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Coronavirus | La Peste e il prosciutto sugli occhi

(Foto: Twitter @AgeMoyen)

« Quando il pericolo del contagio appare, la prima cosa è cercare di non vederlo. Dalle cronache relative ai periodi di peste emergono numerose le negligenze delle autorità nel prendere le misure necessarie che imporrebbe l’imminenza del pericolo (…). Ovviamente troviamo delle giustificazioni razionali a un’attitudine di questo tipo: non voler mettere nel panico la popolazione (…) e soprattutto non interrompere le relazioni economiche con l’esterno. Perché per una città la quarantena significa difficoltà di approvvigionamento, crollo degli affari, disoccupazione, probabili disordini nelle strade, ecc.

Fin quando i morti causati dall’epidemia sono ancora in un numero limitato, si può ancora sperare che regredisca da sola prima di aver devastato l’intera città.

Ma, andando più nel profondo di questi argomenti, confessabili o inconfessabili che siano, ci sono delle motivazioni meno coscienti: la paura profonda della peste porta a ritardare il più possibile il momento di affrontarla, di guardarla in faccia».

L’autore di questo testo è Jean Delumeau, uno storico delle “mentalità religiose”. Delumeau è morto lo scorso 13 gennaio. L’estratto qui sopra l’ho preso da Arrêt sur images e arriva da “La Peur en Occident (XIVè-XVIIIè) : une cité assiégiée”, opera uscita nel 1978 dove Delumeau racconta le paure che hanno perseguitato l’Occidentale tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna. Tra queste il mare, le tenebre. E la peste, appunto.

Ne abbiamo parlato tanto, tutti, via messaggio, via mail, su Skype o su whatsapp, del perché alcuni governi (tutti?) hanno reagito (o reagiscono) così lentamente nel mettere in atto delle misure (efficaci o meno, logiche o meno, non entro qui nel dibattito ma consiglio la lettura di questo testo di Piero Vereni) per limitare, contenere o debellare la pandemia di Covid-19.

Gli storici, i sociologi, gli psicologi e gli antropologi avranno di che studiare.

Per quanto riguarda il Paese dove vivo, la Francia, lo scollamento del Governo dalla realtà è stato flagrante. Ma non è il solo caso, lo sappiamo bene.

Il 6 marzo Macron era a teatro con la moglie per dire ai francesi che la “vita continua, che le nostre abitudini non vanno modificate”. I casi di Covid-19 in Francia in quel momento erano 613, contro gli oltre 4mila dell’Italia, paese ai confini. Le scuole sono state chiuse dal 16 marzo (annuncio fatto il 12, venerdì) con una supercazzola di questo tenore: “Ho consultato gli scienziati a proposito delle elezioni municipali, il cui primo turno si terrà tra qualche giorno e secondo loro nulla impedisce che i francesi, anche i più vulnerabili, si rechino alle urne”. Ora, quali scienziati? Gli esperti di biologia elettorale?

Io immagino, piuttosto, che il comitato scientifico abbia detto a Macron, mandandolo un po’ in culo (sorry for my french): “Eh, se non blocchi il Paese e la gente va comunque in giro, tanto vale che tu li mandi a votare”. (Agli storici l’ardua conferma ;). In scelte di questo tipo da parte di un governo c’è sicuramente un calcolo (economico, politico, elettorale, questioni di opportunità, del cinismo, degli errori… ) ma anche, in parte, una incapacità di comprensione.

La mia amica Lucille ieri sera, durante l’ennesimo aperitivo Zoom, ha usato il termine “Bias cognitivo”, ovvero una una difficoltà di comprensione data da una interpretazione soggettiva, non legata all’evidenza o alla logica che fa si che si sviluppi un errori di valutazione. Che in soldoni vuol dire: “fare orecchie da mercante”, “fare lo struzzo”, “mettere la testa sotto la sabbia” o, anche, “avere il prosciutto (o il salame) sugli occhi”.

Quanti di noi non hanno voluto capire? Io per prima ho negato l’evidenza (ne parlo un po’ su Il Mulino), a me stessa e a chi ho intorno. Perché guardare in faccia la morte fa schifo, e finché puoi ti (ar)rotoli nel prosciutto.

 

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Questo pezzo fa parte di un diario che tengo qui

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