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Cosa sta succedendo in Turchia e cosa c’entra con noi. Un’analisi e alcune considerazioni

Perché è importante conoscere meglio la Turchia e sapere quello che sta accadendo lì? Perché questo paese rappresenta un caso da manuale dell’applicazione delle “riforme” neoliberiste, le stesse che stanno imponendo e vorrebbero massicciamente imporre anche da noi. In questo senso, capire quello che sta succedendo in Turchia vuol dire appropriarsi direttamente di strumenti che ci servono nelle nostre battaglie quotidiane, comprendere perché i destini dei nostri popoli sono così intrecciati. Materialmente, e non per motivi ideologici o “estetici”.

Cosa troverete in questo testo?

- Innanzitutto una ricostruzione della storia della Turchia degli ultimi dieci anni, una storia che ci fa imparare molto su come funziona la “crescita” economica nel modo di produzione capitalista e come la dimensione politica si modelli plasticamente sulle esigenze del profitto.

- Su questa base, più documentata possibile, tenteremo un’analisi delle classi sociali in Turchia e delle loro rappresentanze politiche, raccontando anche le mobilitazioni degli scorsi anni e i nuovi movimenti sindacali che si stanno delineando nel paese.

- Nel quarto paragrafo cercheremo poi di fare il punto su quest’ultima rivolta, individuandone i tratti di maggior interesse e gli insegnamenti che ci consegna.

Cominciamo però con una precisazione...

1. Questioni di metodo

Già alcuni giorni fa abbiamo scritto un breve articolo sulla Turchia: lo spunto che lanciavamo era completamente diverso dal dibattito che sta ancora imperversando in rete, ipnotizzato dalla cronaca dei fatti o dalle opposizioni semplici (del tipo “ambientalisti vs governo”, “laici vs islamici”, “movimenti vs neoliberismo”)1. Con quell’articolo, così come con questo documento, noi non intendevamo affatto dire: “ecco spiegato tutto” o peggio: “questa è la verità!”. Sappiamo che la realtà è sempre dinamica e complessa, che ci vuole molto studio e una capillare conoscenza dei fatti per poter avere un'interpretazione globale, che la contingenza politica è fatta di un coacervo di tensioni, motivi, cause, che gli stessi partecipanti alle proteste assumono in maniera variegata, a seconda della propria storia, sensibilità, contesto. Non ci sorprende affatto che chi sta in piazza dica di essere sceso perché non voleva un centro commerciale nel suo quartiere, o perché è diventato sempre più costoso e difficile bersi una birra, o ancora perché stufo dei soprusi della polizia: e non intendiamo affatto sostenere che questi motivi siano “falsi”, e che la gente non sappia perché sta in piazza per davvero.

Ogni momento di rottura si situa all'incrocio di più traiettorie, è una congiuntura unica, in cui convergono insoddisfazioni individuali e rivendicazioni collettive, in cui si sollevano tante figure sociali diverse. Non è una novità dei nostri tempi: è sempre stato così – ed è questo quello che il pensiero postmoderno ignora, quando rappresenta schematicamente il passato e insegue il marketing della discontinuità ad ogni costo...

Il problema però è che per capire davvero un movimento non ci si può limitare a una sommatoria di impressioni o all'idea che questo si fa di sé. Qualcuno diceva: “Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione2.

Insomma, per capire un fenomeno nelle sue cause profonde, comparandolo ad altri, cercando di capire dove e come si può verificare ancora – questo per noi vuol dire un approccio “scientifico”, seppur di una scienza tutta particolare, com'è quella sociale e politica –, non basta fermarsi alla raccolta di opinioni dei partecipanti alle proteste, a un'analisi delle strategie dei partiti in causa, a una serie di constatazioni geopolitiche... Bisogna invece cercare di vedere cosa struttura nel profondo una società. Per noi partire dalla dimensione economica e dalla contraddizione capitale/lavoro che la informa non vuol dire affatto svalutare tutti gli altri fattori, ma semmai comprenderli sul terreno in cui si articolano. Vuol dire osservare come la dimensione economica plasma sotterraneamente e in continuazione tutta la società, come struttura e divide il campo sociale, quale dialettica apre fra le classi, come investe i bisogni individuali e collettivi.

Cercare di capire tutto questo, e soprattutto cercare di capire che farsene, è molto complicato, e quindi non ci sognavamo in un breve articolo di sintetizzare tutto quello che sta accadendo in Turchia. Semplicemente, come abbiamo fatto nel caso della Tunisia, dell'Egitto e della Libia, intendevamo lanciare un'ipotesi di lavoro, suffragata da una serie di documenti elaborati da analisti più esperti di noi, sperando che qualcuno la raccogliesse, la approfondisse, la motivasse meglio. Pensiamo infatti di essere solo un tassello di un “intellettuale collettivo” fatto di migliaia di compagni sparsi per l'Italia e il mondo. Speriamo che le nostre riflessioni e i dati che abbiamo raccolto potranno essere utili e che gli elementi riscontrati nella vicenda turca vivranno anche nelle nostre pratiche e nelle nostre analisi della situazione italiana ed europea. Perché davvero quello che sta accadendo lì ci riguarda da vicino… Ma è tempo ormai di entrare nel merito.


2. La Turchia negli ultimi dieci anni

Per capire quello che sta succedendo, cerchiamo innanzitutto di conoscere la Turchia ricostruendo la sua storia recente. Con una premessa: prenderemo in esame il periodo che va dall'inizio degli anni Duemila in poi. Abbiamo scelto questo come punto di partenza perché in quegli anni avviene qualcosa che marca il paese in maniera significativa. Dal 2001 si producono infatti importanti cambiamenti destinati a trasformare la Turchia come non era mai accaduto nei decenni precedenti. Basta gettare un rapido sguardo ad alcuni grafici per capire che in quegli anni deve essere successo qualcosa di grosso: tutti gli indicatori macroeconomici (PIL, inflazione, debito pubblico, Investimenti Diretti all’Estero) subiscono uno scarto molto accentuato3. Guardate qui (clicca sui grafici per ingrandirli):

TASSO D’INFLAZIONE TURCO (GIALLO) DAL 1997 AL 2013 (fonte Eurostat)

INVESTIMENTI DIRETTI ALL’ESTERO (IDE), IN MILIARDI DI DOLLARI
 

Cosa è accaduto? Nel 2001 la Turchia versa in una condizione molto difficile4. La crescita del PIL segna un terribile -9,4%, e lo sviluppo economico è a dir poco stentato. L'inflazione viaggia intorno a un incredibile 68,5% annuo5, una cifra altissima se si pensa che nello stesso periodo in Italia è al 2,8% e la media UE è al 2,4%. Inoltre la Turchia ha un alto debito pubblico (77,9% del PIL), e un complesso produttivo arretrato, imperniato intorno ad alcune vecchie aziende dello Stato, che controlla ancora i maggiori settori strategici. Per il resto si tratta di un paese in parte ancora agricolo, in cui lo stesso comparto dei servizi, anche turistici, è arretrato.  

A seguito dello scoppio della bolla della new economy e della crisi finanziaria del 2001, si profila un serio rischio di bancarotta per la Turchia, incapace di trovare finanziatori sui mercati internazionali e di piazzare i propri titoli di Stato. Il paese si vede quindi costretto a chiedere un nuovo intervento del Fondo Monetario Internazionale. A condurre le trattative è Kemal Derviş, già vicepresidente della Banca Mondiale e nel 2001 Ministro dell'Economia turco. Praticamente un uomo dell’imperialismo al posto giusto al momento giusto. Ciononostante la trattativa non è semplicissima: la concessione del prestito è infatti subordinata al “principio di condizionalità”, ovvero all'approvazione di provvedimenti “lacrime e sangue” per la popolazione turca. I capisaldi delle riforme per l’FMI devono essere: la riduzione del debito pubblico, il rigore fiscale, la lotta all'inflazione, una fitta serie di riforme strutturali per il rafforzamento del settore privato, del sistema bancario e il miglioramento dell'investiment climate. In altre parole, “le riforme richieste puntano ad un aumento dell'efficienza e della produttività, attraverso un piano di liberalizzazioni e privatizzazioni. L'obbiettivo è un rapido aumento della produzione, incrementando la competitività del settore industriale orientato all'export, sostenuto da una politica di moderazione salariale”6.

Ovviamente Kemal Derviş accetta queste condizioni e l'FMI approva il finanziamento nel febbraio 2002: questa sarà l'operazione più grossa mai fatta dal Fondo. Parliamo di 16,5 miliardi di dollari, che portano a un'esposizione complessiva della Turchia verso il Fondo per ben 31 miliardi. Questo prestito segue la formula “Stand by”, cioè l'erogazione non avviene in un'unica soluzione ma, potremmo dire, a stato avanzamenti lavori: in altri termini i soldi vengono dati solo se vengono effettivamente eseguite le politiche prescritte dal Fondo.

L'investimento resta però pesante anche se è vincolato all'esecuzione di provvedimenti molto duri – l'FMI infatti non si sente di rischiare (lo dimostra il fatto che nello stesso periodo non concedeva facilmente aiuti a paesi sull'orlo della bancarotta come l'Argentina). È interessante allora capire perché la situazione si sblocchi. Qui entra in gioco la volontà politica degli Stati Uniti, molto rappresentativi dentro l'FMI, che fanno di tutto perché la Turchia non crolli. Sono gli anni della cosiddetta “guerra al terrorismo”, gli USA stanno investendo molto in quella zona, e si preparano ad attaccare l'Iraq. La Turchia deve servire da retroterra per le operazioni nell'area: non può quindi permanere in una situazione di instabilità7.

Ma c’è ancora un “piccolo” problema da risolvere: nel suo complesso la classe dirigente che fino a quel momento aveva guidato la Turchia non è credibile né agli occhi dei finanziatori internazionali, né agli occhi della popolazione che deve digerire una manovra di questa portata. C’erano infatti stati pesanti scandali di corruzione, che avevano portato alle dimissioni, nel maggio del 2001, del Ministro dell’Energia e, nel settembre dello stesso anno, di quello dei Lavori Pubblici.

È precisamente in questo momento che entra in scena Erdoğan. Un personaggio complesso, di origini molto umili, addirittura incarcerato per le sue idee politico-religiose, legato a strati popolari islamici e agli abitanti delle periferie di Istanbul, città di cui era stato sindaco. Alle elezioni del novembre 2002 il suo partito, l'AKP – che appare una novità sullo scacchiere politico turco, visto che è stato fondato nel 1998 – prende il 34,3% di voti. Per il complesso sistema elettorale, un proporzionale con sbarramento al 10%, questo vuol dire andare direttamente al governo, visto che l'unico altro partito in lizza è il CHP, laico e di centrosinistra, che incassa un misero 19,4%.  

Certo, l'eredità politica è pesante, “bisogna onorare gli impegni” con l'FMI, ma Erdoğan sembra il personaggio giusto. Qui si delinea quell'alleanza fra neoliberismo e islamismo che caratterizza gli ultimi dieci anni della vita politica turca: un’aggressiva politica economica antipopolare accompagnata però dalla costruzione di consenso e di unità nel corpo sociale grazie al richiamo religioso e ai suoi dispositivi di educazione, cura e contenimento. Fra il 2003 e il 2005 Erdoğan porta avanti con estrema determinazione il programma imposto dall'FMI. In particolare il suo Governo mette in campo:  

a) una legge quadro sugli investimenti esteri (che ha come sottopunto una “protezione contro gli espropri”);
b) una normativa che disciplina la creazione di imprese;
c) la riforma del mercato del lavoro;  
d) la legge sul controllo della finanza pubblica;
e) la normativa sugli appalti pubblici;
f) le liberalizzazioni del mercato elettrico, del gas, degli alcolici, della telefonia fissa e mobile;
g) le privatizzazioni del comparto della TEKEL e delle raffinerie della TÜPRAS e della compagnia elettrica TEDAŞ;

Il carattere di classe di queste misure è evidente. Non c'è bisogno di dilungarsi per quanto riguarda le liberalizzazioni e le privatizzazioni: queste attirano subito capitali perché svendono pezzi importanti dello Stato e aprono nuovi settori di mercato, con conseguente aumento delle tariffe e un peggioramento delle condizioni di lavoro degli impiegati, che passano sotto padrone...


Prendiamo piuttosto la legge quadro, a cui peraltro si ispirano molte proposte che circolano anche da noi. Questa legge serve esplicitamente a incoraggiare gli stranieri a venire a investire in Turchia. Come lo fa? Innanzitutto diminuendo i vincoli burocratici: in altre parole per aprire una fabbrica non c'è più bisogno di permessi e di certificazioni ma bastano semplici “notifiche” – questo vuol dire che nei fatti spariscono molti controlli e tutele per chi lavora e per il territorio. In secondo luogo, le aliquote sui redditi da impresa scendono al 20%, assestandosi così fra le più basse d’Europa, e vengono anche previsti aiuti fiscali a chi investe, oltre all'esenzione da IVA in alcune zone.

Come se non bastasse, la legge quadro prevede anche la possibilità per i capitali esteri di controllare sino al 100% delle aziende turche, tranne quelle individuate da regolamenti speciali; la possibilità di fare ricorso agli arbitrati internazionali; addirittura la libertà per i capitali stranieri di rimpatrio dei profitti, dei dividendi e di ogni altro provento; l'esenzione delle imposte doganali per l'importazione di macchinari e attrezzature; l'esenzione da IVA rispetto all'acquisto di macchinari prodotti in loco.
Ciliegina sulla torta, vengono create anche delle “zone economiche speciali” in cui lo Stato dà incentivi economici, terreni gratuiti, alleviamento fiscale, alleviamento dei contributi pensionistici per i lavoratori (cioè i soldi non ce li mette il padrone, ma lo Stato), e viene anche data la possibilità di utilizzare le strutture universitarie pubbliche per effettuare ricerche e sviluppo a vantaggio di aziende private. In altre parole, il Governo turco regala il paese e la sua popolazione al capitale internazionale, subordinando l’uno e l’altro all’imperialismo.

Non va meglio in materia di lavoro.
La prima cosa che fa il Governo di Erdoğan è istituzionalizzare la pratica del lavoro interinale: in altre parole nelle fabbriche turche si afferma legalmente il caporalato e forme di “lavoro in affitto”. Ancora, vengono introdotte misure di massima flessibilità della forza-lavoro, che in pochi anni faranno sì che la Turchia arrivi ad avere la settimana lavorativa media più alta d’Europa – ben 53 ore! –, il tasso più basso di assenze lavorative per malattia (solo 4,6 l'anno nel 2013), un numero impressionante di morti sul lavoro8, un salario minimo netto che nel 2013 è di miseri 409 dollari – poco più di 300€ al mese... Qualche grafico ci permette di capire intuitivamente cosa stiamo dicendo (clicca sui grafici per ingrandirli):

  *Fonte: MERCER 2008 - Pan-European Employer Health Benefits Issues Survey
** Fonte: EUROSTAT 2011

Grazie all’estorsione del pluslavoro operaio, il paese in poco tempo cambia faccia: gli Investimenti Diretti all’Estero passano da 1,8 miliardi di dollari del 2003, ai 22 miliardi di dollari nel 2007. Nello stesso periodo l'inflazione – storico problema turco, e grosso problema soprattutto per il sistema bancario9 – viene abbattuta all’8,4%10. Erdoğan arriva così con i “compiti fatti” all'ulteriore revisione degli accordi con l’FMI alla fine del 2007.

Ma, nonostante questi dati strabilianti (per i padroni, ça va de soi!), resta nell'economia turca un neo che la turba ancora oggi: il saldo negativo della bilancia dei pagamenti. Detto semplicemente, la Turchia continua a importare più di quanto esporti, e la sua economia cresce solo grazie all'afflusso di capitali freschi sotto forma di IDE. L’Economist lo dice chiaramente: quella turca sarebbe un’economia “estremamente vulnerabile”. Infatti “quando l’economia, a livello globale, attraversa una fase positiva c’è un forte afflusso di denaro verso la Turchia che offre alti tassi di profitto e la lira turca acquista valore, aumentano gli import e il disavanzo nella bilancia commerciale. Ma quando gli investitori hanno paura allora i capitali escono dal mercato turco più rapidamente rispetto ad altri paesi, spingendo in basso la lira turca e provocando una riduzione della domanda interna”11

Ma siamo nel 2007, nel momento di maggiore espansione dei mercati mondiali. Così la campagna elettorale di quell’anno si gioca sulla possibilità di non rinnovare i prestiti con l'FMI. Erdoğan fa cioè ventilare l'ipotesi di non voler ancora “aiuti”, e d’altronde tutti i partiti sembrano concordare in nome di una sorta di “orgoglio nazionale”. In realtà ben presto tutti si accorgeranno che sono necessari, perché se per una qualsiasi ragione dovessero venire meno gli IDE (e a fine 2007, a crisi ormai conclamata, è possibile che ci sia una diminuzione di questi capitali), tutto il castello crollerebbe.

E in effetti Erdoğan, che ha ormai vinto trionfalmente con il 46,6% promettendo la fine delle politiche di austerità, opta nel maggio 2008 per un rinnovo degli accordi con l'FMI, che vuol dire nuova tranche di riforme massacranti. Si procede così ad altre privatizzazioni: di autostrade e ponti, di porti e aeroporti, ma anche di quel poco che rimane sotto il controllo pubblico, dalle dighe al settore delle lotterie12. Ma non è finita qui: il governo di Erdoğan procede anche con la riforma delle pensioni fortemente voluta proprio dall’FMI, che porta l'età pensionabile a 65 anni, in un paese la cui aspettativa di vita è meno di 72 per gli uomini (per le donne questa riforma è ancora più penalizzante perché l’età pensionabile passa dai 58 ai 65 anni!). Il Governo mette in campo nel 2008 anche una riforma che istituisce l'Assicurazione Sanitaria Unificata, una sorta di privatizzazione dei sistema sanitario, che solleva molte proteste.

Nel 2009 Erdoğan deve anche fare i conti con gli effetti della crisi: il PIL crolla al -4,8%, e gli IDE, che per la maggior parte provenivano dall'Unione Europea ora in recessione, continuano ad affluire solo da Est. Questo segna un cambiamento nelle politiche estere della Turchia: di fatto si blocca il processo di adesione alla UE, iniziato con i negoziati del 2004. D'altra parte sarà lo stesso Erdoğan, sfruttando la ripresa del 2010, a cercare un proprio spazio di azione, anche militare, dal Medio Oriente al Nord Africa, intervenendo in Libia e in Siria, rinvigorendo il mito della Turchia Ottomana e presentandosi – per un breve periodo – addirittura come paladino di tutti gli arabi contro Israele (ricordate l’affaire della nave Mavi Marmara, assalita da un commando israeliano che fece ben nove morti fra gli attivisti pro-palestinesi?)...

D’altronde, dopo lo stop elettorale della amministrative del 2009 in cui l’AKP prende “solo” il 38,9%, è proprio il +8,9% del PIL del 2010 che incoraggia Erdoğan a procedere nel rafforzamento del suo potere politico e delle sue reti clientelari. Lo testimonia innanzitutto il Referendum Costituzionale di quell’anno, che serve al leader islamico per ridimensionare l'azione di altri corpi o settori dello stato, come la magistratura, che prova a mettere sotto controllo politico, e l'esercito, che rappresenta un vero e proprio concorrente, visto che non è solo il “garante in ultima istanza dell'ordine democratico”, ma controlla anche posti di lavoro e quote di ricchezza, restando però espressione di una borghesia laica e kemalista.

I buoni risultati economici spingono Erdoğan anche ad “alzare la testa” nei confronti dell'FMI, e a non chiedere ulteriori finanziamenti, come pure era stato suggerito dal Fondo nel 2009. Questo gli attira le antipatie di alcuni settori del capitale internazionale: non è un caso che alla vigilia delle elezioni politiche del 2011 l'Economist e il Financial Times appoggeranno apertamente l'opposizione del CHP, paventando un "eccesso di potere" del primo ministro islamico. Ovviamente l’Economist e il Financial Times, così come oggi gli USA e l’ONU, non sono mica sensibili a questioni democratiche: semplicemente ai capitali internazionali conviene sempre non avere a che fare con leadership troppo forti...
Ciononostante l'AKP fa a questo giro il miglior risultato di sempre: il 49,83%. Ma siccome stavolta due partiti superano la soglia di sbarramento (l'opposizione laica di centrosinistra del CHP al 25,98% e i nazionalisti dell'MHP al 13,01%) Erdoğan perde seggi, e con 327 seggi sui 330 necessari, non può cambiare la costituzione da solo. In ogni caso può continuare a imperniare intorno a lui reti di potere e a sostenere i nuovi strati sociali di borghesia islamica, e in particolare l'associazionismo religioso che gli permette di intercettare i ceti popolari.

Anche per questo si arriva alla riforma della scuola nel 2012, che punta sia a favorire gli istituti islamici, sia a facilitare l'evasione dell'obbligo scolastico, in uno dei paesi più famosi al mondo per il lavoro minorile (parliamo di 1,6 milioni di bambini al lavoro13), perché se pure si aumenta l’obbligo scolastico di quattro anni, è solo per spezzettarlo in tre diversi momenti, favorendo così la dispersione in ogni cambio di scuola. 

 

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Note

1. Solo qualche giorno fa abbiamo scoperto che in quest’interessante articolo, Istanbul Uprising, di Ali Bektas, dell’importante rivista “Counterpunch”, uscito il 5 giugno, cioè due giorni dopo il nostro post, si affermava sostanzialmente la nostra stessa tesi: “Senza dubbio Istanbul non può essere messa insieme con Atene, Barcellona, Lisbona o New York. Quello che sta accadendo in Turchia è il rovescio della medaglia anti-capitalista. È una rivolta contro lo sviluppo. È una battaglia di strada per avere città che appartengano al popolo e non al capitale. È una resistenza contro un regime autoritario rafforzato da un boom economico. Quello che vediamo fiorire nelle strade di Istanbul è una convergenza fra la piccola ma crescente sinistra anti-autoritaria turca, che ha organizzato varie campagne socialmente rilevanti negli anni passati, e una larga sezione della popolazione urbana fedele agli ideali kemalisti di modernismo, secolarizzazione e nazionalismo”. http://www.counterpunch.org/2013/06/05/istanbul-uprising/

2. K. Marx in Per la critica dell'economia politica.

3. I dati che utilizzeremo sono forniti dalle maggiori agenzie internazionali: da FMI, Banca Mondiale, OCSE, EUROSTAT, TURKSTAT e dall'ISPAT (Investement Support and Promotion Agency of Turkey), un’importante agenzia di diretta emanazione del Governo, che serve a promuovere il paese presso i capitalisti internazionali: è impressionante come siano gli stessi governanti turchi ad ammettere candidamente lo sfruttamento della forza lavoro, l’abbassamento dei salari etc.
Per un colpo d'occhio sulla Turchia, rinviamo a una scheda statistica elaborata dall'OCSE.
Per più info sui rapporti fra l’Italia e la Turchia si veda invece l'opuscolo Turchia, paese emergente dalle grandi prospettive, a cura dell'Agenzia per la promozione all'estero e l'internazionalizzazione delle imprese italiane e la Nota congiunturale dell’aprile 2011 a cura dell’Istituto nazionale per il commercio estero.

4. Per uno studio della Turchia di quegli anni segnaliamo quello effettuato dalla Camera del Commercio di Brindisi, Analisi del mercato estero, Ottobre 2007.

5. Giusto per dare un’idea, vuol dire che se una merce in Turchia il primo gennaio 2001 costava 100€, dopo solo un anno ne costava 168,5€!

6. Si veda G. Colombo, L'economia turca, il FMI e la UE: un triangolo virtuoso?, su ISPI Policy Brief, n. 11, settembre 2004.

7. Fra l’altro questo punto è importante perché parte del boom turco degli anni successivi passerà anche per gli approvvigionamenti militari e per i miliardi riversati dagli USA in Turchia a questo scopo. Non è un caso se alla fine di questo processo si produrrà persino un’espansione del capitale turco: nel Nord dell’Iraq rappresenta infatti la quota maggiore di capitale.

8. Da questo punto di vista la Turchia è prima in Europa. I morti censiti sono, nel 2009, ben 3 al giorno, ma calcolati su una platea di soli 9 milioni di lavoratori iscritti all'SGK (l’istituto analogo al nostro INAIL), mentre i lavoratori attivi nello stesso periodo sono quasi 23 milioni, il che presumibilmente porta le morti sul lavoro a 6-7 al giorno! In ogni caso, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel 2009 il Paese era all’80esimo posto nel mondo per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro. Cfr. C. Spinella, Morti bianche, l’altra faccia del boom turco. A Istanbul 11 operai morti in un incendio, del 14 Marzo 2012.

9. L'economista turco Emre Deliveli sostiene a questo proposito che “il successo turco è stato costruito sul mettere a posto le banche”: cfr. Why Turkey is Not Thriving, su Hurriet Daily News, 31 maggio 2013

10. Nel gennaio 2005 entra poi in vigore la nuova Lira turca, che vuole segnare anche simbolicamente una discontinuità con un passato di altissima inflazione.

11. Perplessità provengono anche dal Financial Times, e sono riportate in questo articolo di A. Tetta, Economia turca: quando la tigre abbaia, su Osservatorio Balcani e Caucaso, 13 agosto 2012.

12. “All'inizio del processo di privatizzazione, lo Stato deteneva quote di maggioranza in 250 imprese, 105 impianti produttivi, 524 proprietà immobiliari, 8 autostrade, 2 ponti e 6 porti marittimi. A fine 2009 erano state privatizzate 199 imprese ed in 188 la presenza dello Stato era del tutto scomparsa”, cfr. Istituto nazionale per il commercio estero. Nota congiunturale, aprile 2011.

13. Secondo uno studio condotto dal sindacato DISK, in Turchia ben il 49% dei ragazzi tra i sette e i quindici anni è impegnato in attività lavorative.
 

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