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Costruire un chiesa in Guatemala: costruire un vínculo, costruire legami

L’estate scorsa sono tornata in Centro America con la Fondazione Rava, per cercare di dare ancora il mio piccolo aiuto ai bambini che sono ospitati negli orfanotrofi che NPH gestisce in diversi Paesi di quel continente. Sono tornata in Honduras, dove ero già stata l’anno precedente, ma ho avuto anche la possibilità di lavorare in Guatemala, Paese meraviglioso nel quale non ero invece ancora mai stata.

È proprio qui che ho vissuto un’esperienza per me nuova: la costruzione di una chiesa. Confesso che la mia prima reazione alla notizia che avrei dovuto necessariamente dedicare una parte della mia giornata ad aiutare nel piccolo cantiere, che si trovava a poca distanza dall’orfanotrofio, fu “ma perché? Per me il catechismo è solo un ricordo sbiadito e alla messa ci vado, forse, un paio di volte l’anno”. Per questo l’idea di sottrarre tempo alle attività dell’orfanotrofio mi faceva sentire non solo inutile, ma anche terribilmente in colpa nei confronti di tutti quei bambini che sicuramente non capivano di certo perché, invece di occuparmi di loro, perdevo tempo per costruire quella chiesa. Era una questione di priorità, inesorabilmente dettate ogni mattina dalla vista delle bidonville situate a pochi passi dalle mura dell’orfanotrofio.

E poi lavorare nel cantiere era faticoso. Faticoso e anche noioso perché, per quello che mi riguardava, era un lavoro che non sapevo assolutamente fare. Credo che non fosse difficile accorgersi della mia svogliatezza tutte le volte che dovevo avere a che fare con mattoni, cemento, assi di legno e attrezzi di cui non riuscivo nemmeno a capire l’utilizzo. E poi c’era il cocente sole guatemalteco che certo non aiutava a rendere più leggere le cose e a migliorare il mio umore, durante quelle ore trascorse tra carriole di sabbia e pile di mattoni.

Di sicuro se ne era accorto Armando, uno dei muratori locali che fungeva da capo cantiere e che era quindi la persona che ci dava le indicazioni su quello che noi volontari dovevamo fare. Era di poche parole e le istruzioni le impartiva con frasi brevi, secche, dette quasi a bassa voce ma in un modo che non ammetteva repliche o discussioni. Però con me si lasciava andare di più e spesso scherzavamo, durante il tempo passato insieme sul cantiere: lui prendeva in giro il mio accento e io il suo e questa era diventata forse l’unica nota piacevole di quelle ore.coop2

Un giorno in cui probabilmente la mia avversione a quella attività era più evidente del solito, Armando si avvicinò e mi chiese con quel suo spagnolo smozzicato: “Ma tu lo sai cosa stai facendo?”.

Io lo guardai e pensai che si stesse riferendo ai mattoni che stavo impilando nella carriola, cosa che probabilmente stavo facendo nel modo sbagliato. Ma prima che potessi rispondergli qualunque cosa lui aggiunse: “Non sto parlando dei mattoni, sto parlando di quello che stai facendo qui”. La domanda era ovviamente spiazzante e sapeva di trabocchetto. Per questo la mia risposta uscì quasi balbettante: “Beh… io credo… di stare costruendo… una chiesa?”. “No”, mi rispose Armando guardandomi diritta negli occhi, “tu non stai costruendo una chiesa, tu stai costruendo un legame. Tra poco tu, come tutti gli altri volontari, te ne andrai e forse non ci rivedremo più e non rivedrai più nemmeno tutti i bambini che ti stanno aspettando nella casa. Ma quello che stiamo costruendo ora invece rimarrà per molto tempo anche dopo che te ne sarai andata e ci ricorderà per sempre che tu sei stata qui ad aiutarci”.

Detto questo, si voltò e riprese di buona lena il suo lavoro. Allora anch’io presi in mano la pala appoggiata contro il muro e insieme, tornando a scherzare sui nostri accenti, continuammo a costruire il nostro vínculo.

Gaia Zorzi per Segnali di Fumo

Questo articolo è stato pubblicato qui

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