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Come sarà la società "atea"?

La diffusione della non credenza nel mondo è un fenomeno ormai evidente, sempre più oggetto di studi e ricerche. L’ateismo non si può più bollare, come avveniva fino a non molto tempo fa, come un fenomeno elitario per una sparuta minoranza di intellettuali o legato a particolari ideologie (come il comunismo o il socialismo). È diventato un modo di essere trasversale, diffuso nei paesi occidentali ma che inizia ad affacciarsi anche nelle aree a maggioranza islamica. Allo stesso modo, non rimane una “roba da ricchi”, ma si consolida con il diffondersi della secolarizzazione in vari ambiti della società.

Socializzare tra atei

Anche la rivista New Scientist ha affrontato il tema, con un articolo di Graham Lawton che è uscito tradotto sul penultimo numero della rivista Internazionale. Lawton, ateo dichiarato, inizia il suo articolo con la visita alla riunione domenicale della Sunday Assembly di Londra, la cosiddetta “chiesa per atei”.

“Faccio una cosa che non facevo da trent’anni: mi alzo e vado in chiesa”, esordisce ironicamente. Un fenomeno, quello delle Sunday Assembly, che si è diffuso nel mondo anglosassone su iniziativa di due attori e riunisce in ogni occasione centinaia di persone. L’intento è favorire la socializzazione, l’incontro e la condivisione di attività stimolanti tra coloro che non si identificano in un credo religioso e che hanno questa esigenza. D’altronde uno degli strumenti vincenti delle religioni è proprio la capacità di aggregare e creare reti di relazioni tra le persone.

Ovviamente, sebbene si facciano facili parallelismi con gli oratori delle parrocchie, non ci sono riti ma attività come conferenze e concerti. C’è da dire che gli stessi organizzatori giocano con ironia sul parallelismo religioso e diversi di questi luoghi d’incontro sono chiese sconsacrate: strutture che rimangono deserte e vengono destinate ad altri usi, visto il declino del cristianesimo nel Regno Unito.

Alcuni atei possono storcere il naso nel percepire lo scimmiottamento di pratiche religiose e voler prender le distanze (che talvolta significa essere contrari a qualcosa perché lo fa o dice la Chiesa), ad altri certe iniziative possono risultare utili e simpatiche. Innegabile è che, comunque la si veda, fanno leva su un’esigenza di socialità e condivisione che ci caratterizza come esseri umani e che viene declinata anche facendo a meno della religione. E un’associazione come l’Uaar, proprio perché unisce tante persone e punta a obiettivi di interesse collettivo, non può non interrogarsi su questo.

La crescita a livello globale dei cosiddetti “nones” pone anche problemi di questo tipo: in che modo creare reti di relazione ricche e costruttive tra persone che non condividono una fede religiosa? Una domanda che non è peregrina ma che ha profonde conseguenze anche a livello personale e sociale. Sia in termini di salute, visto che alcuni studi rilevano come l’aspettativa di vita migliori con la socializzazione (a prescindere se sia laica o religiosa). Ma anche in termini più ampi, a livello di empatia e solidarietà e sull’indirizzo che si vuole dare alla convivenza civile.

Una nuova ondata di secolarizzazione

Lawton intervista Ara Norenzayan, psicologo e professore dell’università della British Columbia di Vancouver, che fa il punto sull’andamento della secolarizzazione. In fase avanzata in Europa occidentale e settentrionale, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Cina, ma anche negli Usa, paese tradizionalmente “under God”. Non bisogna però confondere i “nones” con gli atei: la secolarizzazione favorisce la varietà piuttosto che il conformismo (per fortuna) e comporta piuttosto un distacco dalla religione nella vita quotidiana, cosa che vede sì la crescita dei non credenti dichiarati ma anche di diverse forme di spiritualità individuale.

Le previsioni di pensatori come Max Weber o Emile Durkheim sulla scomparsa inevitabile della religione vanno sicuramente ridimensionate: “anche se dopo la Seconda guerra mondiale alcune regioni dell’Europa occidentale, dell’Australia, del Canada e della Nuova Zelanda si sono secolarizzate, il resto del mondo è rimasto saldamente devoto”. Come va ridimensionato “il ritorno alla religiosità” preconizzato soprattutto da intellettuali credenti, spesso agitato in maniera trionfalistica.

Piuttosto, in risposta alla secolarizzazione, si è visto che “movimenti fondamentalisti stavano guadagnando terreno in tutto il mondo”. Ma oggi la secolarizzazione è in ripresa: “negli ultimi vent’anni c’è stato un repentino calo della religiosità in tutte le società”, sostiene Philip Zuckerman, sociologo del Pitzer College di Claremont noto per gli studi sui non credenti. Anche in società “dove prima non esisteva, per esempio in Brasile, in Irlanda e perfino in Africa”.

Paradossalmente la caduta del Muro di Berlino e la fine del comunismo hanno svincolato l’ateismo da una certa ipoteca ideologica, favorendone la diffusione. Se negli Stati Uniti il maccartismo e il clima da guerra fredda rendevano patriottica la lotta contro l’ateismo identificato con l’Urss, ora la nuova generazione cresciuta negli anni Novanta è “la meno religiosa che ci sia mai stata”. Se nella Russia post-sovietica uscita dal totalitarismo e dalla triste imposizione dell’ateismo la gente si è sempre più identificata con la religione e la Chiesa ortodossa ha guadagnato potere, in questi ultimi anni il processo si va invertendo.

Un dio nella testa

La credenza in un dio resiste, secondo diversi psicologi cognitivi, perché sfrutta “alcuni tratti della psicologia umana che si sono evoluti per motivi non religiosi”. Come la tendenza a individuare una intenzionalità simile a quella umana anche dove non c’è, sulla base del cosiddetto Hadd (hypersensitive agency detection device), capace di favorire la sopravvivenza degli ominidi in un ambiente ostile come poteva essere la savana.

L’idea di un “dio benevolo a nostra immagine e somiglianza”, “una finalità superiore” e la credenza in una vita dopo la morte, possono aiutare a “vincere la paura esistenziale e l’incertezza”. Favoriscono la religione il senso di autorità verso figure di “culto” e la tendenza a conformarsi alle norme sociali. Azioni eclatanti, come “atti di fede estremi” (digiuno, autoflagellazione, martirio) sono “manifestazioni che aumentano la credibilità” (i cosiddetti Creds). Gioca anche il maggior controllo sociale garantito dalle religioni: se le persone “si sentono sorvegliate” (ad esempio da un dio che si crede veda tutto), “tendono a comportarsi meglio e a collaborare di più”, almeno in passato.

Ma il fatto che la fede sia “naturale” non deve far cadere nella fallacia naturalistica, che ritiene giusto e normale ciò che avviene e santifica, per così dire, lo status quo. Lawton si chiede: “se la fede ci viene così naturale, perché esiste l’ateismo?”. In passato gli atei erano “una piccola minoranza”, di solito colta, e per superare i condizionamenti religiosi occorreva un “duro lavoro cognitivo”. Tale “ateismo cognitivo” rimane la “strada più comune” per diventare increduli, specie nei paesi dove è promosso il pensiero scientifico. Ma non è l’unica causa. Tante persone lontane dalla religione non si dichiarano esplicitamente atee, tant’è che Norenzayan afferma: “non sempre per arrivare a rifiutare la fede è necessario un duro lavoro cognitivo“.

Se la religione “prospera sull’angoscia esistenziale”, scrive Lawton, tra i motivi dell’abbandono della fede c’è semplicemente questo: tante persone “non hanno più bisogno del suo conforto”. Non è un caso che la secolarizzazione si diffonda in paesi più stabili, liberi, ricchi, che garantiscono una rete di sicurezza, assistenza sanitaria e welfare, nonché tra le fasce sociali che vivono meglio, come evidenzia il Global index of religion and atheism. Norenzayan chiama questo tipo di incredulità “apateismo” (fusione con il termine apatia, nel senso di ateismo pratico): “non è tanto una forma di dubbio o di scetticismo, quanto di indifferenza; semplicemente non pensano alla religione”. Un termine che ci sembra però un po’ ingeneroso, visto il connotato negativo e il sentore di passività che sottintende. Forse, più semplicemente, tanti sono atei perché vivono bene con se stessi e con gli altri consapevoli della propria natura umana e non hanno bisogno di stampelle psicologiche per far fronte alle angosce esistenziali.

Da parte cristiana — ma non solo — si tende a minimizzare l’ateismo, riducendolo all’indifferentismo: per alcuni non esiste e non può esistere. Messa così, appare una negazione tramite rimozione psicologica. Si fa notare, come fa Pascal Boyer, che tra i non credenti ci sono comunque tante persone con un approccio spiritualistico e che pensare religiosamente è “normale”. Ma quanti sono i credenti sicuri al 100% della propria fede e in quante occasioni di fatto fanno come “se dio non ci fosse”? La realtà è sicuramente complessa e ci porta, a seconda degli stimoli, a essere più o meno sensibili a certe idee.

Per Norenzayan la questione è infatti semantica: “non mi interessano tanto le etichette quanto la psicologia e i comportamenti. Le persone dicono di credere in dio? Vanno in chiesa, alla sinagoga o alla moschea? Pregano? Trovano un senso nella religione? Queste sono le variabili che ci dovrebbero interessare”. D’altronde il trionfalismo degli apologeti lascia il tempo che trova, se queste persone comunque non credono nel dio cristiano e non considerano una certa chiesa come portatrice di verità. È anche vero che la secolarizzazione non comporta una meccanica vittoria del razionalismo: “il bisogno del soprannaturale” rimane diffuso, con il prosperare di credenze paranormali non necessariamente legate a religioni tradizionali (come gli ufo e il karma, ma per estensione anche il complottismo).

Alla luce di tutto questo, si nota che la secolarizzazione ha più probabilità di mantenersi se nelle società c’è benessere ed è sfavorita dove le disuguaglianze sono marcate (come negli Usa). I danni causati da disastri ambientali, cambiamenti climatici e altre crisi tali da incrinare le sicurezze delle nostre società potrebbero anche invertire la tendenza laica: ma si tratta appunto di fattori storici, economici e sociali.

Lo spauracchio di una società più laica

Uno dei motivi per cui l’ateismo si diffonde, sostiene il teologo Stephen Bullivant della St Mary University di Londra (tra i curatori dell’Oxford Handbook of Atheism), è poi la sua più facile persistenza da una generazione all’altra: “è estremamente insolito che una persona cresciuta in una famiglia laica diventi religiosa”, mentre “non è affatto insolito” il contrario. Secondo le ricerche, chi ha genitori praticanti ha circa la metà delle probabilità di seguirli, mentre solo il 3% di chi cresce in un contesto laico abbraccia la fede. Su questo possono incidere le illimitate possibilità aperte dalla cultura moderna e dalla tecnologia (si pensi recentemente alla rivoluzione portata dai social network), che permettono di accedere a informazioni prima censurate dal controllo religioso e di entrare in contatto con altre persone scettiche.

Vista la crescita di famiglie non religiose, ci si pone il problema di come far convivere credenti e non nella coppia e in che modo educare in senso laico i bambini senza la religione. Inoltre, contrariamente ai luoghi comuni secondo cui quando si invecchia si crede di più a causa dell’approssimarsi della fine (che fanno fiorire anche la favolistica sulle conversioni), l’opinione sulla religione tende a stabilizzarsi passata l’adolescenza e non cambia, a parte rarissime eccezioni.

Diffusi, anche da parte laica, sono i timori che una società “senza Dio” degeneri e che la fede sia invece necessaria per non cadere nel caos, uno dei cavalli di battaglia del papa emerito Ratzinger e di altri profeti di sventura legati a una visione tradizionale e contraria al relativismo. In realtà, spiega Zuckerman con un’analisi globale del 2009 che ha messo a confronto religiosità e parametri del benessere sociale (come ricchezza, uguaglianza, diritti delle donne, istruzione, aspettativa di vita, mortalità infantile, gravidanze precoci, diffusione di malattie veneree, tasso di criminalità, suicidi e omicidi) “più un paese è laico e meglio se la cava”. Zuckerman è convinto che “certi aspetti della visione laica della realtà contribuiscano a creare società più sane”, a beneficio anche dei credenti: ritenere che “questo sia l’unico mondo che abbiamo” e non ci sia un aldilà spinge a “renderlo migliore che puoi”; l’importanza data alla scienza, all’istruzione e alla razionalità spinge a cercare soluzioni concrete (“per mettere fine alla criminalità”, sintetizza, “dobbiamo pregare o combatterne le cause?”).

Altro punto discusso dall’articolo è quello del legame tra religiosità, salute e felicità. Di solito si sente dire che i credenti sono più sani, ma tale correlazione sfruttata spesso dagli apologeti è messa in dubbio: una meta-analisi su 226 di questi studi ha fatto emergere “problemi metodologici e conclusioni errate”. Le poche ricerche sugli atei non danno differenze rispetto ai credenti, mentre se si parla di gruppi sociali, dove ci sono più atei c’è una migliore salute pubblica.

La religione quindi gioca su meccanismi psicologici e bisogni tipicamente umani: per questo Norenzayan sostiene che “non possiamo liquidarla dicendo semplicemente che è una forma di superstizione”. Ciò dovrebbe far pensare anche tanti atei sul modo in cui si confrontano alla religione. Ma per consolidare l’ateismo bisogna anche riflettere sulla necessità di trovare “soluzioni alternative agli eterni problemi della vita che la religione cerca di risolvere” e favorire la socialità. Per questo Lawton vede bene le riunioni della “congregazione laica”, che vanno incontro alle esigenze dei non credenti che “sentono il bisogno di una comunità” e di “una visione morale condivisa”, sono capaci di esprimere “valori laici” e “il messaggio che anche una società senza dio può essere sana”. “Se questo significa accettare un certo livello di irrazionalità new age, pazienza”, conclude.

Per questi motivi Lawton immagina una futura società “atea” ben diversa da “quella fredda e razionale” di Weber e Durkheim (o di Dawkins e dei “nuovi atei”): “più indifferente che ostile alla religione, ma tutto sommato una società sana”, simile a quella britannica odierna. Non abbiamo modo di sapere, non avendo la palla di vetro né la tendenza all’esaltazione, se un mondo più lontano dalla religione sarà migliore. Possiamo dire intanto — ed è già tanto — che la diffusione dell’ateismo non crea disastri o scompensi e non genera mostri come paventato. Fatto sta che, per affrontare i problemi concreti delle persone e delle società, riteniamo preferibile un approccio razionale, fondato sul buonsenso, positivo e propositivo, tollerante, aperto e rispettoso dei diritti e delle libertà, piuttosto che l’appello a divinità e a credenze non dimostrabili spacciati come panacea per tutti i mali, o a una visione pessimistica e chiusa che ritene inutile qualsiasi impegno.

C’è un fecondo dibattito anche tra gli intellettuali atei su come fare e su come rapportarsi alla religione, con approcci differenti. Senza dimenticare che tantissime persone riescono a vivere bene anche “senza D”, contrariamente a una serie di luoghi comuni che vorrebbero indispensabile la religione. Chi vivrà vedrà: intanto, possiamo già impegnarci nel nostro piccolo dando il meglio per rendere tutto questo possibile, nel rispetto di noi stessi e di chi ci sta intorno, nell’unico mondo che abbiamo a disposizione.

 
 
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