione manichea tipica dei fanatici religiosi. Dal canto loro, i leader musulmani italiani si sono espressi in tono più guardingo, vista la diffusa intolleranza verso i musulmani specie quando si parla di identitarismo cristiano. La diatriba sul crocifisso – non a caso – docet. Foad Aodi, presidente Co-Mai (Comunità del Mondo Arabo in Italia) rispetta il gesto se “spontaneo” e fa notare: “lavorando in una televisione pubblica e sapendo che si parla anche a una platea di laici, atei, ebrei, musulmani, forse avrebbe dovuto tenerne conto”. L’imam di Firenze Izzedin Elzir invoca la buona fede e parla di “paura, per motivi storici comprensibili, delle fedi religiose e dei loro simboli” che bisogna però superare. Per l’imam di Catania Abdelhafid Kheit invece “abbiamo bisogno della preghiera e della spiritualità, in privato e in pubblico” col pretesto del “periodo di grande difficoltà che investe il mondo”.

Su La Verità, quotidiano noto per dare spesso fiato alle trombe integraliste cattoliche, un articolo lega la questione ai tentativi di rimuovere i crocifissi imposti nelle scuole e un catenaccio parla di “Furia Uaar”. Su Il Giornale, dove anche in questa occasione ricorrono toni anti-islamici, gli atei sono addirittura “sul piede di guerra”. Dal canto suo Famiglia Cristiana, la cui testata parla da sé, nel solco della tradizionale retorica vittimistica evangelica e paolina, lamenta che “la Croce continua a dare scandalo, duemila anni dopo”. Ma il cui direttore (un sacerdote) si è scandalizzato per l’esibizione “blasfema” di Achille Lauro: poteva risparmiarsela, ha commentato, in quanto “offesa ai credenti cristiani”. Pure dall’estrema destra sono arrivati attacchi. Il Secolo d’Italia, house organ del Movimento sociale italiano prima e di Alleanza nazionale poi, parla di “ira”. Più esplicito Il Primato Nazionale, vicino a CasaPound, secondo cui gli atei sarebbero addirittura “oltraggiati” e si fa riferimento al “fiocco di neve”: espressione in voga nell‘alt right per etichettare come mammolette i liberal progressisti, sulla scia del romanzo Fight Club di Chuck Palahniuk. Diversi tra questi citano il cantante Povia, noto per le posizioni integraliste e anti-gay, come maître à penser. C’è stato persino chi di notte in preda al sacro fuoco ha tentato di chiamare, indignato, la sede Uaar, o ha inviato email o commenti astiosi e offensivi.

I mansueti difensori della croce e i puntigliosi “sono ateo/laico ma” (che rischia di diventare un mantra dei compagni di strada del clericalismo) possono dormire sonni tranquilli. Nessuno si è “offeso” per un gesto scaramantico. Nessuno pretende che i credenti debbano nascondersi nelle catacombe. In un paese come l’Italia, dove il confessionalismo è diffusissimo sui media e nelle istituzioni, paventare questo scenario apocalittico stile regime sovietico poi è davvero grottesco. In un paese libero, per fortuna, si possono ancora contestare civilmente certe forme di ostentazione. Quella che latita, semmai, è una sensibilità laica nella tv pubblica e nella massa degli spettatori, rispettosa davvero del pluralismo della società.

Valentino Salvatore

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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