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Covid 19 | Sulla (non) celebrazione dei funerali in tempo di Peste

Il funerale ha un valore personale e un valore sociale, il secondo forse più profondo del primo. In tempo di peste, anche l'accompagnamento dei morti è scompaginato, come tutto il resto.

I "divieti" di funerali e cerimonie funebri dicono tanto, quanto la loro celebrazione almeno. 

 

Articolo originale, note e fonti qui; fa parte di una raccolta note sul confinement.  

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Ericailcane

«Ci fanno andare a votare, ma ci impediscono di celebrare i nostri morti».

«Qui ci stanno file chilometriche davanti ai macellai, da giorni e giorni, e manco i morti si possono salutare?».

«Mi dico: stiamo cercando di difendere la vita, ma stiamo rischiando di non salvaguardare il mistero che ad essa è legato».

La prima citazione è tratta da un pezzo di Le Mondefa riferimento alla scelta del Governo francese di mantenere le elezioni municipali nonostante la crisi sanitaria; le altre sono tratte dal pezzo di WuMing, Sul funerale di Salvatore Ricciardi.

Le ho scelte perché hanno più letture possibili — si può fare una polemica politica, si può fare una riflessione economica, si può cercare il simbolico o il culturale, tre cose che non si autoescludono per altro — e perché sono espressioni di “buon senso”.

Le epidemie hanno, storicamente, scardinato i tempi della morte e, con loro, i riti funerari. Così è stato durante la Peste Nera, così durante la peste del Diciottesimo secolo a Marsiglia. (Qui una ricostruzione storica abbastanza dettagliata rispetto al ritrovamento dei corpi e alle sepolture).

«Poiché causano all’improvviso migliaia, addirittura milioni di morti, poiché impongono drastiche precauzioni sanitarie legate alla paura del contagio, le epidemie sconvolgono i rituali funebri che permettono di stabilire rapporti pacifici tra i vivi e i morti», spiega Anne Chemingrand reporter de Le Monde.

Ovunque nel mondo, in tempi di Covid19, sono state prese disposizioni speciali per quanto riguarda funerali, cremazioni e cerimonie legate all’accompagnamento della morte: le regole cambiano da paese a paese, in nessuno, va detto, sono dure come in Italia (pre-11 maggio almeno).

Queste restrizioni nascono, naturalmente, comprensibilmente, da motivi legati alla particolarità della situazione sanitaria; ciononostante la durezza di alcuni provvedimenti è per tanti stupefacente.

La cerimonie di accompagnamento del fine vita di una persona ci parlano del nostro rapporto alla morte, del nostro rapporto alla vita, della relazione al tempo; ci parlano anche di memoria, collettiva e privata, stabiliscono una relazione. La loro sospensione è altrettanto parlante.

Il tempo “come” in guerra

Una risposta mi è sembrata intelligente, mette in relazione il tempo e la guerra, senza entrare nella retorica, ottusa e nefasta, sulla “Guerra”, alla quale siamo confrontati da mesi:

«Rimango agghiacciato, dal punto di vista antropologico, dall’accettazione, mi pare senza troppe proteste, delle modalità di accompagnamento delle persone che muoiono di Covid19 in Ehpad (case di riposo in Francia, ndr). L’obbligo di accompagnare i morenti e i morti, è una caratteristica fondamentale di tutte le società umane. E’ stato deciso che le persone muoiano senza il sostegno dei loro cari, e questo “non-accompagnamento” è stato esteso alle cerimonie di sepoltura, ridotte al minimo. A mio avviso si tratta una profonda “trasgressione antropologica”, che è avvenuta praticamente “da sola”. Se la stessa cosa si fosse prodotta due mesi fa avremmo gridato allo scandalo, definendo una pratica del genere disumana e inaccettabile. Non mi sto ribellando più di altri, d’altronde. Dico solo che di fronte al pericolo, e in un periodo di tempo così breve, le soglie di tolleranza si sono modificate a un ritmo estremamente impressionante; questo ritmo lo abbiamo conosciuto durante i periodi di guerra. Questo indica che qualcosa di molto profondo è in gioco, in questo momento, nel corpo sociale». A parlare è Stéphane Audoin-Rouzeau, storico della Prima Guerra mondiale, intervistato su Mediapart.

La pandemia ci ha fatto entrare in un tempo sospeso, una temporalità che mette in attesa le nostre pratiche sociali.

Qual è questo ritmo? Un tempo non di guerra , ma come in guerra. Continua Audoin-Rouzeau: «Come storico non posso approvare questa retorica perché, per parlare di guerra, ci devono essere dei combattimenti e delle morti violente, a meno non di voler completamente annacquare la nozione. Ma colpisce, come storico della guerra, il fatto che siamo in un “tempo come di guerra”».

Il tempo di guerra, non la guerra. Questa nozione, è lungi dall’essere un cavillo: « Tra il 31 luglio e il 1° agosto 1914 (l’inizio della Prima Guerra mondiale, ndr) il tempo è cambiato. Quello che era inconcepibile la sera è diventato possibile la mattina». C’è un tempo speciale, quindi, che permette, che giustifica, che sospende.

Cito sempre Audoin-Rouzeau: «Una caratteristica del tempo di guerra è che è infinito. Non si sa quando finirà. Speriamo, semplicemente — ed è vero oggi come durante la Prima Guerra mondiale o l’Occupazione — che finisca “presto”. (…). E’ per una somma di “periodi corti” che si entra nel “lungo periodo” della guerra. Se ci avessero detto, all’inizio del confinement, che sarebbe durato due mesi non sarebbe stato preso allo stesso modo. Ci è stato detto, come per la guerra, che si trattava solo di un momento difficile da far passare. Mi sembra evidente che se che si fosse detto “la Grande Guerra durerà 4 anni e ci saranno 1,4 milioni di morti” le reazioni sarebbero state diverse. Dopo la contrazione del tempo iniziale siamo entrati in un tempo indefinito, che ci ha fatto entrare in una temporalità “altra” senza sapere quando ci sarà una fine».

Il privato e il sociale

«Il fatto di non poter vegliare i morti, di non poter fare una cerimonia… È come un “non-evento” ed è davvero estremamente difficile da vivere». La testimonianza è di una persona che ha perso la madre il 20 marzo scorso, raccolta da France Info.

Il rito è innanzitutto sociale. E così il rito funebre. E’ mia impressione che il rito funebre, nella sua dimensione sociale si fosse un po’ annacquato nelle nostre società, quelle della modernità cosiddetta “fluida”; che ci fossimo abituati a vivere il lutto prima di tutto come un evento personale, un trauma da superare a livello psichico. Ho l’impressione, anche, che i divieti in tempo di Covid 19 ci ricordino quanto invece la dimensione, anche del dolore personale e privato, necessiti uno spazio pubblico.

«Nelle società occidentali il processo di lutto è generalmente legato a un percorso psicologico, a livello individuale. Ma il divieto dei rituali durante questo periodo di reclusione rivela la dimensione sociale del lutto», spiega Sophie Arborio, antropologa dalla salute e della malattia all’Università della Lorena su France Culture. «È paradossale, perché nel corso dell’ultimo secolo lo spazio del rito, in generale, ha perso importanza nelle società occidentali (…) Ma la ritualizzazione dà un senso al collettivo. (…) La situazione creatasi con la pandemia di Covid-19 viene ad interrogare la struttura sociale e il suo funzionamento».

«I riti funebri non sono momenti insignificanti, né segni di decoro un po’ desueto. Si tratta di cerimonie durante le quali i parenti testimoniano il loro dolore e hanno, nelle parole di Durkheim, la funzione di combattere “l’impressione di debolezza che prova il gruppo quando perde uno dei suoi membri”», dice su Le Monde Anne Chemin.

All’inizio del Novecento Durkheim scrive : «Il lutto non è un movimento naturale della sensibilità privata provata da una perdita crudele: è un dovere imposto dal gruppo. Piangiamo, non solo perché siamo tristi, ma perché siamo obbligati a piangere». Ora, nel 2020, è facile contestare questa frase di Durkheim, proprio alla luce di una cultura “individualista” (non uso il termine in senso negativo) ma, in fondo pratiche funerarie “teatralizzate” e “sociali” non sono distanti dalla nostra memoria e dalla nostra pratica.

Per Durkheim — cito sempre Anne Chemin — i rituali funerari servono ad «avvicinare le persone, a metterli più profondamente in rapporto e nello stesso stato d’animo: a garantire l’unione morale della società ferità per una morte. (…) Se piangiamo insieme è perché teniamo gli uni agli altri e che la collettività, nonostante quello che l’ha colpita, non è rovinata, ferita. Comunicare la tristezza resta comunicare e ogni comunicazione, di qualsiasi tipo essa sia, rilancia la vitalità sociale». Il funerale è una comunicazione.

Yann Benoist, antropologo, in una tribuna sul quotidiano La Croix: «Come tutti i riti, i riti i funerari permettono prima di tutto di inquadrare l’evento, in questo caso la morte, per darsi il tempo di capirlo e socializzarlo. (…) Il rito funebre è un passaggio anche e soprattutto per i vivi che cambiano di “status”: diventano vedovi, vedove, orfani, persone in lutto, ecc. Il rito funerario segna un confine tra i mondi, mettendo i morti in un “altrove”, ribadisce ai vivi che sono, appunto, vivi. Rendendo visibile la perdita della persona amata il rito funebre aiuta a superare la siderazione iniziale, che è la prima fase del processo di elaborazione. Le conseguenze dell’assenza di funerali possono essere gravi: un’impossibilità di affrontare la realtà della morte e il rischio di un lutto patologico. In casi più gravi pensieri ossessivi o allucinatori».

Una dimensione collettiva, un lutto collettivo

Si tratta di morti che sono uniti, al di là della loro volontà, da una trama comune. Questa trama comune verrà probabilmente ricostituita, in un bisogno di memoria pubblica e privata.

«Come è successo anche in Lombardia e in Veneto, le città che hanno perso tanti dei loro anziani, probabilmente immagineranno delle forme di commemorazione pubblica. In Francia è probabile che ci saranno cerimonie nelle case di riposo particolarmente colpite o, addirittura, un tributo nazionale per celebrare la memoria delle vittime di Covid-19 e dei morti di questa pandemia. Quando la comunità è minacciata o in difficoltà deve trovare forme di unione per poter rispondere, creando momenti di comunione nazionale», dice Gaëlle Clavandier, sociologa al Centre Max-Weber.

Questi momenti, queste forme, queste memorie sono una scelta, anche. Ed è questo che mi preme sottolineare. Una scelta sul come farle e su come ricordare, su cosa ricordare e come ricordarlo.

Sul valore della vita, sul valore di quale vita*. L’accompagnamento della morte significa non solo il rito per superarla, ma anche la questione della qualità della vita e della morte di chi è toccato. Nel caso contingente del Covid-19: esseri umani che muoiono soli, circondati da personale sanitario, che si spengono nel giro di tempi brevi.

In mezzo, nel bel mezzo, di questo periodo “sospeso” non ci sono risposte — che non ho, che non trovo, che non mi convincono e che non mi bastano ma perché non ci sono, non le abbiamo ancora collettivamente — ma le domande abbondano. L’Antropologia, la Storia, la Psicanalisi, la Sociologia avranno tanto da dirci. E anche la letteratura, probabilmente. Ci sarà tanto da pensare e da decostruire.

L’accettazione “stupefacente”

Per tornare alla questione iniziale, quella posta da Stéphane Audoin-Rouzeau«l’accettazione, mi pare senza troppe proteste, delle modalità di accompagnamento delle persone che muoiono».

Alain Damasio è uno scrittore di fantascienza, intervista a Reporterre solleva lo stesso problema: «Sono rimasto agghiacciato dal fatto che il divieto di recarsi a dire addio a un parente morente sia stato accettato così facilmente. Lo trovo inaccettabile e scandaloso. Se mia madre o mia padre fossero sul punto di morte in una casa di riposo farei di tutto per andare a non lasciarli morire soli (… ). L’accompagnamento dei morti fa parte di uno dei legami più importanti e profondi (…) La rimozione della morte è diventata così potente, la sua scongiura così radicata nelle nostre società che quando la morte riappare, quando ce la troviamo di fronte, scappiamo».

Stessa posizione, quasi, da parte del leader de la France Insoumise, Jean-Luc Melenchon: «La ribellione (insoumission in originale) è un’altra maniera di parlare di emancipazione, cioè essere capaci di decidere da soli del proprio destino, nella vita come nella morte. Io posso dire che se mi vietassero di avvicinarmi ai miei anziani genitori morenti è molto probabile che non obbedirei perché, come Antigone nel testo di Sofocle, penserei che c’è un dovere umano che è superiore a quello che la legge prescrive. E mi prenderei la responsabilità delle mie azioni di fronte alla legge perché starei rispettando la legge umana che si impone al mio spirito».

Melenchon tocca poi un tasto importante, troppo poco discusso come tema in sé: «L’isolamento dei nostri vecchi genitori non è sostenibile: bisogna trovare dei modi di mediare e di combinare (le regole del confinement e questa esigenza, ndr)». In altre parole: quale vita e quale morte stanno facendo le persone anziane?

A mo di chiusura, anche se una chiusura non c’è: come spiegare questa accettazione?

Stéphane Audoin-Rouzeau su Arret sur Image cita tre fattori principali: la negazione della morte che è parte della nostra epoca. Questa negazione è data dall’invisibilità di alcuni gesti, che rimandano all’invisibilità del lutto (non ci si veste più di nero per esempio). Secondo: la vita si è allungata, trascinando con sé l’idea che di morte non si parla o che la si metta un po’ a lato, insieme alla rughe, i capelli bianchi e i malanni. Le persone anziane sono sempre più isolate nelle nostre società: si trovano in casa di riposo e la morte in casa è sempre più rara.

E, aggiunge, forse su questo ha giocato il refrain che sentiamo dell’inizio della pandemia, “tocca solo i vecchi”, che “sono i vecchi che muoiono”. Che questo refrain non sia completamente vero già lo sappiamo, che possa aver giocato nell’accettazione è probabile. Ma, dice Audoin-Rouzeau, questo refrain è anche uno specchio, un conforto, un modo di proteggersi, ancora una volta, di fronte all’idea della morte.

 

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