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Come sprecare soldi pubblici per sostenere aziende zombie

A noi italiani ci ha fregato l'ignoranza del concetto di costo opportunità, oltre ad una predilezione quasi epica per le missioni impossibili, che tali restano

di di Mario Seminerio – Domani Quotidiano

L’Italia si rivela un produttore di missioni impossibili: aziende non in grado di stare sul mercato in cui versare risorse dei contribuenti, prima di gettare la spugna. Ilva, Alitalia, Embraco, Monte Paschi: sono solo gli ultimi nomi di una lunga teoria di mirabolanti piani di risanamento pubblici destinati a produrre corpose perdite e sprecare preziose risorse fiscali, che non potranno essere impiegate in altre attività. Il paese non pare avere cognizione dei concetti di “costo opportunità” e “stop loss”: fermate le perdite, tirate una riga sul passato e guardate oltre.

 

Una cosa in cui l’Italia pare eccellere è il trascinamento di situazioni di crisi aziendali che assurgono a “modello di redenzione”, per mostrare al mondo e a noi stessi quanto siamo abili nelle missioni impossibili. Anche nei casi di aziende decotte, settori in declino irreversibile nella divisione internazionale del lavoro o banche trasformate in buchi neri. C’è un modello italiano per ognuno di questi casi.

IL BUCO NERO MPS

In queste settimane il governo sta predisponendo il piano di riconsegna ai privati di Monte Paschi, per rispettare il termine del dicembre 2021 concordato con Bruxelles al momento della cosiddetta ricapitalizzazione precauzionale della banca. Dopo reiterati aumenti di capitale e altrettante ripuliture di sofferenze i contribuenti italiani, che possiedono la banca al 68 per cento, si trovano in carico una perdita di una decina di miliardi mal contati, a cui andranno sommati il prossimo aumento di capitale per almeno un paio di miliardi e la creazione di una ricca dote fiscale per il volenteroso compratore. Si parla anche di un impegno pubblico per gli esuberi.

Il conto sta lievitando ai livelli che portarono alla liquidazione delle due banche venete, con assegnazione della loro polpa a Intesa Sanpaolo. Alla fine dei giochi, potremmo scoprire che abbiamo sprecato anni di denaro dei contribuenti per una fine già scritta.

IL RUBINETTO DI ALITALIA

Il caso Alitalia, azienda che riassume meglio di ogni altra questa avversione a bloccare il sanguinamento di soldi pubblici. La pandemia ha fornito nuovi alibi a chi tiene il rubinetto delle perdite risolutamente aperto, portando a vagheggiare o più propriamente vaneggiare di un reset della concorrenza aerea globale, tale da farci rientrare in corsa, non è chiaro per quale motivo.

Il gap competitivo si sta chiudendo, ma nel senso che ora nella lista di compagnie in dissesto non siamo più soli. Un peccato aver prodotto tutte quelle perdite quando il mercato del trasporto aereo passeggeri macinava utili record, anni addietro.

Nella lista dei rilanci e rigenerazioni c’è ormai anche Ilva, che sta per vedere l’epilogo del disimpegno di Arcelor Mittal e l’ingresso dello stato imprenditore, con Invitalia.

Il tutto poggia su un precetto cardinale: la produzione di acciaio deve essere calibrata in modo da mantenere gli organici ai livelli dei tempi che furono. E poco importa che l’acciaio sia da molto tempo in una crisi epocale da sovracapacità globale. Ilva deve produrre otto milioni di tonnellate annue e così dovrà avvenire, dovessimo anche lasciare ampia parte di quella produzione in qualche assai spazioso piazzale.

 

Sempre a proposito di Ilva e stop loss: esattamente un anno fa, sempre Svimez ha stimato l’impatto sul paese di una chiusura dell’acciaieria. Costi stimati in 3,5 miliardi, lo 0,2 per cento del Pil. C’è motivo di temere che le perdite generate dal mantenimento dello status quo finiranno a essere superiori a quella stima.

Altro simbolo politico-mediatico della nostra improbabile politica industriale è la vicenda, ormai di lungo corso, di Embraco. Che ora il governo pensa di risolvere aggregando un altro produttore di compressori per creare “un campione europeo”. Non esattamente un comparto ad alto valore aggiunto, ammesso e non concesso che in giro per l’Europa ci sia la fila di potenziali clienti.

Decisamente, noi italiani abbiamo un serio problema a comprendere il concetto di costo opportunità.

(pubblicato il 20 novembre 2020)

Foto: Wikimedia

Questo articolo è stato pubblicato qui

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